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L'editoriale di TerzaRepubblica

Come far saltare il bipopulismo

PROPORZIONALE (SENZA PREMIO), PARTITO DEL CAMBIAMENTO E MOZIONE PARLAMENTARE CHE VINCOLI L’ITALIA AI VOLENTEROSI

di Enrico Cisnetto - 29 novembre 2025

L’Italia è ormai una democrazia a rappresentatività limitata. Quando si recano alle urne 4 elettori su 10 e si perdono centinaia di migliaia di voti – come è stato alle regionali in Veneto, Campania e Puglia – rendendo patetiche le manifestazioni di giubilo dei “vincitori” e fuori luogo le pensose valutazioni degli analisti, tutte basate sulle percentuali e non sui numeri assoluti, quando il governo del Paese, di una regione o di un qualsiasi ente locale è affidato a maggioranze che sono tali formalmente ma non sul piano della reale rappresentatività perché quando va bene raccolgono un quarto del consenso potenziale, significa che la disaffezione dei cittadini è ormai cronica e la politica è patologicamente malata. Fin qui la risposta a questa tendenza che dura da anni e che ad ogni consultazione si accentua e si aggrava, è stata liquidatoria: derubricare il fenomeno a fatto fisiologico, magari trovandogli qualche misera giustificazione – questa volta si è detto che gli elettori sono rimasti a casa perché mancava la competizione e i risultati erano scontati, come se si trattasse di una gara sportiva – o, peggio, battezzandolo come positivo, in quanto la scarsa affluenza dimostrerebbe che in fondo la nostra è una democrazia matura perché le differenze sono minime e quindi la vittoria degli uni o degli altri non comporta effetti epocali (peccato che questa tesi faccia a pugni con il reciproco accusarsi di voler ripristinare il fascismo e affermare il comunismo). La verità, invece, è che il rifiuto degli elettori di esercitare il loro diritto/dovere – perché di giustificato ripudio si tratta, non di colpevole disinteresse – arrivato a questo livello di anomalia (si pensi che a Taranto, città che vive il dramma dell’Ilva, è andato a votare un elettore su tre), certifica il definitivo fallimento del sistema politico, quel bipolarismo incautamente salutato nel 1994 come la panacea di tutti i mali e diventato, dopo l’avvento sulla scena dei 5stelle, l’attuale sciagurato bipopulismo (si veda la War Room di giovedì 27 novembre, qui il link).

Dunque, è dai connotati del bipopulismo, che dobbiamo partire nell’interrogarci su come uscire da questa crisi della nostra democrazia, che a sua volta ci ha portato in dote tre decenni di declino economico-sociale e di impoverimento culturale. Michele Salvati, un magnifico intellettuale riformista che rifiuta gli ideologismi e vorrebbe la sinistra liberaldemocratica, in un editoriale sull’Altravoce diretta dal mio amico Alessandro Barbano, ha definito “icastica” la mia descrizione dell’italico bipolarismo a trazione populista: “scontro tra opposti sul passato, comune immobilismo nel presente e totale assenza di futuro”. Lo ringrazio pubblicamente, dopo averlo fatto privatamente, di questo lusinghiero apprezzamento. In effetti, si tratta di un sistema iper polarizzato, in cui la golden share dei due fronti contrapposti è in mano alle forze più estreme e radicali, comunemente connotate da tratti populisti basati sull’anti-politica, ma divaricate dalla dimensione sovranista (la destra) e da quella massimalista (la sinistra). Ciò è potuto accadere per la scomparsa dei partiti tradizionali – connotati da matrici culturali e a larga partecipazione democratica – che hanno lasciato il posto a forze e a movimenti leaderistici, indotti da leggi elettorali a tendenza maggioritaria (ma sempre pasticciate, mai pienamente né maggioritarie né proporzionali) ad aggregarsi in coalizioni pre-elettorali quanto più larghe possibili, e dunque altamente disomogenee. Esse, in base al principio della “utilità marginale”, hanno conferito un enorme potere di condizionamento e ricatto alle formazioni più piccole e ai notabilati, producendo un’altissima conflittualità al loro interno, cui nel centro-sinistra si è cercato di sopperire con una vorticosa rotazione dei leader e nel centro-destra con leadership accentuatamente padronali. Questo sistema ha prodotto “non governo”, nonostante il progressivo spostamento del baricentro del potere dal Parlamento all’esecutivo. E, politicamente, ha costretto le forze conservatrici e moderate, atlantiste (pre Trump) ed europeiste, a coabitare da gregarie dentro una coalizione dominata dalla destra populista e sovranista, mentre ha indotto il Pd a darsi una leadership subalterna al “banalismo” dei 5stelle, ancillare al massimalismo della sinistra radicale e della Cgil landiniana e succube del movimentismo purchessia, confinando in un ghetto i riformisti (anche per colpa loro).

Ora, che il sistema non funzioni è sotto gli occhi di tutti: crollo della credibilità delle istituzioni, caduta verticale della qualità della classe politica, immobilismo legislativo, nessuna progettualità strategica. E comunque il suo fallimento è certificato dal livello di guardia raggiunto dall’astensionismo. E poi, se non bastasse, a rendere nudo il re è lo scenario geopolitico nel quale siamo immersi, oggetto di cambiamenti talmente epocali – dalla fine della tradizionale solidarietà euro-atlantica che ci ha garantito quasi 80 anni di sicurezza e benessere, all’incombente guerra ibrida verso l’Europa con cui la Russia accompagna quella militare in Ucraina – da rendere ineluttabile lo scoppio delle contraddizioni che spaccano trasversalmente maggioranza e opposizioni, nonostante la coalizione di centro-destra abbia il collante dell’essere al governo e l’altra abbia la chimera di costruire l’alternativa del “campo largo” per conquistare palazzo Chigi. È solo questione di tempo. E il fatto che la presidente del Consiglio si sia già predisposta a cambiare il registro della sua narrazione politica, passando dal “abbiamo fatto” al “ci hanno impedito di fare”, mi induce a pensare che il momento dello showdown non sia lontano.

Ma nell’attesa che le dinamiche internazionali presentino il conto – ahinoi, salatissimo – cosa possiamo fare per cambiare le cose? Io credo che occorra partire da alcuni postulati. Il primo: domanda e offerta politica non s’incontrano. Gli italiani si sono stancati della contrapposizione permanente e hanno capito che il populismo è una presa per i fondelli, ma non trovando chi offra loro qualcosa di radicalmente diverso, hanno come unica alternativa il non voto. Il secondo: se il partito di maggioranza, fino a ieri relativa, oggi ormai assoluta, è quello dell’astensione, allora occorre ambire a mettersi alla testa di questa “non forza”. Il terzo: per riuscirci, avendo l’obiettivo non solo di far tornare la gente alle urne, ma anche di far riscoprire il fascino della partecipazione e magari anche quello della militanza, non puoi urlare più forte degli altri le ragioni degli scontenti, ma devi spiegare, rendendo comprensibile la complessità, come si esce dal declino, di cui il bipopulismo è insieme causa ed effetto. Il quarto, e ultimo: per liberarci del bipopulismo occorre agire su tre piani, culturale, parlamentare e politico. Vediamo come.

Sul piano culturale occorre liberarsi di alcuni stereotipi. Per prima cosa bisogna riaffermare il concetto che il fine della politica è governare i processi, e dunque la competizione elettorale è solo un mezzo. Vincere purchessia, introiettando i veleni che dopo aver vinto ti impediranno di governare, è una distorsione. Per questo va abbandonato il dogma “la sera delle elezioni dobbiamo conoscere il vincitore”, e accettare l’idea – in armonia con la Costituzione, peraltro – che sarà il Parlamento a forgiare le alleanze di governo. Per far questo è necessario che la politica rompa la camicia di forza del “o di qua o di là”, riguadagnando la dialettica a geometria variabile, che è l’unico modo per far prevalere le posizioni più mediane rispetto a quelle estreme. Come si esce dal bipolarismo radicalizzato? I grimaldelli che io vedo usabili a questo fine sono due. Il primo è la legge elettorale proporzionale, il secondo è la nascita di una forza nuova (non semplicemente una nuova forza).

Se la priorità è ricostruire un sistema di partiti espressione di culture politiche e ripristinare le condizioni di legittimità democratica del Parlamento, come premessa perché una legittima e forte rappresentanza politica produca governabilità effettiva e non fittizia, la si può perseguire solo con un sistema autenticamente proporzionale, che induca le forze in campo a caratterizzarsi e non semplicemente a schierarsi, e lasci agli elettori la responsabilità sia di stabilire il peso relativo delle diverse aree politiche sia di scegliere la qualità degli eletti (dunque servono le preferenze, non le liste bloccate). Sapendo che un sistema elettorale non è solo una modalità per trasformare i voti in seggi, ma è un meccanismo che plasma il comportamento degli elettori.

Attenzione, però: quando dico genuinamente proporzionale, intendo che il giusto equilibrio tra rappresentatività e stabilità dell’esecutivo va trovato attraverso l’unico correttivo che evita la frammentazione, e dunque tutela la governabilità, senza introdurre elementi distorsivi. Sto parlando di una soglia di sbarramento robusta, per esempio il 5% con un diritto di tribuna per chi non la raggiunge, come nel sistema tedesco, efficacemente sperimentato da decenni. Non c’è bisogno di inventarsi nulla, tanto meno medicine che rischiano di essere più dannose del male, come la riforma elettorale che il governo Meloni sembra voler attuare. Si parla di una legge che assegnerebbe alla minoranza più forte un premio che le consentirebbe di avere la maggioranza dei seggi parlamentari non conquistata nelle urne. È un meccanismo che molti anni fa (era il 1953) fu chiamato “legge truffa” benché prevedesse di concedere il premio a chi comunque fosse arrivato a superare il 50% dei voti, non come oggi che la soglia minima, ammesso che venga indicata, non sarebbe superiore al 40%. Insomma, questo come qualunque altro marchingegno elettorale pensato per costruire maggioranze fittizie, perpetuerebbe, accentuandoli, i difetti del bipopulismo. Così come la forzatura istituzionale chiamato “premierato”, di cui si torna a parlare in abbinamento alla legge elettorale super-maggioritaria. In questi anni alle leadership di governo è mancata forza politica, non poteri formali, e dunque non serve accrescere questi ultimi per sopperire alla povertà della prima. E se proprio si vuole andare in quella direzione, anche qui basta copiare ciò che funziona altrove: il cancellierato alla tedesca.

Il secondo grimaldello con cui far saltare il fallimentare sistema politico-istituzionale che abbiamo è (sarebbe, il condizionale è d’obbligo) la nascita di un soggetto politico che abbia la lungimiranza e la forza di proporsi al Paese, e in particolare agli astensionisti che sono tali non per qualunquismo, con una diagnosi onesta dei problemi e una coraggiosa terapia innovativa. Non sto parlando, dunque, di un banale Terzo Polo, caratterizzato solo dall’essere distinto rispetto alle due attuali coalizioni, e che per definizione avrebbe – al di là del frazionismo già sperimentato – le stigmate della piccola enclave minoritaria. Magari nata intorno alla figura di qualcuno, e che quindi ripropone il difetto esiziale del partito padronale. No, sto parlando di qualcosa di molto più imponente. Perché la necessità del cambiamento radicale di cui il Paese ha bisogno per risollevarsi è talmente grande, che le piccole operazioni di minoranza, per quanto animate da buone intenzioni e realizzate da gente rispettabile, sono già in partenza destinate al fallimento. Ovviamente, tanto più è alta l’asticella dell’ambizione, tanto maggiore è la difficoltà. E infatti, ciò di cui parlo richiede risorse, supporto culturale e mediatico, una borghesia del fare consapevole delle sfide che abbiamo davanti e del proprio ruolo sociale, disposta a mettersi in gioco. Significa partire non da un leader, vero o presunto, che coopta gregari, ma da una élite che aggrega forze intorno ad un lavoro di elaborazione, e nel farlo fa maturare leadership plurali. Insomma, roba tosta, difficile, complicata. Ma non impossibile, perché una cosa del genere, specie in contesto proporzionale, sono convinto farebbe strike, conquistando un consenso da renderla una forza di maggioranza relativa.

Un proporzionale non imbastardito e la nascita di un attore del cambiamento radicale? Lo so, potrei essere preso per matto o, nel migliore dei casi, per visionario. Ma non vivo sulla luna. E sono sicuro che basterebbe un piccolo granellino di sabbia per rompere gli equilibri e innescare questi processi virtuosi. Ne suggerisco uno agli assennati che stanno in Parlamento (qualcuno c’è): se tra i moderati del centro-destra, i riformisti del centro-sinistra e chi sta fuori dai due poli si trovasse il coraggio di concordare una risoluzione parlamentare per formalizzare l’adesione dell’Italia, senza se e senza ma, alla coalizione dei Volenterosi, Forza Italia e Pd non potrebbero sottrarsi dal votarla e si aprirebbe un caso politico che metterebbe in crisi le basi stesse del bipopulismo. Lo so che fin qui quello dei Volenterosi è stato un semplice patto di consultazione tra cancellerie, ma ora il combinato disposto tra il precipitare delle questioni geopolitiche e il permanere della Ue in una condizione di impasse ingiunta dai paesi filo-russi dell’Unione, impone che al più presto quel patto compia un salto di qualità, dandosi un assetto formale e organizzato, una sede, una governance, un mandato preciso. Ecco perché una risoluzione parlamentare italiana, sicuramente benedetta dal Quirinale, non solo vincolerebbe Roma, ma la farebbe diventare l’innesco di questa iniziativa rivoluzionaria, dando all’Italia una centralità che l’attuale cerchiobottismo bipopulista non gli consente di avere. Oltre al fatto che metterebbe in moto processi politici tali da favorire una giusta legge elettorale proporzionale.

Anche qui, si tratta di un’operazione complessa. Ma le guerre di Putin – sul campo e ibrida – avanzano, così come avanza inesorabilmente il nostro declino nazionale. Alzi la mano chi pensa di potersi permettere a cuor leggero di ritrovarsi un giorno con il rimpianto di non aver fatto il possibile. Io no. (e.cisnetto@terzarepubblica.it)

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