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L’Italia del pareggio elettorale è nel mirino

È l’ora delle riforme strutturali

Sbaglieremmo se facessimo dello “straniero cattivo” un alibi. I consigli vanno ascoltati

di Enrico Cisnetto - 24 aprile 2006

Prima il Financial Times, che pronostica una nostra uscita dall’euro. Poi il Fondo Monetario Internazionale, che parlando di “sfide tremende” cui far fronte con “misure urgenti da prendere, come se si fosse sul piede di guerra”, ha lanciato l’allarme più grave mai dato da un organismo internazionale nei confronti dell’Italia. Adesso è ancora l’Fmi che ci mette in mora, chiedendo tre cose: che si faccia al più presto una manovra-bis per correggere i conti pubblici, giudicati “poco trasparenti”; che s’intervenga su un ambiente economico considerato “difficile” e “scoraggiante” (almeno in confronto agli altri paesi Ocse), a cominciare dall’eccesso di burocrazia e dalla lentezza della giustizia civile; che non si tocchi l’unica riforma davvero strutturale varata in questa anni, quella legge Biagi che assicura più flessibilità (o meno rigidità) al mercato del lavoro.
Non c’è dubbio: l’Italia del “pareggio” elettorale – preda di convulsioni politiche, che fanno temere tempi lunghi per varare un nuovo governo e tempi brevi di durata del medesimo – è nel mirino. Qualcuno pensa maliziosamente che si tratti di giudizi tesi a farci pagare agli investitori internazionali, che detengono ormai più della metà dei titoli del nostro debito pubblico, un premio di maggior rischio sotto forma di tassi più remunerativi. Magari sotto la spinta di qualche agenzia di rating che prima o poi ci appioppa una valutazione più negativa dell’attuale della nostra finanza pubblica. E’ possibile, anzi probabile, che ci sia anche questa componente: i mercati non sono frequentati da dame di carità, e tendono al profitto senza guardare in faccia nessuno. Ma faremmo male, prima di tutto a noi stessi, se ci sentissimo vittime, e decidessimo di fare dello “straniero cattivo” il nostro alibi per evitare quelle scelte che da troppo tempo stiamo rinviando e per le quali è davvero suonata la campanella dell’ultimo giro. Prima di tutto perché le osservazioni dell’Fmi, come della Bce – che ha violato la sua proverbiale prudenza facendo trapelare la cifra minima di 7 miliardi (più di mezzo punto di pil) per la manovra correttiva sul deficit – sono assolutamente fondate. E poi perché la nostra debolezza – economica, politica e di relazioni internazionali – non ci consente di fare tanto gli schizzinosi.
Insomma, a questi avvertimenti dobbiamo prestare orecchio. Prendiamo, per esempio, la legge sul mercato del lavoro. Ora, è noto che una parte del centro-sinistra – i riformisti, in testa Tiziano Treu che della Biagi è il precursore – sono favorevoli al mantenimento della riforma portata a compimento dal governo Berlusconi, riservandosi solo spazi di miglioramento (possibili e in taluni casi opportuni), mentre le componenti massimaliste, in questo caso guidate dalla Cgil, sono per l’abolizione. E sappiamo anche sulla prima posizione sono schierate tanto Cisl e Uil quanto la Confindustria, parti sociali ai cui vertici non siedono certo amici di Berlusconi. Ebbene, adesso che anche dal Fondo Monetario viene la richiesta esplicita e piuttosto perentoria non solo a non cancellare la Biagi, ma semmai di proseguire lungo la strada delle scelte strutturali, il prossimo governo che farà, seguirà i suggerimenti di Epifani o quelli di Montezemolo, Pezzotta-Bonanni e Angeletti? E da qualunque parte decida di stare, saranno componibili le diverse posizioni interne al centro-sinistra? E come sarà possibile conciliare le promesse fiscali fatte in campagna elettorale con gli allarmi sui conti dei diversi organismi internazionali? E’ vero che lo stesso Fmi dice che risanamento e politiche di crescita sono due facce della stessa medaglia, ma siamo sicuri che il tema sia mettere un po’ di benzina nel motore (il taglio del cuneo fiscale) o non piuttosto mettere mano al motore, cioè cambiare il modello di sviluppo? Prima di rispondere a questa domanda, Prodi farebbe bene a dare un’occhiata a quanto ha speso Berlusconi in questi cinque anni tra minori tributi per persone e imprese, aumento delle pensioni e incentivi vari, e vedere quanto poco queste misure hanno reso sul pil.
Nel 2001 il Cavaliere denunciò il “buco” lasciatogli in eredità, ma neppure di fronte all’occasione d’oro dell’11 settembre ebbe la forza di dire la verità al Paese, cambiando strategia. E’ lecito dubitare che il Professore e la sua “maggioranza” avranno più coraggio.

Pubblicato sul Messaggero del 24 aprile 2005

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