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Sfruttando la congiutura favorevole

L'ora della verità

Il nostro capitalismo non aspetti la ripresa e si rimbocchi le maniche

di Enrico Cisnetto - 19 aprile 2015

La recessione è finita, la ripresa si affaccia – seppure molto timidamente – mentre la congiuntura (tassi, cambio, petrolio, liquidità) non è mai sta così favorevole. Per il capitalismo italiano, che non ha mai compiuto, se non a macchia di leopardo, l’indispensabile turnaround verso un modello di sviluppo in sintonia con la globalizzazione e gli standard delle nuove tecnologie, è il momento della verità. Peccato che le imprese ci arrivino appesantite dal fardello di un debito che l’Fmi stima sia arrivato al 76,7% (era al 71,5% nel 2007), cifra che fa scopa con l’ultimo dato Abi sulle sofferenze bancarie, che hanno raggiunto il nuovo record di 187,3 miliardi a febbraio (+25 in un anno). Il che ci consente di sapere che quelle italiane sono oltre il 20% dei 900 miliardi cui ammontano le sofferenze dell’eurozona. A questo si aggiunge che, nonostante i tassi di interesse siano al minimo storico (quelli alle aziende sono in media al 2,36%), i prestiti continuano a calare (-0,9% a marzo in termini tendenziali).

Che fare? Molte cose. L’Fmi sostiene che per massimizzare gli effetti del quantitative easing occorre maggiore chiarezza sugli standard regolatori e una revisione della normativa sulla bancarotta. Bene, questa è la prima. La seconda è disintermediare le imprese dalle banche, visto che il nostro sistema finanziario, con gli istituti di credito erogano il 64% dei capitali disponibili sul mercato, è ancora troppo bancocentrico. Terzo, occorre lavorare ad un drastico risanamento dei bilanci del settore privato sbloccando quei fondi, anch’essi privati, che non trovano opportunità d’investimento con rendimenti adeguati. E siccome la ricchezza privata in Italia ammonta a oltre 8.640 miliardi, cioè 4 volte il debito pubblico e cinque volte e mezzo il pil, le risorse da portare a capitale di rischio e quindi a investimenti produttivi, certo non mancano. Chi manca, invece, sono gli investitori istituzionali domestici, pochi, poco liquidi e per nulla innovativi.

Allora dove cercare i capitali? La Cina si sta concentrando solo sui grandi investimenti, la finanza petrolifera guarda agli immobili. La soluzione potrebbero essere gli investitori statunitensi, attratti dall’Europa, e dall’Italia in particolare, spinti dal superdollaro oltre che da rendimenti sui mercati interni troppo bassi. Basti pensare che da soli i primi cinque fondi Usa (Blackrock, Vanguard, State Street, Pimco e Fidelity) controllano investimenti per 12.770 miliardi di dollari, ma in Italia tutti gli investitori americani hanno investito una trentina di miliardi di dollari, meno dell’1% degli investimenti Usa nel mondo. Siamo solo al 24mo posto. Ma come si fa a convincere Warren Buffet & company ad investire da noi? Ovviamente occorre un quadro politico più rassicurante che in passato, ma farebbero la differenza tre cose: leggi che tutelino maggiormente i creditori; un sistema bancario più moderno, capace di guardare a strumenti finanziari più sofisticati (per esempio i bond); un impianto fiscale più favorevole ai soggetti finanziari che investono nelle imprese (in particolare: semplificazione della compliance sulle imposte e azionalizzazione delle norme sulle imposte aziendali, compresa la deducibilità di specifici costi e delle operazioni cross-border).

Invece di chiacchierare di una ripresa che ancora non c’è, non ci si potrebbe rimboccare le maniche? (twitter @ecisnetto)

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Terza Repubblica è il quotidiano online fondato e diretto da Enrico Cisnetto nato nel 2005 dall'esperienza di Società Aperta con l'obiettivo di creare uno spazio di commento indipendente e fuori dal coro sul contesto politico-economico del paese.