ultimora
Public Policy

La polemica sugli stipendi

No al pauperismo deteriore

La demagogia della mannaia semplificatrice è un virus letale. Caro Renzi, cambiamo verso

di Enrico Cisnetto - 21 marzo 2014

Fra i tanti annunci pirotecnici che Matteo Renzi ha lanciato fra una slide e una mano in tasca ce ne sono alcuni, come il tetto retributivo per i manager pubblici e per i vertici della pubblica amministrazione, i tagli alle cosiddette “pensioni d’oro” o la vendita all’asta sul web delle auto blu, che saranno anche di sicuro impatto mediatico, e quindi elettorale, ma che quanto a reale efficacia, ai fini del rilancio dell’economia, lasciano a desiderare. Anzi, sono negativi, perché rischiano di alimentare due virus letali che da tempo circolano nelle vene della società italiana: l’idea che l’enorme complessità dei problemi che abbiamo di fronte possa essere ridotta in scala e risolversi calando la mannaia demagogica della semplificazione (nel senso di banalizzazione); l’idea che la gestione del consenso in tempi di crisi si faccia lisciando il pelo dell’opinione pubblica per il verso del pauperismo, della serie le vacche devono essere magre per tutti e chi sta bene, o anche solo meglio degli altri, è da esporre come affamatore al pubblico ludibrio.

Fateci caso, la cronaca offre quotidianamente casi e polemiche intorno a redditi che sarebbero troppo alti – rispetto a quale parametro, non è dato sapere – e in quanto tali andrebbero “tagliati”, senza guardare troppo per il sottile sul come ridimensionarli. Penso ai vertici di Poste, Ferrovie, Inps, Cdp, Consip, Consap, authority varie, Protezione Civile. Persino Befera. Tutti da sottoporre alla misura da socialismo reale del “plafonamento”. Ma penso anche alla riduzione di 50mila euro su 240mila lordi annui dello stipendio del direttore generale di una municipalizzata di Verona, decretato dal clamore mediatico sollevato intorno a quel caso. Francesco Berton, così si chiama il manager, aveva fatto male ad Acque Veronesi? Lo si mandi via. Viceversa, ha lavorato bene? E allora perché dovremmo fargli tagliare lo stipendio e suonare le trombe di giubilo dopo aver ottenuto lo scalpo? In nome di quale logica? Certo non quella di mercato. Né tantomeno in nome del diritto, come per il caso dell’ex presidente e direttore generale del Consorzio Venezia Nuova, che a furor di popolo si sarebbe voluto privare della liquidazione (oltre 3 milioni solo di tfr) perché “alta”. Ma è rispondente a regolari contratti, e non dargli quelle spettanze avrebbe significato esporsi ad una causa ben più costosa. Si dice: ma è inquisito. Vero, ma non è condannato. E quando lo fosse, sono altri gli strumenti con cui rivalersi, che il “processo in piazza”.

È facile dire che le retribuzioni dei vertici delle aziende pubbliche e dei gran commis di Stato, in quanto servitori della collettività, debbano essere equiparate a quelle del Capo dello Stato o dell’inquilino della Casa Bianca, ma la verità è che le cariche elettive hanno criteri, metodi e motivazioni diverse da quelle del mondo del business. Anzi, gli stipendi dei dirigenti sono (o dovrebbero essere) il metro della loro abilità. E’ evidente che senza un’effettiva e paritaria concorrenza il settore privato avrà i manager migliori, obbligando il pubblico a pescare solo fra le seconde scelte. E gli scarti non sono certo i migliori amministratori possibili, specie per colossi strategici con decine di migliaia di dipendenti e di piccoli azionisti.

Si leggono in queste ore giudizi affrettati figli di analisi prive di fondamento, quando non inquinate da interessi retrostanti, relativi a questo o quel manager in scadenza in società i cui vertici fanno gola a molti (già, come mai gli andamenti di Eni, Enel, Terna, Finmeccanica, quotidianamente sottoposti al vaglio dei mercati, degli analisti e dei soci, trovano oggi improvvisati esperti pronti a giudicarli? mah). Polemiche in cui le retribuzioni, alte ma in linea con i concorrenti internazionali, vengono brandite come arma impropria per colpire chi si vuole far fuori.
Ma a voler tagliare stipendi per accontentare la pancia degli italiani incazzati si va a finire fuori dal mercato, recinto nel quale gli stessi polemisti vorrebbero – giustamente – che le società pubbliche finissero. Prendiamo, per esempio, le cosiddette “pensioni d’oro”. Ora, un conto è chi percepisce una pensione sganciata dalla logica contributiva, che vive sicuramente una condizione di privilegio che meriterebbe di essere riesaminata, e altro è chi, invece, ha maturato una pensione (anche se molto corposa) in base a contributi versati, per cui togliergliene una parte equivarrebbe a commettere un vero e proprio furto. Ma nessuno distingue. Anche perché lo squilibrio rispetto ai contributi effettivamente versati c’è anche per le pensioni basse. E comunque i “privilegiati” possono a buon diritto accampare la motivazione che a suo tempo in quiescenza sono andati sulla base di una legge dello Stato, e che alle condizioni date avrebbero potuto scegliere di continuare a lavorare (e versare). Insomma, anche un “privilegio acquisito” può essere legittimamente diventato un “diritto acquisito”, per cui un conto è stabilire che in futuro non si possa arrivare a certe cifre o debbano terminare certi privilegi, un altro è mettere in discussione ciò che legalmente si è pattuito prima.
Caro Renzi, chiudiamo al più presto i Tribunali del Popolo e basta con il “mal comune mezzo gaudio”, che ci siamo già passati.

Social feed




documenti

Test

chi siamo

Terza Repubblica è il quotidiano online fondato e diretto da Enrico Cisnetto nato nel 2005 dall'esperienza di Società Aperta con l'obiettivo di creare uno spazio di commento indipendente e fuori dal coro sul contesto politico-economico del paese.