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L'editoriale di TerzaRepubblica

New York, lo scossone Dem e noi

FORZA E FRAGILITÀ DEL MODELLO MAMDANI. IL PD DI SCHLEIN SBAGLIA SE PENSA CHE IL MASSIMALISMO SIA VINCENTE

di Enrico Cisnetto - 08 novembre 2025

Ci sono due modi, egualmente corretti e utili, per accogliere e valutare i sorprendenti risultati elettorali americani dei giorni scorsi. Il primo è compiacersi del risveglio democratico dell’America, laddove s’intende sia la reazione popolare alle torsioni illiberali imposte da Donald Trump, sia il ritorno in vita, dopo la brutta pagina scritta dal duo Biden-Harris, del partito Democratico. Il secondo modo è preoccuparsi, e non poco, dell’effetto Zohran Mamdani, per quello che il populismo comunisteggiante del neo sindaco di New York ha di uguale/opposto al populismo fascisteggiante del presidente degli Stati Uniti, e per la tentazione imitativa, già scattata, a cui le sinistre europee, e quella italiana in particolare, non sapranno sottrarsi. Analizziamoli entrambi.

Avendo scritto che la vittoria di Trump, un anno fa, più che della sua capacità di presa sull’elettorato fosse figlia della mancata preoccupazione di larghe fasce di cittadini americani moderati di quello che avrebbe combinato se rieletto alla Casa Bianca, e avendo, più recentemente, espresso grande preoccupazione per la scarsa reazione che tanto il partito Democratico quanto la società stavano mostrando di fronte ai colpi inferti dal presidente alla democrazia statunitense, ora non posso che felicitarmi per il sussulto mostrato. E parlo non solo e non tanto a New York, ma dei successi, propiziati da una forte affluenza alle urne, di due candidate democratiche, Abigail Spanberger e Mikie Sherrill, elette governatrici rispettivamente di Virginia e New Jersey. Due stati finora governati dai repubblicani ma dove alle presidenziali Trump aveva perso con un distacco di 5 punti percentuali, mentre ora i candidati repubblicani sono rimasti indietro di 15 e 13 punti. Inoltre, il profilo delle due vincitrici è assai diverso da quello del radicale Mamdani. Lui membro del DSA, il partito socialista americano la cui piattaforma politica va dal pacifismo senza se e senza ma (disarmo, chiusura delle basi Usa all’estero, ritiro dalla Nato) all’economia pubblica imposta a suon di nazionalizzazioni, loro patriote (ex funzionaria della Cia la Spanberger, ex pilota militare della US Navy la Sherrill) prive di dna populista. A ciò si aggiunga il voto in California a favore della legge che permette di ridisegnare i confini dei distretti elettorali, un magheggio che favorirà i democratici esattamente speculare a quello fatto in Texas per avvantaggiare i repubblicani, e un primo pronunciamento della Corte Suprema che a maggioranza (due dei sei giudici conservatori unitamente ai tre liberali) ha espresso seri dubbi circa l’uso dei poteri d’emergenza cui Trump è ricorso per scavalcare il Congresso nel decidere la guerra dei dazi lanciata contro il resto del mondo. Non è ancora il verdetto definitivo, ma non è un caso che il presidente americano l’abbia definita “una questione di vita o di morte” per l’effetto che potrà avere la decisione della Corte, che Trump pensava di avere in pugno.

Insomma, in vista delle elezioni di midterm e mentre s’intensificano le voci circa l’intenzione della Casa Bianca, per le presidenziali del 2028, di forzare il vincolo costituzionale che impedisce un terzo mandato – cambiando la Costituzione o scatenando una guerra civile (Steve Bannon dixit) – Trump ha subìto, probabilmente in modo per lui inaspettato, una prima pesante sconfitta che suona da campanello d’allarme per il futuro. Salutare se lo indurrà a più miti consigli, pericolosa se lo spingerà ad accentuare ancor di più i suoi atteggiamenti illiberali e anti democratici. E che possa accadere la seconda di queste due circostanze lo fa temere – al di là dell’egocentrismo espanso di Trump, il cui ridimensionamento è assai improbabile – proprio il profilo politico del nuovo sindaco della Grande Mela. In molti ritengono, infatti, che Mamdani sia una manna dal cielo per The Donald, l’avversario – pardon, il nemico – perfetto contro cui costruire una nuova stagione di consenso. Per dirla all’italiana, quello che Schlein rappresenta per Meloni. Io, invece, mi preoccupo di un’altra cosa: la sommatoria dei due opposti, ma per molti versi simili, populismi. Entrambi rispondono allo schema “buoni-cattivi”, prediligono il “popolo contro le élite”, praticano senza limiti il vittimismo (Trump evocando la “dittatura woke”, Mamdani l’imperialismo e lo strapotere delle multinazionali). Persino lo slogan trumpiano de “l’America first” ha come altra faccia di una medesima medaglia l’idea del democratico-socialista che la presenza degli Stati Uniti nel mondo sia lo strumento di un colonialismo al servizio della maledetta globalizzazione (che per Trump ha rapinato il popolo americano, e per Mamdani è la fase più avanzata del capitalismo predatorio che pratica la forma più moderna di sfruttamento). Ma soprattutto, entrambi fanno egualmente promesse non mantenibili: uno ha riavuto la Casa Bianca raccontando che con i dazi e il programma Maga riporterà gli Usa all’età dell’oro, l’altro ha conquistato la New York City Hall con un programma fatto di trasporti e asili gratis, blocco degli affitti, supermercati comunali a prezzi politici, salario minimo e così via (e va ancora bene che abbia depennato dal suo programma il taglio dei fondi per la polizia).

Dunque, il populismo di destra in salsa trumpiana e il massimalismo di sinistra del predicatore newyorkese sono destinati ad alimentarsi l’un l’altro, moltiplicando una radicalizzazione che ha già portato l’America sull’orlo di una crisi di nervi. E se ha ragione Bannon, che conosce Trump non meno di Melania, circa la deriva della guerra civile che l’inquilino della Casa Bianca sarebbe disposto a scatenare pur di non esserne sfrattato, allora per Trump avere di fronte una figura additabile come “comunista” e “anti-capitalista”, e per di più musulmano, è la condizione che più di ogni altra rende favorevole, e probabile, lo scatenamento di uno showdown dai toni apocalittici.

È alla luce di queste considerazioni che i democratici devono porsi l’esistenziale domanda: per battere Trump è più funzionale il profilo massimalista di un Mamdani – lui non può candidarsi perché non è nato negli Usa, ma potrebbe fare da battistrada ad Alexandria Ocasio-Cortez, non meno estremista del neo sindaco di New York – o quello pragmatico e riformista delle due neo governatrici di Virginia e New Jersey, o del governatore della California, Gavin Newsom, e di quello della Pennsylvania, Stato decisivo negli equilibri elettorali, Josh Shapiro? Sapendo che una scelta andrà fatta, perché il “campo largo” americano – chissà se d’ora in avanti negli States useranno l’espressione “wide field” – funziona fintanto che si tratta di eleggere governatori o sindaci, ma a livello federale no. Contro Trump, o Vance se sarà il suo successore, dovranno scegliere il candidato più capace di catturare l’elettorato moderato delle classi medie che ha orrore del trumpismo, convincendolo a non restare a casa, e non credo proprio che Mamdani sia quello giusto. Basterebbe ricordare, come Stefano Folli ha fatto su Repubblica, il voto per la Casa Bianca del 1972. Nell’America attraversata dai cortei pacifisti contro la guerra del Vietnam, “i democratici scelsero come candidato George McGovern, figura di alto profilo morale che sul piano politico s’identificava con l’estrema sinistra: era pacifista, contrario all’impegno nel Vietnam, favorevole a ridurre di un terzo le spese militari. La sconfitta elettorale fu catastrofica e permise a Nixon una rielezione a valanga”. La storia insegna sempre: Ocasio-Cortez potrebbe essere la McGovern del 21esimo secolo.

Nel frattempo che Obama e quel che resta del vecchio establishment democratico a stelle e strisce – poco, ora che anche Andrew Cuomo, da indipendente, ha appeso le scarpe al chiodo – risolvano il dilemma, ecco che qui da noi Mamdani è già diventato un “ismo” che fa battere i cuori della sinistra perennemente in cerca d’autore. Elly Schlein ha subito parlato di “vittoria della speranza contro la paura”, e in molti, frementi, gli hanno fatto eco. Peccato, però, che così come è assai difficile che un candidato alla Mamdani possa battere Trump, altrettanto una personalità della sinistra italiana votato al “mamdanismo” possa fare lo sgambetto a Meloni. New York non è l’America, e non è un caso che in quella multietnica realtà, Mamdani abbia conquistato la stragrande maggioranza del voto ispanico e nero, mentre quello dei bianchi e degli asiatici è andato prevalentemente a Cuomo. Tanto meno la Grande Mela è l’Italia dei mille campanili. Illudersi, là come qui, che Mamdani sia un modello copiabile ed esportabile, significa commettere un errore politico di assoluta gravità. I Democrat americani e quelli nostrani hanno lo stesso problema: capire che per battere trumpismo e melonismo occorre (ri)portare a votare quella maggioranza silenziosa e delusa, a cui repelle il bi-populismo e la conseguente radicalizzazione della politica. Gente moderata, de-ideologizzata, vogliosa di pragmatismo e concretezza come risposta al loro disorientamento.

Per riuscire in questo intento occorre uno sforzo di elaborazione. Prima di tutto capendo che così come la radicalizzazione Trump-Mamdani fa male, un male cane, agli Stati Uniti – e dunque al mondo intero – così la radicalizzazione italica tra Schlein-Conte e Meloni-Salvini fa male all’Italia (e all’Europa). La gente è stanca di una politica militarizzata, priva del ben che minimo spazio di convivenza, che abbaia e non morde (i problemi), che non studia e non pensa, che si riduce a farsi rappresentare dalla quotidiana nauseante pantomima dei talk show televisivi. Se la risposta alle contraddizioni della destra – che è costretta ad appuntarsi al petto come medaglia al valore l’incoerenza di Meloni rispetto al suo passato perché non ha altro – è l’affannosa ricerca di Schlein del “campo largo” che ha consegnato il Pd mani e piedi al populismo dei Cinquestelle, al radicalismo da quattro soldi di Fratoianni-Bonelli e al massimalismo ottuso di Landini, il risultato inevitabile è l’astensionismo sopra il 50% (destinato a crescere ulteriormente, ahimè).

Naturalmente, ci si può consolare (illudere) come fa Giuliano Ferrara, raccontandosi che in fondo la nostra è una radicalizzazione all’italiana, all’acqua di rose. È vero, non rischiamo la guerra civile e il terrorismo degli anni Settanta non torna, ma una politica polarizzata basata sulla delegittimazione reciproca e incapace di assicurare coalizioni omogenee, tanto della maggioranza quanto dell’opposizione che si candida come alternativa, neppure su questioni basilari come il posizionamento internazionale dell’Italia, a me non piace neanche un po’ e non rende un buon servizio al Paese. Viviamo, noi qui, ma anche gli americani non sono da meno, una contraddizione tanto paradossale quanto angosciante: siamo vittime di una radicalizzazione politica senza senso, ma abbiamo assoluta necessità di un cambiamento radicale del sistema politico e istituzionale, del modello di sviluppo e di welfare, dei paradigmi culturali. Radicalizzazione e (cambiamento) radicale hanno la stessa matrice lessicale, ma vogliono dire due cose diverse, anzi opposte. Abbandonare la prima e sposare con coraggio la seconda è l’unico modo per salvarsi. L'Italia per interrompere il lungo ciclo del declino in cui è precipitata. L’America per tornare ad essere il paese della libertà, sua e del mondo. (e.cisnetto@terzarepubblica.it)

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