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L'editoriale di TerzaRepubblica

L'asse Trump-Putin e la guerra all'Europa

PUTIN MINACCIA L’EUROPA E TRUMP GLIELO LASCIA FARE MA LA UE TENTENNA E L’ITALIA È BLOCCATA DA FORZE FILO-RUSSE

di Enrico Cisnetto - 06 dicembre 2025

L’Italia è nelle mani di una forte minoranza di blocco, pro-Putin. Mentre Mosca mette una pietra tombale sugli (inutili) tentativi di fermare il conflitto in Ucraina e minaccia l’Europa con parole di guerra, le più intimidatorie tra le tante fin qui pronunciate, a Roma una coalizione occulta, che controlla un quarto abbondante del Parlamento, condiziona la politica italiana su una questione di fondamentale importanza, assolutamente dirimente, come l’atteggiamento da tenere, come singola cancelleria e in sede europea e Nato, nei confronti della politica neo-sovietica del Cremlino.

La Lega conta su 65 deputati e 29 senatori, il movimento 5stelle su 49 parlamentari alla Camera e 26 al Senato. Sommati insieme, formano un fronte di 114 deputati, ovvero il 28,5% dei 400 totali, e di 55 senatori, pari al 26,83% dei 205 complessivi (inclusi i 5 senatori a vita). È il fronte giallo-verde, nato ai tempi del primo governo Conte (giugno 2018) cementato dalla comune (per non dire unanime) posizione sulla Russia di Putin, e che non si è mai dissolto – anzi, si è rafforzato con l’invasione russa dell’Ucraina, dal febbraio 2022 in poi – nonostante la rottura che nel settembre 2019 portò il primo presidente del Consiglio dichiaratamente sovranista (per sua stessa ammissione) a spostarsi a sinistra e senza colpo ferire fare il governo con il Pd. Il fatto è che Salvini e Conte la pensano proprio allo stesso modo: hanno simpatia personale per lo Zar moscovita (il leader leghista ne subisce il fascino e non lo nasconde, l’avvocato del popolo si trattiene e preferisce giocare di sponda), pensano che la guerra sia colpa del (presunto) espansionismo occidentale e delle (presunte) provocazioni della Nato, sostengono che Zelensky abbia sulla coscienza i morti e i feriti ucraini perché avrebbe dovuto subito arrendersi, e infine avallano la tesi che al tavolo della trattiva di pace Putin abbia il diritto di sedersi da vincitore e imporre le sue condizioni. Fanno da corollario a questa linea di pensiero la sintonia con Trump, laddove si spende come “amico” di Putin e “nemico” del Vecchio Continente, e un’avversione, celata da critica costruttiva, nei confronti dell’Unione europea. Si dice che non si tratti di semplici scelte politiche, ma anche di legami poco dicibili, una supposizione sorretta da alcuni elementi di fatto e a cui si dovrebbe comunque dar credito in nome del vecchio precetto andreottiano secondo il quale “a pensar male si fa peccato, ma ci si azzecca”. Ovviamente non dispongo di elementi probanti, tuttavia credo che non importi più di tanto sapere se la macchina di questi rapporti sia oliata o meno dai rubli, bastano le posizioni politiche per esprimere un giudizio più che netto.

Ma il fatto grave è che queste due forze, pur dislocate su sponde opposte e però così in sintonia, condizionano l’intero sistema politico: la Lega limita il governo Meloni, i 5stelle vincolano le opposizioni mentre sono alla ricerca di un “campo largo” in cui convivere per poi tentare di diventare maggioranza. Così l’effetto è molto più grande di quanto non sarebbe se i giallo-verdi unissero le loro forze in un patto politico esplicito. Per esempio, il partito di Salvini prima è riuscito a bloccare l’adesione dell’Italia al programma Purl della Nato (comprare armi negli Usa e regalarle all’Ucraina) e ora si frappone sia alla proroga degli aiuti militari a Kiev, che Meloni è stata costretta a rinviare a fine mese, sia alla proposta del ministro Crosetto di formare un nucleo di riservisti specializzati attivando la leva volontaria. Sull’altro fronte, il Pd – già culturalmente in balia di una figura (meglio non aggettivare) come quella di Francesca Albanese (si veda la War Room di mercoledì 3 dicembre, qui il link) – evita di spendere parole chiare e definitive sul conflitto russo-ucraino per non creare un solco con il “pacifismo pacifinto” di Conte (e di Bonelli-Fratoianni), anzi finendo per sposarlo sia in Italia che in sede europea. È l’essenza del bipopulismo.

Ma può un sistema politico siffatto resistere alle pressioni prodotte dalla disarticolazione dell’ordine mondiale così come si era configurato dalla guerra fredda in poi? La mia tesi, e non da oggi, è che il cortocircuito sarà inevitabile, e produrrà un cataclisma al cui confronto quello suscitato da Tangentopoli, con la fine della Prima Repubblica e il passaggio alla cosiddetta Seconda, verrà declassato a semplice nubifragio. Allora la caduta del muro di Berlino (novembre 1989), la dissoluzione dell’Unione Sovietica (dicembre 1991), la crisi del Patto di Varsavia e la caduta della “cortina di ferro”, con la conseguente fine degli equilibri mondiali stabiliti a Yalta, furono le premesse di quanto avvenne in Italia, paese cerniera tra Est e Ovest, dal 1992 in poi. Oggi la vicenda ucraina racchiude in sé le grandi questioni di questo primo quarto di secolo: il tramonto degli Stati Uniti come baluardo dell’Occidente e perno della solidarietà euro-atlantica; la fine del multilateralismo e l’avvento della geopolitica della forza come strumento che sostituisce il diritto  internazionale nel dirimere i conflitti (e farne nascere di nuovi) e indirizzare la globalizzazione economica (che resta, ma cambia di segno); la rinascita del progetto Unione Sovietica e relativa volontà egemonica; il confronto tra le democrazie e regimi autoritari in un contesto in cui si impone l’ideologia imperiale; il bivio europeo tra una definitiva integrazione politico-istituzionale e una disgregazione di stampo sovranista. Ecco perché, anche se lo si vuole negare, c’è in ballo molto di più delle sorti del martoriato paese che funge da cerniera tra l’Est russo e l’Ovest europeo.

Quando accadrà il cataclisma? Dipende da Putin. E da Trump. Ma se tre decenni fa tra le pietre cadenti di Berlino e le elezioni del 1992 (le ultime della Prima Repubblica) e quelle del 1994 (le prime della stagione bipolare) trascorsero rispettivamente 29 e 53 mesi, oggi non è azzardato fare il paragone calcolando il tempo che è passato da quel maledetto 24 febbraio 2022 in cui la Federazione Russa invase l’Ucraina: a Natale saranno 46 mesi. E si andrà oltre, a giudicare dall’esito – perfettamente prevedibile – delle cosiddette trattative di pace. Che altro non sono che un negoziato simulato, condizionato dal lancio del piano in 28 punti redatto dai russi con la complicità degli americani. Il cui obiettivo è procurare una rottura tra Kiev e Washington, e a cascata tra Usa e Ue e poi dentro l’Unione Europea (ecco spiegata la posizione gialloverde sugli aiuti militari italiani all’Ucraina). 

Putin non ha nessuna intenzione di fermarsi, e non ne fa mistero: nel momento in cui fissa delle linee rosse non negoziabili – dalla rivendicazione del Donbass all’imposizione di limiti alle forze armate ucraine e alla Nato – sapendo che non possono essere accettate da Zelensky (e dall’Europa), e quando aggiunge che se Kiev non si arrende quegli obiettivi li prenderà con la forza, è evidente che vuole tirare la corda. Non solo e non tanto per conquistare nuovi lembi di territorio ucraino, quanto soprattutto per indurre e accentuare la divaricazione tra Usa e Ue, sapendo di poter contare sul fatto che alla Casa Bianca c’è chi vuole la dissoluzione del Vecchio Continente non meno di lui. Dal canto suo Trump, che prova totale indifferenza verso le sorti della resistenza ucraina e nutre dispregio verso l’Europa, per intanto lucra il vantaggio di vendere agli europei quelle armi che una volta erano gli Stati Uniti a regalare a Kiev, e poi in prospettiva guarda esclusivamente al business della ricostruzione da combinare con Putin – non a caso ha mandato a Mosca l’immobiliarista Witkoff e suo genero Kushner, travestiti da diplomatici (sic) – affari che tanto più e tanto meglio si potranno imbastire se Mosca prevale. E comunque Putin, giusto per non lasciare nulla di intentato, si è fatto accogliere in pompa magna da Modi in India – potenza in forte crescita, non fosse altro perché compra il gas russo a prezzi stracciati, molto più bassi di quanto lo pagavamo noi ante-guerra – e da lì ha accusato gli europei di intralciare le buone proposte americane (i famosi 28 punti) arrivando a minacciare “se l’Europa vuole la guerra, noi siamo pronti, anche subito”. Della serie: parlare a nuora (Ue) perché suocera (Trump) intenda, e scelga da che parte stare, se con la Russia o con l’Europa. E la suocera americana ha perfettamente inteso, a leggere il documento di 33 pagine denominato “Strategia di sicurezza nazionale” appena firmato dall’inquilino della Casa Bianca, laddove si legge niente di meno che “i funzionari americani si sono abituati a pensare ai problemi europei in termini di insufficiente spesa militare e stagnazione economica, ma i veri problemi dell’Europa sono più profondi: il suo declino economico è eclissato dalla reale e stridente prospettiva di cancellazione della civiltà”. Parole che per chi si attarda a traccheggiare tra Bruxelles e Washington paiono tombali.

Gli ostacoli a questo perverso disegno russo-americano, che sposa ambizioni geopolitiche e portafoglio, poggiando sulla legge della forza e quella degli affari, sono sostanzialmente due: Zelensky, e l’Europa insieme con i Volenterosi. Pensate che sia un caso che proprio ora a Kiev sia scoppiato lo scandalo dei “cessi d’oro”? Il Cremlino mira da tempo a togliere di mezzo Zelensky e il suo governo, e non è gossip immaginare che ci sia lo zampino dell’intelligence russa se non direttamente nell’esplosione del caso di corruzione, di certo nella montatura mediatica che ne è seguita. Così come dietro l’enfasi che ha suscitato il “caso Mogherini-Sannino” c’è l’attività di professionisti la cui mission è sputtanare le istituzioni comunitarie –qualcuno sa dirmi com’è finito il Qatargate, che tanta indignazione aveva suscitato? – agli occhi dei cittadini continentali, a cui si sta cercando di vendere la tesi che del riarmo non c’è alcuna necessità perché la Russia non vuole fare del male a nessuno, ma che sono i politici europei corrotti a volerlo per il loro sporco tornaconto personale.

D’altra parte, l’Europa, pur essendo oggetto della guerra ibrida che è già in corso – fatta di sabotaggi, attacchi cyber e infiltrazioni – e ora pur minacciata esplicitamente anche sul piano militare, fatica a rispondere per le rime. Un po’ perché la propaganda russofila si è incuneata nella politica e nelle opinioni pubbliche continentali più di quanto non si ammetta, un po’ perché non si è ancora metabolizzato il lutto della fine della solidarietà euro-atlantica – anche perché ci sono forze e governi che cercano disperatamente di tenere un rapporto con Trump, senza rendersi conto che al di là di ogni altra considerazione, si tratta di una fatica inutile – e un po’ per colpa delle divisioni e delle vischiosità che sono proprie della casa comune europea. Così la contraddizione di approvare il definitivo addio al gas russo, ma di prevederlo in modo troppo graduale (entro il 2027), e ancor più il tira e molla sulle riserve finanziarie di Mosca congelate in Belgio, che potrebbero esser impiegate a sostegno di Kiev, consegna a Putin, e a Trump, l’immagine di un’Europa perdente. In questo quadro, anche la capacità di deterrenza inizialmente mostrata dai Volenterosi rischia di affievolirsi, se non di svanire del tutto. Restare un semplice patto di consultazione tra paesi non è più sufficiente, specie permanendo in sede Ue il vincolo delle decisioni all’unanimità. Ma Macron, Merz e Starmer hanno ciascuno problemi domestici di non poco conto, e i capi di Canada, Giappone e Australia sono troppo lontani dal focolaio della guerra, quella in corso e quella potenziale, per assumere la leadership dell’unico strumento insieme alla Nato (ma lì c’è da fare i conti con Trump) che resta al vecchio Occidente per difendersi e ribadire la propria esistenza.

Se questo è il quadro geopolitico, complesso e drammatico, in cui siamo immersi (The Donald, con la sua consueta eleganza, l’ha definito “un casino”), per noi italiani la domanda delle domande è: cosa dobbiamo e possiamo fare? Due cose fondamentali. La prima è acquisire la piena consapevolezza dei termini del passaggio epocale che stiamo vivendo, senza la quale non possiamo far altro che subire il destino che altri ci riservano. Nel mio piccolo, con TerzaRepubblica e la linea editoriale di War Room, cerco di andare in questa direzione. La seconda è prendere atto che con il nostro sistema politico e istituzionale non si possono affrontare cambiamenti perigliosi e minacce angoscianti. Il bipopulismo condizionato su entrambi i fronti da forze di fatto pro-Putin è comunque una sciagura, ma in questo particolare contesto equivale ad una roulette russa (ogni riferimento è puramente voluto) con il tamburo della rivoltella puntata alla tempia non con un solo proiettile, come l’azzardo prevede, ma pieno. Per cui l’esito del gioco non è potenzialmente letale, lo è sicuramente. Ergo, ciascuno si faccia un esame di coscienza. (e.cisnetto@terzarepubblica.it)

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