ultimora
Public Policy

L'editoriale di Terza Repubblica

L'etica della responsabilità soppianti quella delle buone intenzioni

IL PD IN MANO A LETTA È COME L’ITALIA NELLE MANI DI DRAGHI

di Enrico Cisnetto - 13 marzo 2021

Per il Pd passare dalla segreteria Zingaretti a quella Letta è una benedizione come per l’Italia aver visto passare da Conte a Draghi alla guida del governo. Forse un vantaggio non proprio della stessa identica misura – sarei troppo ingeneroso nei confronti del presidente della Regione Lazio, istituzione che in campo sanitario sta clamorosamente battendo la più blasonata Lombardia nel fronteggiare la pandemia – ma pur sempre un gran salto di qualità. E non solo per la cifra del mio amico Enrico, iperuranicamente diversa da quella del fratello di Montalbano, ma anche perché a Letta basteranno poche cose – evitare di essere strumento nelle mani di Bettini; sottrarsi al compiacimento di confrontarsi con le Sardine e altri fenomeni da baraccone simili; derubricare da strategica a tattica e momentanea l’alleanza del Pd con i 5stelle – per già lasciare il segno del suo passaggio su quella tolda. Passaggio che per lui mi auguro breve, visto che a Parigi, dove si era autoesiliato anni fa dopo aver constatato che con Renzi non c’era da stare sereni, si è costruito un profilo da (giovane) riserva della Repubblica, e l’Italia di uno con il suo profilo ha bisogno come il pane, per incarichi istituzionali interni e internazionali di alto lignaggio.

Bene per tutti noi, dunque, che Letta diventi segretario del Pd. Perché, piaccia o non piaccia, negli ultimi dieci anni, cioè dalla caduta dell’ultimo governo Berlusconi e l’arrivo di Monti, passaggio che ha segnato la fine della Seconda Repubblica e del bipolarismo malato, il Pd è stato il perno del sistema politico italiano. E non solo perché con la sola eccezione dei 15 mesi del Conte 1, è rimasto ininterrottamente al governo, ma perché è stato il solo partito che ha assunto la governabilità – intesa come dare al Paese un governo purchessia – quale suo fondamentale motivo di esistere. Contro questa o quella emergenza, contro questa o quella deriva (“per espellere le tossine di anti-politica di cui è carico il grillismo”, “per arginare e circoscrivere il riemergente pericolo fascista”, ecc.). E come se non bastasse, è intorno ad esso e alla sua “centralità” nel sistema di potere che la classe dirigente dell’amministrazione pubblica, come pure una certa nomenclatura confindustriale, ha trovato rappresentanza e protezione. Elevandolo a “partito-sistema”. Come nella Prima Repubblica era per la Dc, salvo differenze che il passare del tempo rende sempre più abissali a favore di quel che fu).

Insomma, nel bene e nel male, nell’ultimo decennio il Pd è stato fondamentale – anche nell’accezione più negativa, cioè come principale protagonista del declino nazionale – e ora la sua crisi è la cartina di tornasole della drammatica emergenza politico-istituzionale che viviamo. Infatti, finché è stato possibile mantenere quel ruolo cardine, il partito ha assorbito tutte le infinite convulsioni interne – tant’è che Letta sarà il nono leader e la sua sarà l’undicesima segreteria (Renzi e Martina lo sono stati due volte, Veltroni, Franceschini, Bersani, Epifani, Orfini e Zingaretti una) in 14 anni di esistenza – ma non appena esso è venuto, per effetto dell’incapacità di contrastare efficacemente l’epidemia e corrispondere alle aspettative europee una volta aperti i cordoni della borsa con il Recovery, ecco che gli equilibri sono saltati e Zingaretti è stato costretto ad alzare bandiera bianca in maniera sgangherata. Il vuoto creato dall’implosione del sistema politico che ha indotto il presidente della Repubblica a ricorrere a Draghi è dunque causa e conseguenza della crisi del Pd. Latente prima che l’arrivo di Draghi togliesse il velo alle ipocrisie su cui quella latenza si poggiava, e che lo hanno reso un partito governista senza condizioni, disposto ad essere subalterno a chiunque gli garantisca di mantenere il potere.

D’altra parte, le contraddizioni di questo partito, nato da una fusione a freddo del tutto verticistica, vengono da lontano. Già l’anno dopo la sua nascita, D’Alema lo definì “un amalgama malriuscito” (ed è difficile dargli torto, tanto più ora). Nel frattempo non è cresciuto, diviso com’era e come è rimasto – nonostante il ciclone Renzi che lo ha attraversato – non solo tra gli eredi del Pci e quelli della DC, ma anche tra un riformismo rozzo e un massimalismo con venature populiste, uniti solo per la comune genuflessione al cospetto del politicamente corretto. E ora, che è riuscito a distinguersi tra gli orfani di Conte che lo invocano nientemeno che come federatore della sinistra (come se i pentastellati, nati privi di cultura e ancoraggi politici, lo fossero, di sinistra) e i sostenitori di Draghi, Letta se lo ritroverà ancora del tutto privo di un’identità, di un’idea di come dovrebbe essere lo sviluppo di un paese in declino strutturale, ma semplicemente ancorato ad un pragmatismo di basso conio, buono solo per accumulare un po’ di potere (peraltro formale, che quello sostanziale, ben più importante, non sanno neppure dove stia di casa).

Non è nel carattere di Letta sposare tesi forti come quella di Bertinotti (“il Pd farebbe meglio a sciogliersi e poi a ripartire da zero”), di  Asor Rosa, che sostiene che la sinistra italiana non esiste più, o di Cacciari che è ancora più drastico. Anzi, ha chiesto unità, inclusione. Parole che in un partito affetto da finto unanimismo formale ogni volta che è davanti ad un bivio decisionale – salvo dividersi in correnti, e per di più personali, prive di caratterizzazioni politiche precise – rischiano di trasformarsi in un boomerang, che per evitare salti nel buio, veri o presunti, finisce per stingere il dibattito laddove invece avrebbe bisogno di arricchirsi di solide distinzioni politiche, lasciando che gli unici conflitti siano quelli dei capibastone intenti a imporre uomini e non idee. Sia chiaro, non mi passa neanche per l’anticamera del cervello di demonizzare le correnti. Ma un conto è se sono aree di riferimento culturale e di elaborazione programmatica, altro se si riducono a mere filiere di potere (se non peggio, a livello locale).

Viceversa, è nelle corde di Letta emanciparsi sia da coloro che vorrebbero un Pd a immagine e somiglianza di Corbyn e praticano il credo del “niente alla nostra sinistra”, anche a costo di far proprio lo squadrismo giustizialista, sia da quei presunti liberal che si professano keynesiani senza aver mai letto un rigo di John Maynard Keynes e dunque credono che l’autore della “Teoria generale” sia stato un incallito statalista fautore della spesa pubblica senza limiti. Il passaggio storico che viviamo, cioè da un lato la ricostruzione dell’Italia sulla base di una nuova modernità e la definitiva integrazione federale dell’Europa all’interno di una ridefinizione dell’alleanza atlantica, e dall’altro l’evoluzione del capitalismo e della globalizzazione verso l’accettazione di nuove compatibilità, è pane per i denti di Letta. Tanto più se tutto questo si traduce nell’appoggiare, esercitando primazia politica e non praticando il puro appiattimento che Zingaretti ha avuto con Conte, un governo come quello Draghi, che – al di là delle capacità organizzative che dovrà mettere in campo per vincere la battaglia della vaccinazione anti-pandemica, precondizione di qualsiasi altra azione riformatrice – dovrà scrivere e realizzare il piano di rilancio economico e di trasformazione strutturale del Paese nell’ambito di una mai avuta leadership europea. Letta avrebbe potuto essere un ottimo vicepresidente del consiglio con Draghi a palazzo Chigi, ora può esserlo di fatto quale leader di un partito fondante della “larga maggioranza” che sostiene l’esecutivo dell’ex presidente della Bce. 

Per far bene, Letta non dovrà diventare vittima dell’ansia da prestazione elettorale, ma far germogliare il dibattito delle idee facendo venire alla luce le distinzioni. Dovrà agevolare, non denigrare avendone timore, il processo di trasformazione in atto nella Lega, facendo in modo che nessuno dei due partiti debba più essere subordinato al populismo grillino, sia nella forma apparentemente di sinistra del massimalismo radicaleggiante sia in quella destrorsa di stampo peronista. Sapendo che questo processo – necessariamente lungo e tortuoso – non potrà da subito far scaturire un bipolarismo che soddisfi la pruderie maggioritaria di quella parte del Pd che amerebbe una legge elettorale alla francese, ma potrà e dovrà favorire una evoluzione del sistema politico nel suo insieme che eviti al governo (a questo come a quelli che verranno) i traumi prodotti da campagne elettorali permanenti. A noi che amiamo la democrazia e questo benedetto Paese, ci basterebbe che la segreteria Letta del Pd consacrasse nella dinamica politica dei partiti l’assunto su cui è nato il governo Draghi: questo è il momento della convergenza dei differenti. Non per appiattirsi e confondersi, ma spogliarsi delle identità posticce e conquistare quelle vere e profonde. Passare dall’etica delle (presunte) buone intenzioni all’etica della (dura) responsabilità. Buon lavoro, Enrico.

Social feed




documenti

Test

chi siamo

Terza Repubblica è il quotidiano online fondato e diretto da Enrico Cisnetto nato nel 2005 dall'esperienza di Società Aperta con l'obiettivo di creare uno spazio di commento indipendente e fuori dal coro sul contesto politico-economico del paese.