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Public Policy

I decreti d’urgenza per tamponare le falle dell’Italia

Non è il Titanic, ma fa acqua

Può la politica (o quel che rimane) ridare credibilità a se stessa e al nostro Paese?

di Elio Di Caprio - 19 luglio 2011

Cosa può fare la politica per arginare una crisi economico-finanziaria di grande portata innescata da tre anni negli USA, nel Paese patria del capitalismo finanziario più avanzato e vorace? E’ il problema dei problemi dell’epoca presente, riguarda tanto gli Stati Uniti quanto i Paesi europei e l’Italia in particolare dopo i recenti attacchi speculativi. Fa comunque un certo effetto che la stampa finanziaria internazionale accomuni le difficoltà dell’Italia a quelle odierne degli USA, anch’essi in deficit e con un debito pubblico altissimo. Vuol dire che grandi e piccoli corrono gli stessi rischi? Cosa può fare in particolare la politica in Italia dove sinistra e destra hanno dovuto arrendersi con le mani alzate a misure restrittive che mai avrebbero immaginato di proporre in campagna elettorale?

Le lezioni non finiscono qui per una classe politica che ci avverte da anni se non da decenni di un debito pubblico insostenibile, mettendoci in guardia sul fatto che l’Europa comanda e gran parte dei poteri nazionali in economia sono evaporati o comunque grandemente condizionati dalle direttive europee e poi si trova sostanzialmente impreparata di fronte a tempeste ampiamente prevedibili.

E’ ben spiegabile a questo punto la vera e propria schizofrenia comportamentale di cui ha dato prova finora il Ministro Tremonti costretto a bilanciare le più pessimistiche prefiche contro la globalizzazione e la speculazione internazionale con le continue rassicurazioni (a noi e ai mercati) che i conti e la coesione sociale sono in ordine almeno per non smentire il forzato ottimismo del suo Presidente del Consiglio.

Ma come può uno scoglio (il solo Giulio Tremonti) arginare il mare della speculazione? I mostri da videogiochi da lui evocati che continuamente riappaiono dopo essere stati apparentemente abbattuti sono un’accattivante metafora per spiegare il galoppare della crisi che ha investito l’Italia, ma non spiegano tutto. Forse il Ministro ci ha salvato dal tanto peggio, ma non ha potuto impedire il peggio che puntualmente è arrivato quando i mercati hanno puntato sull’anello debole dell’Europa, il nostro Paese, troppo grande per fallire, come si dice, ma con un debito pubblico così enorme da poter mettere a repentaglio a cascata l’intera costruzione europea.

Del resto si sta tutti pagando il conto (europeo) dell’avventata e prematura costruzione di un’E uropa allargata fondata sulla moneta unica nonostante gli squilibri e le profonde differenze di reddito e di produttività tra i diversi Paesi che vi hanno aderito per trovare una protezione maggiore alle loro economie. Le conseguenze sono ben visibili in una Germania ridiventata capofila economico di tutta l’area e fulcro imprescindibile della costruzione europea, nelle difficoltà crescenti delle economie più deboli, dalla Grecia, alla Spagna, all’Irlanda, al Portogallo, nella stessa posizione in bilico dell’Italia che non cresce e può diventare fondamentale per la (non) tenuta dell’euro. Questo lo sa bene Tremonti come lo sanno tutti gli altri Ministri finanziari ed i governi europei che da mesi continuano a correre al capezzale dell’euro.

Tutti sulla stessa barca dunque, dagli USA all’Italia, a condividere il destino del Titanic, secondo la drammatica immagine del Ministro Tremonti, tutti ammassati in coperta in attesa che qualche sconosciuto - la speculazione internazionale in agguato?- faccia calare selettivamente una scialuppa di salvataggio prima del prossimo naufragio? Sì, ma con qualche differenza.

Il piccolo Titanic italiano è ben altra cosa, si porta dietro una storia tutta sua che comincia nei tardi anni ’80, quelli dell’Italia da bere indebitata ( altro che “Milano da bere”!) quando ci infilammo allegramente e irresponsabilmente in una spirale senza ritorno perorando per primi, senza avere le carte in regola, la moneta unica europea e con già alle spalle un debito pubblico che superava il 100 per cento del PIL, accettando poi senza batter ciglio e in condizioni di svantaggio i sacrifici conseguenti che evidentemente non sono ancora finiti.

Ai due cerchi concentrici che ci sovrastano dissanguando la nostra economia da 10 o 20 anni, quello del debito pubblico e quello dell’euro, se ne è assommato ora un terzo, quello della recente crisi finanziaria internazionale che rischia di rendere vano lo stesso scudo di protezione dell’euro.

In un contesto simile, con un Pil italiano costantemente inferiore alla media europea, la politica può fare molto e poco allo stesso tempo, ma poteva fare molto di più prima dicendo almeno la cruda verità, non illudendo e senza attendere che oltre l’Europa fossero i mercati mondiali a imporci misure di drastico risanamento.

Se c’è un filo rosso, sempre lo stesso, che lega i tempi della cosiddetta prima repubblica alla seconda e ne spiegano il mancato e presunto ricambio è proprio la nostra persistente debolezza economica mal governata da ormai tre decenni.

I conti in disordine già c’erano nel ’92 e sembrò, la prima illusione, che bastasse ripulire non i conti ma il sistema di potere allora vigente per rimontare e rimuovere la palla al piede del debito pubblico. Il miracolo non si è verificato tanto è vero che ben prima che la crisi finanziaria internazionale aggravasse i nostri fondamentali non era stato fatto alcun serio passo di risanamento dei conti pubblici.

La propaganda ha sostanzialmente rimosso o oscurato la realtà, ha fatto balenare promesse irrealizzabili come il taglio delle tasse o i grandi progetti di opere pubbliche, le leggi-obiettivo e il Ponte di Messina, costringendo l’opinione pubblica a schierarsi sulle apparenze, sul berlusconismo e l’antiberlusconismo, e rimuovendo così l’attenzione dai problemi di fondo.

Ma evidentemente, come ai tempi di Tangentopoli, non basterà ora per ripartire sbarazzarsi dei nuovi burattini del potere emersi negli ultimi venti anni. Se ne è accorto persino l’ex descamisado Antonio Di Pietro che pure ha costruito la sua carriera politica sul rigetto di vecchie e nuove corruzioni.

La sveglia (internazionale) è arrivata per tutti –da Di Pietro a Tremonti, a Bossi, allo stesso Berlusconi - con un certo ritardo ma è arrivata.

Al netto della propaganda e a conti fatti la pressione fiscale complessiva è arrivata ad oltre il 43%, le distanze di reddito tra i ceti sono aumentate anziché diminuire, neppure la bolla del federalismo fiscale promesso potrà garantire quella riduzione della spesa pubblica che invece si è ottenuta d’imperio grazie ai provvedimenti urgenti approvati da Camera e Senato, finalmente solerti e produttivi come non mai.

Come se non bastasse negli ultimi 15 anni un’intera generazione di precari è già stata buttata a mare dal nostro barcollante Titanic.

Se ha una logica quanto sta succedendo la politica in Italia per i prossimi anni non può promettere più nulla di serio, i fantasiosi programmi bipolari rischiano di rimanere carta straccia in mancanza di risorse, eppure c’è da scommettere ad esempio che alle elezioni prossime si prometterà ancora una volta, da destra e da sinistra, l’abolizione delle province.

Si prometterà ancora senza farlo di ridurre il numero dei parlamentari e probabilmente ci si accapiglierà invano su una nuova legge elettorale che almeno ci faccia capire chi ha voluto in Parlamento i Papa, i Milanese, i Romano, i Cosentino e tutti gli altri inquisiti che nemmeno ci ricordiamo.

Ma ancora crediamo alla favola-impostura che è meglio votare maggioranze già precostituite dalle segreterie di partito prima delle elezioni e con programmi definiti e alternativi quando la realtà è ben diversa e basta uno tsunami finanziario, piccolo o grande, a sconvolgere tutte le carte, i programmi e le false promesse? Il soprassalto di serietà e consapevolezza che Giorgio Napolitano ha richiesto dopo le prove obbligate di coesione ( e di impotenza) di fronte ai diktat dei mercati è necessario ma non basta se quel che rimane della politica non riuscirà a sfruttare neppure gli ambiti ridotti che le sono rimasti, a rifarsi un’immagine mettendo almeno mano a una riforma di sistema che renda riconoscibili e accettati i titoli per i quali chi ci governa o rappresenta può dirci quali e quanti sacrifici dovremo ancora sostenere.

Non sarebbe certo questa una soluzione per rimettere in sesto l’economia italiana che ristagna da troppi anni, ma se non altro servirebbe a ridare credibilità alla conduzione del nostro Paese e ad impedire che la nostra immagine all’estero ne esca ulteriormente deteriorata.

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