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Il caso D&G

Il fisco non è di moda

Se confermata, questa sentenza sancirebbe il definitivo suicidio fiscale dell'Italia.

di Enrico Cisnetto - 28 giugno 2013

Prendete un’azienda italiana che nel giro di qualche anno afferma dal nulla e con notevole successo il proprio marchio sul mercato. Supponete che i suoi fondatori ne cedano lo sfruttamento ad una società lussemburghese appositamente costituita, incassando soldi sui cui pagano le tasse. Il fisco italiano eccepisce che la cosa sia stata fatta per pagare meno, viste le aliquote lussemburghesi, e manda le carte alla magistratura. La quale imbastisce un processo al termine del quale li condanna penalmente e a restituire il presunto maltolto all’Agenzia delle Entrate.

Come avrete capito, l’azienda è Dolce&Gabbana, i soldi incassati erano 360 milioni, la condanna è stata a 1 anno e 8 mesi di carcere (con la condizionale, essendo Domenico Dolce e Stefano Gabbana incensurati) e 500 mila euro di provvisionale da pagare. L’Agenzia delle Entrate potrà però procedere agli atti esecutivi nei confronti dei due stilisti per la cifra stratosferica cifra di oltre 400 milioni. E questo nonostante che l’evasione fiscale contestata fosse di un miliardo – calcolata in base alla differenza tra l’aliquota italiana del 37% e quella lussemburghese del 4% – ma poi sia stata ridotta a 200 milioni e che la provvisionale sia stata ridotta al 5% di quanto richiesto.

Disdicevole che D&G abbiano fatto in modo che i loro guadagni fossero tassati dove era più conveniente? Il giudizio morale è libero: si può pensare che sia eticamente giusto pagare laddove si produce la ricchezza, si può essere convinti che sia inevitabile e persino anche giusto che i profitti cerchino le aliquote più convenienti. E come, nel caso, si può pensare che entrambe le osservazioni abbiano un loro fondamento. Ma tutto questo nulla c’entra con la giustizia, penale e fiscale. Perché i due stilisti hanno eluso, non evaso. E lo hanno potuto fare sia perché la legge italiana lo consente – tanto in base a norme comunitarie che ad un trattato bilaterale – sia perché in Europa ci sono spazi di competizione fiscale anche brutale. Si può far carico a loro di tutto questo?

Certo che no. I due hanno solo commesso un errore formale: non trasferire in Lussemburgo anche la propria residenza fisica, assieme a quella del loro marchio. Ma se fossero diventati, come molti hanno fatto, dei “non-dom”, prendendo casa nel paradiso degli arbitraggi fiscali e andando a dormire in albergo a Milano, sarebbe davvero cambiato qualcosa di significativo?

Occhio che la cosa non riguarda solo loro, ma l’intero sistema imprenditoriale. E se nei gradi successivi di giudizio questa sentenza dovesse essere confermata, sarebbe la dimostrazione che l’Italia ha definitivamente scelto la via del suicidio fiscale, e di conseguenza della desertificazione produttiva.

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Terza Repubblica è il quotidiano online fondato e diretto da Enrico Cisnetto nato nel 2005 dall'esperienza di Società Aperta con l'obiettivo di creare uno spazio di commento indipendente e fuori dal coro sul contesto politico-economico del paese.