La riconversione è davvero compiuta?
L’industria old-style italiana
Irrimediabilmente,o quasi, in ritardo.Cambio di pelle solo per una minoranza di impresedi Enrico Cisnetto - 18 giugno 2007
C’è una questione decisiva per il presente e il futuro della nostra economia di cui si discute poco e male. La domanda è: l’industria italiana ha fatto, e in quale misura, la riconversione produttiva impostaci dai cambiamenti epocali degli ultimi anni, globalizzazione e rivoluzione tecnologica in testa? Un diffuso e pernicioso conformismo prima ci ha indotto a credere che il problema non esistesse – si pensi alla retorica persistente del “piccolo è bello” – e poi, da quando è in atto la “ripresina”, a pensare che ormai “abbiamo svoltato”. Confindustria, come è logico che sia, parla di riconversione in atto “nonostante la politica”, il governo conferma ma tenta di attribuirsi un po’ di merito, l’opposizione asseconda l’idea che le “imprese hanno fatto tutto da sole”. Per fortuna che, in questo gioco di specchi, qualche analisi seria fornisce elementi di fatto a chi vuole ragionare. E’ il caso di uno studio dell’Isae in cui si confronta la struttura del comparto manifatturiero dei principali paesi europei nel periodo 2000-2006, dal quale si evince che l’industria più cambiata è quella del Regno Unito, mentre l’indice di somiglianza italiano è di dimensione solo leggermente inferiore rispetto a quello tedesco e francese, che però avevano caratteristiche molto più adatte delle nostre a reggere la nuova competizione mondiale. Non solo: quei pochi cambiamenti avvenuti – meno tessile-abbigliamento, auto e alcuni settori a più alta tecnologia (macchine per ufficio, elettronica, strumenti di comunicazione), più alimentare, macchinari e alcune produzione intermedie – hanno sempre di più allontanato, invece di avvicinare, il mix settoriale della nostra industria a quello altrui.
Restiamo ancorati ad un modello di sviluppo basato sulla produzione di beni a basso valore aggiunto di settori maturi, e facciamo fronte alla concorrenza asiatica solo grazie all’aumento dei valori medi unitari della merce esportata.
Lo dimostra il grado di somiglianza delle nostre esportazioni e di quelle cinesi verso l’Europa: nello studio dell’Isae si evidenzia una sovrapposizione sempre più marcata, con uno scarto qualitativo maggiore ancora a favore dell’Italia nei comparti tessile e abbigliamento, vantaggio che abbiamo ormai quasi del tutto perso nelle calzature e nei mobili.
Dunque, la tanto sbandierata riconversione – che, ricordiamolo significa due cose: o aver cambiato mestiere, o aver inserito quantità di innovazione di prodotto, di processo e di servizio tali da ricreare margini di competitività sui competitor – è un falso patente? No, ma quel cambio di pelle ha riguardato un’estrema minoranza del manifatturiero italiano, al massimo qualche decina di migliaia di imprese, e continua a procedere a passo di lumaca. Chi oggi dice il contrario, o sta commettendo un grosso errore di valutazione, o peggio, sta scientemente speculando – per bieche ragioni di bottega – sulla ripresa che soffia in tutta Europa, spacciandola come moneta corrente anche in Italia. Purtroppo non è così, e prenderne atto sarebbe il primo passo per metterci rimedio.
Restiamo ancorati ad un modello di sviluppo basato sulla produzione di beni a basso valore aggiunto di settori maturi, e facciamo fronte alla concorrenza asiatica solo grazie all’aumento dei valori medi unitari della merce esportata.
Lo dimostra il grado di somiglianza delle nostre esportazioni e di quelle cinesi verso l’Europa: nello studio dell’Isae si evidenzia una sovrapposizione sempre più marcata, con uno scarto qualitativo maggiore ancora a favore dell’Italia nei comparti tessile e abbigliamento, vantaggio che abbiamo ormai quasi del tutto perso nelle calzature e nei mobili.
Dunque, la tanto sbandierata riconversione – che, ricordiamolo significa due cose: o aver cambiato mestiere, o aver inserito quantità di innovazione di prodotto, di processo e di servizio tali da ricreare margini di competitività sui competitor – è un falso patente? No, ma quel cambio di pelle ha riguardato un’estrema minoranza del manifatturiero italiano, al massimo qualche decina di migliaia di imprese, e continua a procedere a passo di lumaca. Chi oggi dice il contrario, o sta commettendo un grosso errore di valutazione, o peggio, sta scientemente speculando – per bieche ragioni di bottega – sulla ripresa che soffia in tutta Europa, spacciandola come moneta corrente anche in Italia. Purtroppo non è così, e prenderne atto sarebbe il primo passo per metterci rimedio.
L'EDITORIALE
DI TERZA REPUBBLICA
Terza Repubblica è il quotidiano online fondato e diretto da Enrico Cisnetto nato nel 2005 dall'esperienza di Società Aperta con l'obiettivo di creare uno spazio di commento indipendente e fuori dal coro sul contesto politico-economico del paese.