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Preoccupati gli indicatori internazionali

L’economia non aspetta la legislatura

Le urne sono state un pretesto per far risaltare i problemi del Paese. “Rischio Italia”

di Enrico Cisnetto - 13 aprile 2006

L’economia si spazientisce dei tempi della politica. E quelli che si prevedono dopo il “pareggio” elettorale e prima dell’operatività del governo sembrano piuttosto lunghi e difficili. Ecco quindi i primi segni di nervosismo dal mondo della finanza. In primis il rapporto dell’agenzia di rating Fitch, che ha messo sotto osservazione l’Italia con implicazioni negative sulla sostenibilità del nostro debito. Così come Standard&Poor’s ha minacciato il downgrading per la stessa ragione. Nonostante l’ottimismo sulla ripresa economica, poi, anche la Bce si dice preoccupata per la situazione dei nostri conti pubblici e per le politiche non sufficienti in fatto di riduzione della spesa. Infine, c’è da registrare con qualche preoccupazione il rialzo dei rendimenti dei Btp a 5 e 15 anni, segno che il Tesoro deve pagare agli investitori un maggior premio al “rischio Italia”.
In tutti questi casi, quindi, l’esito delle urne è servito solo da pretesto per far risaltare ancora una volta i problemi economici strutturali del nostro Paese, che hanno da oltre un decennio un nome e cognome, e si chiamano deficit, debito e crescita zero. Alla fine dei cinque anni di governo del centro-sinistra, il deficit era già sopra al tetto europeo del 3% del pil (3,2% per l’esattezza), così come al termine di questo mandato il centro-destra lascia in eredità un corposo 3,8% che verrà probabilmente presto ritoccato al rialzo. Stessa musica sul debito pubblico, che si avvia entro la fine di quest’anno a risalire verso quota 108% del pil. L’Italia della Seconda Repubblica è cresciuta meno della media Ue e dei principali competitor internazionali. Mentre il trend dell’economia mondiale fa segnare per il quarto anno consecutivo un +5%, le stime fornite da Efn-Euroframe (network che riunisce i dieci maggiori istituti europei di analisi economiche) hanno previsto per l’Italia un +5,7%, ma relativo a un intero settennato (2001-2007), per una media annua dello 0,8%. Nel solo 2005 la Cina è cresciuta del 9,5%, gli Usa del 3,5%, la Spagna del 3,4%, il Regno Unito dell’1,8%, la Germania dello 0,9%, e noi fermi allo 0,1%.
Nelle priorità del futuro governo, quindi, al primo posto non può che esserci l’economia, il rilancio dello sviluppo, la lotta al debito e al deficit. Ma come farà Prodi a garantire governabilità al Paese e quindi ad affrontare i nodi dell’economia contando su una maggioranza al Senato di soli due seggi? Si può governare questo Paese con uno scarto di voti pari allo 0,006%? Prima ancora che sul piano dell’omogeneità politica, la capacità riformatrice del governo in pectore è seriamente minata alla base da ragioni strettamente aritmetiche. Ma al tempo stesso gli impegni dei prossimi mesi – Dpef e Finanziaria in testa – appaiono già di per sé ostacoli troppo difficili da superare per un esecutivo impossibilitato a fare riforme strutturali, considerato che occorrerà ridurre il deficit di un punto di pil (12 miliardi) e tagliare il debito di due punti e mezzo (30 miliardi) come richiesto da Bruxelles, e sarà a dir poco arduo trovare la copertura finanziaria.
Per questo, far finta che dalle urne sia uscito un vero vincitore, comporta seri rischi per il Paese. Parliamoci chiaro: quello che si attendono gli italiani è che venga assicurata la governabilità. Ora, è davvero pensabile che – dopo una campagna elettorale orrenda, dove le due parti non si sono mai concesse la benché minima legittimazione reciproca – per magia ci si trovi di fronte ad un parlamento gestibile all’americana?
E poi non c’è solo l’impasse parlamentare prodotta dal voto, ma anche e soprattutto quella che deriva dalla mancanza di regole comuni – basti pensare alle ferite inferte alla Costituzione con scelte a colpi di maggioranza fatte sia dal centro-sinistra (riforma del titolo V) sia dal centro-destra (devolution) – e da una legge elettorale finto proporzionale la cui inefficacia (a dir poco) è sotto gli occhi di tutti. Per questo, il modo più utile per impiegare una legislatura che rischia di non arrivare in fondo sarebbe quello di convocare subito un’Assemblea Costituente: eletta dai cittadini, rappresenterebbe l’unico luogo deputato ad affrontare organicamente tutte le questioni che attengono alle regole condivise e alla funzionalità delle istituzioni pubbliche, premessa indispensabile per assicurare al Paese una vera governabilità.
Si dice: ma come si fa a trovare la convergenza necessaria a compiere grandi scelte, se il Paese è uscito spaccato dalle urne. Il fatto è che non è vero: se si guardano bene i dati elettorali, si scopre che i massimalisti e gli estremisti delle due ali rappresentano “solo” un terzo dell’elettorato. Gli altri due terzi sono tutti quei riformisti e moderati di entrambi gli schieramenti, costretti dalla camicia di forza di un sistema politico sbagliato ad essere divisi. E a vivere in uno stato di perenne ingovernabilità, visto che il nostro falso bipolarismo – in cui vince chi promette di più e aggrega una quantità maggiore di forze, salvo poi non essere in grado di soddisfare le aspettative suscitate e ritrovarsi ricattato dalle minoranze più massimaliste – ci ha regalato il declino del Paese. E’ a quei due terzi di italiani “ragionevoli” che i dialoganti di entrambi i poli devono offrire la via d’uscita che si chiama Costituente.

Pubblicato su Il Gazzettino del 13 aprile 2006

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