L'era del grande questurino
“Non è mai troppo presto”
Non rottamiamo definitivamente il buon sensodi Davide Giacalone - 18 febbraio 2011
Si dovrebbe organizzare, per tutti gli italiani, un corso collettivo di diritto e procedura penale, in modo da potere meglio apprezzare i colpi di scena e le sfumature del reality in voga da anni, un format da far impallidire il Truman Show, un’idea che umilia il Grande Fratello, sia nella versione televisiva che in quella culturalmente più quotata e orwelliana: il “Grande Questurino”.
I processi, oramai, si fanno in presa diretta, con il pubblico che conosce le carte dell’accusa quando ancora nemmeno è stata formulata, con i bar intasati dalle quattrocento pagine trasmesse dalla procura per richiedere una inutilissima perquisizione (tant’è che poi chiedono il giudizio immediato senza neanche averla fatta), con le agenzie che diffondono il decreto del gip. E non è giusto che tutto questo accada senza che il pubblico sia messo nelle condizioni di gustare, fino in fondo, i distinti sapori che compongono la pietanza (avvelenata). Quindi, sulle orme del mitico Alberto Manzi, si parta con le lezioni appropriate: “Non è mai troppo presto”.
Sarebbe, almeno, più divertente. Per esempio: quando il Corriere della Sera pubblica integralmente il citato decreto (leggibile solo da esperti), annunciandolo come “le prove”, il pubblico potrebbe contestare il fatto che se le prove preesistono al processo quest’ultimo si prospetta come un’inutile perdita di tempo. Sarebbe come se si commentasse un romanzo di Agata Christie titolando: “ecco l’assassino”, non appena entra il maggiordomo. Saremmo tutti sicuri che si tratta di un pessimo libro, o, più probabilmente, di un pessimo titolo. Inoltre, ove la conoscenza delle cose giuridiche e dei numeri relativi alla giustizia fosse un po’ più diffusa, sarebbe interessante spiegare perché non si fanno né indagini né processi laddove esistono denunce specifiche e vittime che si ritengono tali, mentre si va come dei fulmini in una intrigante vicenda che ha una singolare caratteristica: le vittime non si ritengono tali e nessuno ha presentato denuncia.
Oramai non dico più neanche che i processi non si devono fare in piazza, prendo atto che si fanno solo lì. Solo che, anche in questo caso, un minimo di forma non guasta, altrimenti va a finire come le partite a calcio che facevamo fuori da scuola, senza le porte e con i libri a far da pali: si contestava l’esistenza stessa del gol. Sicché, cerchiamo d’essere sinceri con noi stessi: l’idea che un presidente del Consiglio possa essere fatto fuori mediante una formale interdizione dai pubblici uffici è delirio allo stato puro. Dovrebbero opporsi le opposizioni, perché è come dire che solo legando i piedi all’avversario riescono ad arrivare primi. Non si tratta di affermare la prevalenza della legge, o di far venire prima il valore del consenso popolare (che già discuterne è dimostrazione d’inciviltà), ma di non rottamare definitivamente il buon senso.
Al tempo stesso, non prendiamoci in giro: quel tipo d’accuse hanno una valore più morale che penale e, quindi, la sentenza popolare non solo precede quella penale, ma è già stata emessa. Chi guida il governo non ci fa una bella figura e l’idea di telefonare in questura è una via di mezzo fra un gesto sconsiderato e una zingarata monicelliana, modello “supercazzola prematurata, come se fosse antani”. Osservo che il chirurgo, in quel caso, restava un virtuoso del bisturi, ma è ragionevole che i pazienti, nel nostro caso gli elettori, abbiano tutto il diritto d’esprimere la propria opinione e decidere se far continuare, o meno, l’andazzo.
Solo che, appunto, l’esito del giudizio penale punta ad espropriarli di quel diritto, consegnando l’affilato strumento nelle mani di gente che si dice essere tanto per benino, ma che: primo, è chi l’ha detto? e, secondo, hanno mani tremolanti. Io, ad esempio, scapperei in pigiama.
Vogliamo continuare con “Il grande questurino”? ci siamo stufati di considerarci civili, ci piacciano i feuilleton giudiziari, abbiamo preso le case degli italiani per delle cancellerie di tribunale? E va bene, tanto questa roba mi fa orrore da lustri, ma nessuno pone rimedio. Solo che, allora, organizziamo il televoto.
Non, si badi, in sostituzione delle elezioni (quelle restano, come rito inutile, tanto chi è scelto per governare viene poi impallinato dalle procure, come capitò anche al governo Prodi, ricordate?), ma quale strumento per far valere l’opinione della giuria popolare. Fra i votanti se ne estrae a sorte uno, che va a presiedere il tribunale, nel processo successivo. Sì, lo so che avete capito: sto scherzando. Il guaio è che, invece, c’è chi lo fa sul serio.
Pubblicato da Il Tempo
I processi, oramai, si fanno in presa diretta, con il pubblico che conosce le carte dell’accusa quando ancora nemmeno è stata formulata, con i bar intasati dalle quattrocento pagine trasmesse dalla procura per richiedere una inutilissima perquisizione (tant’è che poi chiedono il giudizio immediato senza neanche averla fatta), con le agenzie che diffondono il decreto del gip. E non è giusto che tutto questo accada senza che il pubblico sia messo nelle condizioni di gustare, fino in fondo, i distinti sapori che compongono la pietanza (avvelenata). Quindi, sulle orme del mitico Alberto Manzi, si parta con le lezioni appropriate: “Non è mai troppo presto”.
Sarebbe, almeno, più divertente. Per esempio: quando il Corriere della Sera pubblica integralmente il citato decreto (leggibile solo da esperti), annunciandolo come “le prove”, il pubblico potrebbe contestare il fatto che se le prove preesistono al processo quest’ultimo si prospetta come un’inutile perdita di tempo. Sarebbe come se si commentasse un romanzo di Agata Christie titolando: “ecco l’assassino”, non appena entra il maggiordomo. Saremmo tutti sicuri che si tratta di un pessimo libro, o, più probabilmente, di un pessimo titolo. Inoltre, ove la conoscenza delle cose giuridiche e dei numeri relativi alla giustizia fosse un po’ più diffusa, sarebbe interessante spiegare perché non si fanno né indagini né processi laddove esistono denunce specifiche e vittime che si ritengono tali, mentre si va come dei fulmini in una intrigante vicenda che ha una singolare caratteristica: le vittime non si ritengono tali e nessuno ha presentato denuncia.
Oramai non dico più neanche che i processi non si devono fare in piazza, prendo atto che si fanno solo lì. Solo che, anche in questo caso, un minimo di forma non guasta, altrimenti va a finire come le partite a calcio che facevamo fuori da scuola, senza le porte e con i libri a far da pali: si contestava l’esistenza stessa del gol. Sicché, cerchiamo d’essere sinceri con noi stessi: l’idea che un presidente del Consiglio possa essere fatto fuori mediante una formale interdizione dai pubblici uffici è delirio allo stato puro. Dovrebbero opporsi le opposizioni, perché è come dire che solo legando i piedi all’avversario riescono ad arrivare primi. Non si tratta di affermare la prevalenza della legge, o di far venire prima il valore del consenso popolare (che già discuterne è dimostrazione d’inciviltà), ma di non rottamare definitivamente il buon senso.
Al tempo stesso, non prendiamoci in giro: quel tipo d’accuse hanno una valore più morale che penale e, quindi, la sentenza popolare non solo precede quella penale, ma è già stata emessa. Chi guida il governo non ci fa una bella figura e l’idea di telefonare in questura è una via di mezzo fra un gesto sconsiderato e una zingarata monicelliana, modello “supercazzola prematurata, come se fosse antani”. Osservo che il chirurgo, in quel caso, restava un virtuoso del bisturi, ma è ragionevole che i pazienti, nel nostro caso gli elettori, abbiano tutto il diritto d’esprimere la propria opinione e decidere se far continuare, o meno, l’andazzo.
Solo che, appunto, l’esito del giudizio penale punta ad espropriarli di quel diritto, consegnando l’affilato strumento nelle mani di gente che si dice essere tanto per benino, ma che: primo, è chi l’ha detto? e, secondo, hanno mani tremolanti. Io, ad esempio, scapperei in pigiama.
Vogliamo continuare con “Il grande questurino”? ci siamo stufati di considerarci civili, ci piacciano i feuilleton giudiziari, abbiamo preso le case degli italiani per delle cancellerie di tribunale? E va bene, tanto questa roba mi fa orrore da lustri, ma nessuno pone rimedio. Solo che, allora, organizziamo il televoto.
Non, si badi, in sostituzione delle elezioni (quelle restano, come rito inutile, tanto chi è scelto per governare viene poi impallinato dalle procure, come capitò anche al governo Prodi, ricordate?), ma quale strumento per far valere l’opinione della giuria popolare. Fra i votanti se ne estrae a sorte uno, che va a presiedere il tribunale, nel processo successivo. Sì, lo so che avete capito: sto scherzando. Il guaio è che, invece, c’è chi lo fa sul serio.
Pubblicato da Il Tempo
L'EDITORIALE
DI TERZA REPUBBLICA
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