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L'editoriale di TerzaRepubblica

Tutti i teatri della crisi

PRAGMATISMO Sì, FURBIZIA NO, SU GRECIA, RUSSIA E LIBIA CI GIOCHIAMO LA PELLE

21 febbraio 2015

La storia è come la montagna: se l’affronti con leggerezza e spavalderia, senza adeguata preparazione e sottovalutando i pericoli, prima o poi ti presenta il conto. Salatissimo. Speriamo non sia così per l’Italia, che si accinge ad affrontare – temiamo con una presunzione inversamente proporzionale alla padronanza dei temi – una di quelle coincidenze che la storia raramente ti combina. Infatti, nello stesso momento e con gli stessi attori sulla scena (salvo che in ciascuna delle vicende assumono ruoli diversi se non opposti), nella geopolitica mondiale s’intrecciano e si sommano tre questioni che, giocoforza, ci vedono coinvolti: la Grecia, l’Ucraina e la Libia. Robe da far tremare le vene ai polsi se affrontate singolarmente, figuriamoci messe nello stesso frullatore.

La Grecia è soprattutto un problema politico, per molti versi interno alla Germania, come ha intelligentemente notato Giorgio La Malfa in una serie di articoli sul Mattino di Napoli. Ma il campo di battaglia è quello del debito e degli sconti che Atene chiede non solo per respirare sul piano finanziario ma anche e soprattutto per marcare la discontinuità del governo Tsipras con il precedente, che si era piegato alla troika e alle politiche di austerità di marca tedesca. E su quel campo ci siamo anche noi per almeno quattro motivi. Primo: perché siamo il paese dell’eurozona che con 2.135 miliardi ha il debito più grande in valore assoluto e il secondo in percentuale sul pil (133%) dopo la Grecia (la Germania è a 2.040 miliardi ma ha 2900 miliardi di pil). Ma soprattutto, il debito italiano rappresenta quasi un quarto del debito totale dei 18 paesi euro. Secondo: perché la trattativa sulla Grecia ha in palio non solo la tenuta della moneta unica nella temperie dei mercati, ma anche la tenuta dell’eurosistema lato regole di Maastricht, e in entrambi i casi la cosa ci riguarda da vicino. Terzo: perché in tempi di deflazione la sostenibilità dei debiti pubblici si fa sempre più debole, e se dopo Atene toccasse a Roma sarebbero guai mortali. Quarto: perché il governo greco, di fronte alle resistenze tedesche, potrebbe scegliere di trovare aiuto nella Russia, e di questi tempi, con lo scacchiere orientale del Vecchio Continente in ebollizione, non sarebbe cosa di poco conto. E come noto fin dai tempi della Jugoslavia di Tito, su quel confine ci siamo noi più di chiunque altro.

E qui veniamo alla seconda delle grandi questioni che sono sul tavolo, l’Ucraina. O per meglio dire, la questione Putin. Abbiamo già detto nei mesi scorsi che ci sono tanti buoni motivi per essergli se non alleati, almeno non ostili – a cominciare da quelle energetiche e commerciali – e altrettante per starne alla larga, se non proprio nemici, considerate le mire espansionistiche di stile sovietico che lo animano. L’unica cosa che non si può fare è quella che abbiamo fatto fin qui: surfeggiare tra l’una e l’altra ipotesi, di volta in volta facendo da sponda ai tedeschi che lo spalleggiano e agli americani che lo contrastano. Per giocare la partita dei “due forni” occorrono abilità che non vediamo in giro, e insistere senza averne i mezzi significa rischiare di prendere il peggio di entrambe le ipotesi: Berlino non ti considera alleato e non ti fa triangolare, Washington non ti considera allineato e quindi ti cataloga come amico dell’orso russo. Meglio invece scegliere una delle due strade con nettezza: sai i problemi che ti comporta, ma porti a casa con certezza i vantaggi. Quale delle due strade imboccare? Se dovessimo valutare in astratto, come se sullo scacchiere questo fosse l’unico tema rilevante, non avremmo dubbi a rispondere: dalla parte americana, con la Nato. Ma sarebbe sciocco ragionare senza tener conto sia del problema di cui abbiamo detto, sia della terza questione in ballo, la questione libica e dell’Is in generale. Forse la questione più spinosa, certamente la più urgente. E qui partiamo con l’handicap, perché dichiarare guerra il venerdì con presidente del Consiglio, il ministro degli Esteri e quello della Difesa che spendono parole più che impegnative, per poi due giorni dopo dire che si è scherzato e richiamare alla calma i guerrafondai (chi?), non è proprio un buon viatico per chi ha l’ambizione di recitare un ruolo da protagonista, e avrebbe comunque tutto il vantaggio ad esserlo, al di là dei personalismi, per meglio tutelare gli interessi nazionali. Anche qui, si può discutere se sia meglio scegliere la strada dell’intervento o con quali modalità – ci pare che prendere atto del ruolo dell’Egitto sia la cosa più sensata – o quella della mediazione, come suggerisce uno pure duro come il generale Carlo Jean, secondo il quale è preferibile che la matassa libica sia dipanata soprattutto dagli stati arabi. Ma non si può oscillare a ore alterne tra Antonio Martino (interveniamo, e non c’è bisogno di chiedere il permesso all’Onu) e il pacifismo alla Gino Strada. Così come non si può decidere da che parte andare senza tener conto degli equilibri in movimento anche su gli altri fronti. La politica estera patchwork – qui con Usa e Israele, là con arabi e russi, oggi con Atene e domani con Berlino – può far comodo ma è il miglior modo di farsi male. Il pragmatismo è un’ottima cosa se poggia su scelte di fondo inequivocabili, altrimenti diventa furbizia levantina. E noi, deboli sotto ogni punto di vista e vasi di coccio in mezzo a tanti pezzi di ferro, non ce lo possiamo permettere di fare i furbi. Figuriamoci i bulli.

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