Non è il momento di scherzare
Manteniamo il "rigore"
Le conseguenze reali degli attacchi a Tremonti sulla politica economica del Governodi Enrico Cisnetto - 29 aprile 2011
C’è un pericolo grave che si cela dietro le diffuse letture, politiche e giornalistiche, di stampo “anti-tremontiano” che sono state date delle vicende degli ultimi giorni, e in particolare delle dinamiche assunte dal rapporto politico-economico che intercorre tra Italia e Francia. Pericolo che la smentita di Berlusconi nei confronti del (suo) Giornale, la seconda in poche ore, rischia di non scongiurare.
Si tratta delle conseguenze che il tentativo di indebolire Tremonti potrebbe generare, in termini di politiche di finanza pubblica, proprio alla vigilia dell’esame cui l’Europa dovrà sottoporre il piano di rientro che entro il 2014 dovrà portarci al pareggio di bilancio. Un piano di cui sappiamo il perimetro – una manovra correttiva da 35-40 miliardi complessivi – ma non ancora i tempi e modi, ma la cui attuazione sarà inevitabilmente tale da rendere ancora peggiore una situazione politica già deteriorata.
Per questo ha relativa importanza andare a vedere se il ministro del Tesoro sia uscito indebolito dall’incontro Berlusconi-Sarkozy, o se l’opa di Lactalis su Parmalat e il probabile spezzatino di Edison siano una sua sconfitta, o se il “piano Cdp”, impropriamente ribattezzato “nuova Iri” dai suoi nemici, sia destinato a soccombere perché troppo colbertista.
Intanto perché la risposta a questi quesiti è molto più articolata di quanto non faccia intendere l’alzata di scudi nei confronti del ministro cui abbiamo assistito. Per esempio, poteva essere discutibile il grado di strategicità di Parmalat – a mio non paragonabile a quello di settori come la difesa, l’energia e le telecomunicazioni, ma neppure pari a zero come i liberisti duri e puri hanno detto – e ancor di più la fattibilità di una cordata italiana che doveva muovere i suoi passi dopo che i francesi erano arrivati al 29%, ma certo è ridicolo definire “non ostile”, come ha fatto il premier, l’opa totalitaria lanciata un’ora prima del vertice italo-francese. Anche perché è infondato giudicare “conveniente perché di mercato”, come hanno fatto molti osservatori ostili a Tremonti, l’offerta di 2,6 euro ad azione: se è vero che quella cifra incorpora un premio del 13% rispetto all’ultimo prezzo pre-opa, e che tale premio sale al 21,3% se si considera il valore delle azioni Parmalat degli ultimi 12 mesi, non meno vero è che l’offerta risulta inferiore del 16% rispetto ai 3,02 euro fatti segnare il 6 ottobre del 2005, giorno in cui l’azienda di Collecchio tornò in Borsa dopo il crack Tanzi. Tanto che mi risulta che i francesi fossero pronti a rilanciare ad almeno 2,75 e che si siano fregati le mani del fatto che il mercato abbia accolto la loro offerta come manna dal cielo. E comunque si potrebbe dire che l’opa sul 71% è arrivata grazie al tentativo di opporre una mossa nazionale, altrimenti ora Parmalat sarebbe gestita da Lactalis con il solo 29%, cioè avendo speso esattamente quell’1,4 miliardi che rappresenta la dote cash che la preda ha in pancia.
Naturalmente, questo non vuol dire che fosse una buona idea fare la guerra a Parigi, e tantomeno che lo sia tentarla su altre partite, da Ligresti-Groupama a Mediobanca, perché come dice Fitoussi “se uno non può vincere, è meglio far buon viso a cattivo gioco”. Anche se prima o poi bisognerà pur fare un bilancio della (non) politica industriale al tempo della Seconda Repubblica, e vedere chi porta le maggiori responsabilità sia della sciagurata stagione di privatizzazioni sbagliate (non in sé, sia chiaro, ma per il modo con cui sono state realizzate), sia di aver impedito la difesa – per tempo – dell’italianità delle banche e delle imprese, in nome di un’adesione ideologica ai principi del libero mercato, sia infine di aver trascurato realtà industriali che andavano curate e di aver ignorato aggregazioni che andavano favorite (per esempio, dal suo ritorno in Borsa ci sono stati quasi sei anni di tempo per accorgersi che la Parmalat non poteva essere lasciata nelle mani del “commissario” Bondi e che intorno ad essa doveva crearsi un gruppo agro-alimentare italiano di caratura internazionale).
Ma, ripeto, tutto questo passa in secondo piano se gli attacchi a Tremonti avranno come corollario un indebolimento della politica del rigore sui conti pubblici. Non perché non ci siano ragioni in chi dice che la crescita è troppo bassa e che per averne di più occorre spendere (o incassare meno, tagliando il carico fiscale su imprese e lavoratori), ma perché questo sacrosanto obiettivo non può essere indicato come alternativo a quello del “rigore”.
E da nessuno dei critici ho mai sentito spendere una parola di adesione al programma di taglio della spesa pubblica (pensioni, sanità, enti locali) e di riduzione una tantum del debito (progetto Guarino) che in (quasi) solitudine ho lanciato e rilanciato negli ultimi anni, unico che poteva (e potrebbe) consentire di coniugare risanamento dei conti pubblici e rilancio della crescita. E se permettete, in assenza, mi tengo stretto il “rigore”.
Si tratta delle conseguenze che il tentativo di indebolire Tremonti potrebbe generare, in termini di politiche di finanza pubblica, proprio alla vigilia dell’esame cui l’Europa dovrà sottoporre il piano di rientro che entro il 2014 dovrà portarci al pareggio di bilancio. Un piano di cui sappiamo il perimetro – una manovra correttiva da 35-40 miliardi complessivi – ma non ancora i tempi e modi, ma la cui attuazione sarà inevitabilmente tale da rendere ancora peggiore una situazione politica già deteriorata.
Per questo ha relativa importanza andare a vedere se il ministro del Tesoro sia uscito indebolito dall’incontro Berlusconi-Sarkozy, o se l’opa di Lactalis su Parmalat e il probabile spezzatino di Edison siano una sua sconfitta, o se il “piano Cdp”, impropriamente ribattezzato “nuova Iri” dai suoi nemici, sia destinato a soccombere perché troppo colbertista.
Intanto perché la risposta a questi quesiti è molto più articolata di quanto non faccia intendere l’alzata di scudi nei confronti del ministro cui abbiamo assistito. Per esempio, poteva essere discutibile il grado di strategicità di Parmalat – a mio non paragonabile a quello di settori come la difesa, l’energia e le telecomunicazioni, ma neppure pari a zero come i liberisti duri e puri hanno detto – e ancor di più la fattibilità di una cordata italiana che doveva muovere i suoi passi dopo che i francesi erano arrivati al 29%, ma certo è ridicolo definire “non ostile”, come ha fatto il premier, l’opa totalitaria lanciata un’ora prima del vertice italo-francese. Anche perché è infondato giudicare “conveniente perché di mercato”, come hanno fatto molti osservatori ostili a Tremonti, l’offerta di 2,6 euro ad azione: se è vero che quella cifra incorpora un premio del 13% rispetto all’ultimo prezzo pre-opa, e che tale premio sale al 21,3% se si considera il valore delle azioni Parmalat degli ultimi 12 mesi, non meno vero è che l’offerta risulta inferiore del 16% rispetto ai 3,02 euro fatti segnare il 6 ottobre del 2005, giorno in cui l’azienda di Collecchio tornò in Borsa dopo il crack Tanzi. Tanto che mi risulta che i francesi fossero pronti a rilanciare ad almeno 2,75 e che si siano fregati le mani del fatto che il mercato abbia accolto la loro offerta come manna dal cielo. E comunque si potrebbe dire che l’opa sul 71% è arrivata grazie al tentativo di opporre una mossa nazionale, altrimenti ora Parmalat sarebbe gestita da Lactalis con il solo 29%, cioè avendo speso esattamente quell’1,4 miliardi che rappresenta la dote cash che la preda ha in pancia.
Naturalmente, questo non vuol dire che fosse una buona idea fare la guerra a Parigi, e tantomeno che lo sia tentarla su altre partite, da Ligresti-Groupama a Mediobanca, perché come dice Fitoussi “se uno non può vincere, è meglio far buon viso a cattivo gioco”. Anche se prima o poi bisognerà pur fare un bilancio della (non) politica industriale al tempo della Seconda Repubblica, e vedere chi porta le maggiori responsabilità sia della sciagurata stagione di privatizzazioni sbagliate (non in sé, sia chiaro, ma per il modo con cui sono state realizzate), sia di aver impedito la difesa – per tempo – dell’italianità delle banche e delle imprese, in nome di un’adesione ideologica ai principi del libero mercato, sia infine di aver trascurato realtà industriali che andavano curate e di aver ignorato aggregazioni che andavano favorite (per esempio, dal suo ritorno in Borsa ci sono stati quasi sei anni di tempo per accorgersi che la Parmalat non poteva essere lasciata nelle mani del “commissario” Bondi e che intorno ad essa doveva crearsi un gruppo agro-alimentare italiano di caratura internazionale).
Ma, ripeto, tutto questo passa in secondo piano se gli attacchi a Tremonti avranno come corollario un indebolimento della politica del rigore sui conti pubblici. Non perché non ci siano ragioni in chi dice che la crescita è troppo bassa e che per averne di più occorre spendere (o incassare meno, tagliando il carico fiscale su imprese e lavoratori), ma perché questo sacrosanto obiettivo non può essere indicato come alternativo a quello del “rigore”.
E da nessuno dei critici ho mai sentito spendere una parola di adesione al programma di taglio della spesa pubblica (pensioni, sanità, enti locali) e di riduzione una tantum del debito (progetto Guarino) che in (quasi) solitudine ho lanciato e rilanciato negli ultimi anni, unico che poteva (e potrebbe) consentire di coniugare risanamento dei conti pubblici e rilancio della crescita. E se permettete, in assenza, mi tengo stretto il “rigore”.
L'EDITORIALE
DI TERZA REPUBBLICA
Terza Repubblica è il quotidiano online fondato e diretto da Enrico Cisnetto nato nel 2005 dall'esperienza di Società Aperta con l'obiettivo di creare uno spazio di commento indipendente e fuori dal coro sul contesto politico-economico del paese.