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Le scelte del Pd in campo finanziario

Più tutela per il contraente debole

Per favorire concorrenza e sviluppo sono necessarie nuove formule dirigistiche

di Angelo De Mattia - 28 febbraio 2008

E’ una scelta realistica: pur se trattati con una apparente frammentarietà, sono coerenti e riconducibili ad una visione unitaria le proposte di interventi nel sistema finanziario e nel più vicino comparto societario contenute nel programma del Partito democratico. Le proposte sono strettamente collegate agli effetti che si vogliono conseguire sull’economia reale. Risponde all’esigenza della tutela del contraente debole e della facilitazione dell’accesso al credito l’obiettivo, assunto dal programma, della spinta alla riduzione dei costi dei servizi bancari, alla trasparenza e semplificazione dei contratti, al miglioramento delle opportunità di finanziamento per le famiglie e imprese, all’autoregolamentazione del settore, a intese tra governo, associazioni rappresentative di interessi, parti sociali. Si insite poi nella riforma delle Authority, necessaria dopo che quella proposta nell’ora cessata legislatura non è riuscita a fare neppure un passo, anche per la inadeguata impostazione del disegno di legge. Occorrerebbe peraltro ricordare che, in questo quadro, va risistemata la proprietà della Banca d’Italia, della quale la legge sulla tutela del risparmio prevede un’assurda nazionalizzazione.

Uno spazio viene dedicato anche al microcredito per i giovani, prevedendo la possibilità di prestiti durante i percorsi formativi con estinzione posticipata agevolata. Si dirà che si tratta di obiettivi generali. E’ vero. Ma il loro conseguimento presuppone politiche di settore, nonché innovazioni normative e nei comportamenti degli organi di controllo, indugiare sulle quali sarebbe stato inutilmente pletorico in questa fase. E presuppone anche politiche avanzate di tutela e valorizzazione del risparmio, la principale ricchezza degli italiani: su di esso sarebbe auspicabile, tuttavia, una maggiore enfasi. Dove il programma si presenta maggiormente propulsivo è nel punto 8 che propone di replicare la legge Amato del 1990 – la quale ha consentito una radicale riorganizzazione del sistema bancario – applicandola anche ai settori industriali per favorire processi di concentrazione tra imprese di medie e piccole dimensioni. Si risponde così all’interrogativo che spesso è stato posto sul perché un processo di caratteri e portata analoghi a quello che ha positivamente interessato le banche a partire dalla metà degli anni ‘90 non sia avvenuto e non possa tuttora avvenire anche nel sistema industriale, per avere così “imprese più forti, per competere meglio.” A parte, poi, le iniziative per incentivare la quotazione in borsa – tema sul quale si è registrato nei primi dibattiti qualche dissenso – il programma prevede una parte dedicata alla prevenzione delle commistioni e dei conflitti di interesse. Più esplicito è laddove propone la disciplina dei rapporti con le parti correlate in modo da ridurre i benefici privati del controllo, cioè per impedire che si possano controllare gruppi societari con esigue quote di proprietà, con catene di comando articolate attraverso le piramide societarie e le scatole cinesi. Più in generale, si richiama la necessità di concentrarsi, per la prevenzione dei conflitti, sulle discipline antitrust. Si tratta di importanti passi avanti, anche se il solo intervento sulle parti correlate potrebbe risultare non del tutto sufficiente contro l’epidemia (come dice Guido Rossi) dei conflitti d’interesse, che è generata, innanzitutto dai patti di sindacato e dagli accordi di blocco. Forse occorrerebbe riesumare il disegno di legge Zanda e altri, che prevede un’organica disciplina delle catene societarie, pur nella difficoltà di una efficace prevenzione. Altri aspetti riguardano interventi agevolativi fiscali per il private equity e la tassazione dei fondi comuni sul “realizzato” anziché sul “maturato”.

Forme più avanzate di democrazia economica, in materia di risparmio, intendono affiancare a quello individuale la possibilità di un legame tra retribuzione e utili di impresa; va poi sperimentata, secondo il programma, nelle società con governance duale, la presenza di rappresentanze dei lavoratori nei consigli di sorveglianza. Si tratta di un programma, quello in materia creditizia e finanziaria, non di una Magna Carta; né di un ordine del giorno di tutte le sedute di un futuro consiglio dei ministri, né, ancora, di un ponderoso insieme di disegni di legge per un’intera legislatura. Sono molti gli altri problemi che il governo si troverà ad affrontare anche nel settore in questione: dagli effetti della crisi indotta dai subprime al ruolo degli organismi finanziari internazionali e delle autorità di controllo a livello europeo, alle ricadute interne di recenti innovazioni, quali la class action, alle possibili ulteriori fasi di consolidamento del sistema bancario. Naturalmente, molto ricade nella sfera di competenza dell’Organo di vigilanza. E’ importante che si sia definita una linea la quale, nel delicatissimo campo del credito e del risparmio, non sposa un acritico liberismo e, tanto meno, una riedizione di formule dirigistiche.

Abbattere le bardature che soffocano concorrenza e mercato non significa affatto non darsi carico delle regole, la cui adozione, nella globalizzazione, è opera ancor più necessaria, anche se complessa, per favorire trasparenza e sviluppo. Tanto che proprio a proposito della globalizzazione si è da taluno parlato della necessità di rilanciare il diritto fino a configurarne una sorta di apologia.

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