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L'editoriale di TerzaRepubblica

Giustizia malata, politica debole

LA GIUSTIZIA MALATA SPIEGA PERCHÈ L’ITALIA SI DIVIDE TRA CHI VUOLE I PIENI POTERI E CHI VUOLE I POTERI DEBOLI

13 dicembre 2019

La democrazia italiana è malata da tempo. E come per un corpo molto debilitato, quando le patologie sono diverse il rischio è di sbagliare diagnosi e tentare di curarne ciascuna come se fosse solo quella, senza avere una visione complessiva dei problemi. È ciò che sta accadendo in questi giorni, quando la vicenda giudiziaria relativa alla fondazione Open, nata a sostegno dell’azione politica di Matteo Renzi, ha riportato la questione del finanziamento ai partiti e alla politica al centro della scena. Ma è cosa che – secondo quel che si dice sia nei palazzi romani che negli ambienti, anche giornalistici, vicini alle procure – potrebbe presto riguardare anche l’altro Matteo della politica nostrana, Salvini. Su cui si addensano nubi di vario tipo, tra la vecchia questione dei 49 milioni della Lega spariti e la non chiarita vicenda del rapporto con la Russia di Putin (il cosiddetto “caso Metropol”), tra i viaggi con gli aerei di Stato e altre questioni più personali.

Renzi, in un intervento al Senato che è stato impropriamente accostato a quelli di Moro del 1977 (“la Dc non si farà processare nelle piazze”) e Craxi del 1992 (“siamo tutti colpevoli”), si è difeso con veemenza ponendo il problema di chi possa decidere l’equivalenza o meno tra una fondazione e un partito e sostenendo che l’inchiesta che riguarda lui e persone vicine a lui, non essendo basata su un’accusa precisa e dimostrabile, alla fine si rivelerà come una azione pretestuosa e intimidatoria. Dunque, eversiva. Con ciò evocando un tema, quello del rapporto malato tra politica e magistratura, che è dalla nascita di Tangentopoli, o se si vuole dall’inchiesta Mani Pulite, cioè da oltre un quarto di secolo, che non trova soluzione. È da questo nodo irrisolto che nascono tutti i fenomeni politici di natura populista che hanno tentato di tentato di essere la (fasulla) risposta al problema: la Lega di Bossi, Berlusconi, la gioiosa macchina da guerra e le sue successive evoluzioni, i vari partiti personali, Renzi, Grillo, Salvini. Tutta roba o programmaticamente giustizialista o finto garantista (per furbizia o per incapacità). Con risultato che siamo ancora qui a parlarne, assistendo all’infinito perpetuarsi dell’uso improprio delle indagini giudiziarie, brandite come arma per estromettere avversari (spesso interni) che non si riescono a battere sul terreno delle idee e del consenso. Ecco perché a Renzi è toccato evocare distorsioni mille volte denunciate (sempre quando se ne era vittime, quasi mai quando toccava ad altri subirle): dall’uso sproporzionato delle intercettazioni a quello inutilmente spettacolare delle perquisizioni, dalla divulgazione degli atti di indagine al ricorso eccessivo alle misure interdittive. Si potrà obiettare che il fondatore di Italia Viva ha, come politico, scarsa credibilità in questa lamentazione, non solo per non aver fatto nulla, quando ne aveva le possibilità, per curare la giustizia malata, ma per aver viceversa dato un contributo non indifferente alla deriva forcaiola, per esempio inventandosi uno strumento come l’Anac che si è aggiunto, appesantendolo, al potere esorbitante della magistratura inquirente. Tuttavia, Renzi o non Renzi, la questione della surroga esercitata dal potere giudiziario resta. Quel che manca è la risposta.

In un ottimo intervento in Aula – finalmente un colpo d’ala di un esponente della classe politica che per il resto continua a razzolare nel fango dell’ignoranza e dell’ignavia – il senatore Lugi Zanda ha teso a rovesciare i termini del problema: “il punto centrale non è il nodo irrisolto del finanziamento della politica, quanto la decadenza del Parlamento”. Vero, la questione è la democrazia malata, cioè un sistema politico che dopo la fine della Prima Repubblica non ha mai più trovato un suo stabile equilibrio, una modalità del fare politica che nega i partiti e la loro vita interna ed esalta il leaderismo e le forme di comunicazione che producono “presentismo”, un assetto istituzionale vecchio, inefficiente e pletorico. Ma è altrettanto vero che se oggi, come denuncia Zanda, sono in discussione l’assetto costituzionale dei vertici dello Stato, la natura parlamentare rappresentativa della nostra democrazia e la centralità e il ruolo del Parlamento, a favore di una miscela letale che somma astruse forme di democrazia diretta, derive autoritario-peronistiche e impostazioni sovraniste, è perché si è lasciato che nel corso del tempo la denigrazione e demonizzazione della politica e dei suoi tradizionali strumenti corrodesse l’immagine stessa della Stato liberale e democratico. Per viltà, si è lasciato crescere nel Paese l’idea che l’esercizio della politica non dovesse avere costi e che tanto il finanziamento pubblico quanto le diverse forme di quello privato fossero un danno per i cittadini e un favore alla “casta”. Di conseguenza, che il numero dei parlamentari andasse ridotto – per risparmiare e come forma punitiva – e che i loro diversi appannaggi, a cominciar dai cosiddetti vitalizi, fossero un’odiosa ruberia. E che tutto ciò che concorre al decoro delle istituzioni e dei loro interpreti siano soltanto intollerabili privilegi. Ci si è dimenticati che i padri costituenti la nostra Repubblica di fronte al delicatissimo tema delle guarentigie e delle indennità da assegnare ai parlamentari e alle più alte cariche dello Stato, non ebbero dubbi nel scegliere gli strumenti che più assicuravano l’indipendenza, l’autonomia, l’autorevolezza e il decoro. E si è scelta la più facile, ma assai pericolosa, strada dello svilimento da dare in pasto ad un’opinione pubblica affamata di falso egualitarismo e di giustizia manettara.

Per questo, ora non ci si meravigli se, come ci racconta il Censis, la metà degli italiani invoca “l’uomo forte” a cui dare senza riserve “pieni poteri”, mentre l’altra metà coltiva la speranza che “andare in piazza” per negare legittimità ai primi sia la medicina giusta per la malattia italica. In realtà, una società siffatta è nello stesso tempo causa e conseguenza della democrazia sofferente. Dopo essersi illusi che chi gridava più forte e pronunciava parole suadenti ad orecchi che volevano sentirsi dire che le colpe sono solo dei rappresentanti e mai dei rappresentati, per poi disilludersi dopo averli visti maneggiare il potere – con uguale protervia e con minore competenza dei precedenti, via via che si sono succeduti sulla scena – a quegli italiani ora non rimane che l’ultimo stadio delle speranze malriposte: il “decisionista” che, pur salvaguardando la forma della democrazia, la superi nella sostanza prendendo poteri assoluti. D’altra parte, in ciò confortati dalla constatazione – ahinoi, fondata – che nel mondo vanno per la maggiore quei paesi che hanno adottato sistemi decisionali per così dire sbrigativi (Cina, Russia, Turchia) o che tendono a dare alla democrazia curvature un po’ autoritarie (gli Stati Uniti di Trump). E nello stesso tempo indotti alla rassegnazione, non senza ragione, nel vedere le democrazie liberali produrre leadership sempre più sbiadite e l’Europa annaspare nel suo processo di integrazione. Non è una giustificazione, ma è giusto analizzare i fenomeni sociali per quello che sono. Così come la nascita del movimento delle sardine – lungi dall’essere un nuovo ’68 – mostra ancora una volta i limiti del movimentismo di sinistra, non solo perché è esclusivamente di protesta, ma perché pretende di avere il diritto di attribuirsi la patente del “bene” e di attribuire a chi non piace quella del “male”. Capiamo che alla “banda del Foglio”, sempre alla ricerca di qualche idolo da elogiare, piaccia l’idea che questi “pesciolini” siano contro coloro che si autodefiniscono nazional-populisti. Anche a noi fa piacere, figurarsi. Ma è troppo poco. Vorremmo sentire parole d’ordine al tempo stesso meno apodittiche e più coraggiose. Per esempio, che togliere ora la prescrizione dei processi, come vogliono fare i 5stelle e il loro ministro Bonafede, significa dare un colpo mortale, definitivo, al già pesantemente compromesso Stato di diritto. O riconoscere che in una democrazia liberale la rappresentanza dei cittadini e l’esercizio della attività politica hanno il valore di un vero e proprio bene pubblico, che va finanziato per impedire distorsioni e degenerazioni. Dubitiamo che dalle piazze giungano messaggi di questo tipo, anche se saremmo felicissimi di essere contraddetti.

Noi, però, rimaniamo pervicacemente convinti che l’Italia non si esaurisca nella somma tra chi vuole i pieni poteri e chi vuole i poteri deboli. C’è una terza Italia. L’altra Italia, come la chiamava, evocandone il sussulto, Ugo La Malfa. Solo che deve smettere una volta per tutte di indossare i panni di Don Abbondio.

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