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L'editoriale di TerzaRepubblica

Melonismo e antimelonismo fanno male al Paese

DOPO QUELLA SU BERLUSCONI, L'ENNESIMA GUERRA (IN)CIVILE DELL’ITALIA BIPOLARE CHE FA CRESCERE IL NON VOTO

di Enrico Cisnetto - 25 ottobre 2025

Ha voglia Carlo Calenda di dire che quelli tra Giorgia Meloni e Elly Schlein sono “battibecchi insopportabili” e di pretendere che “si combatta sui contenuti”: gli appelli a bagnare le polveri e a concentrarsi sulle proposte di merito sono perfettamente inutili. Così come è una perdita di tempo cercare di individuare chi ha cominciato per primo, e di conseguenza graduare le responsabilità. Se la presidente del Consiglio definisce la sinistra italiana “più fondamentalista di Hamas” e la segretaria del Pd parla di “democrazia e libertà di parola a rischio con la destra al governo”, o se il vice primo ministro Matteo Salvini sostiene che “la violenza politica organizzata è a sinistra, ed è responsabile del clima d’odio” mentre il segretario della Cgil Maurizio Landini rifila alla Meloni l’appellativo di “cortigiana di Trump”, non si tratta di voci dal sen fuggite, di scatti d’ira, di buone maniere dimenticate o mai imparate. E neppure di consapevole inclinazione alla propaganda, cosa che farebbe presupporre di essere capaci di fare anche il contrario. No, questa è la loro predisposizione naturale, l’espressione fisiologica di una politica che o è contrappositiva o non è. In altre parole, è la cifra della politica italiana, basata sulla contrapposizione amico-nemico, sulla demonizzazione dell’avversario, sulla reciproca delegittimazione, sul linguaggio truculento che compensa la mancanza di argomenti. Una politica che tanto è vuota di programmi, di visioni del mondo e di cosa debba essere l’Italia, e tanto più si riempie di bolle d’odio. Se non hai niente di tuo con cui rappresentarti, ti definisci nell’essere “anti” qualcosa e, soprattutto, qualcuno. E per farlo attingi al passato – evocando i comunisti che mangiano i bambini, da un lato, e il ritorno del fascismo, dall’altro – non avendo un presente presentabile e non sapendo immaginare un futuro. Ergo, quello che il nostro sciagurato sistema d’informazione ha definito il “duello Giorgia-Elly”, come ha scritto il mio amico Davide Giacalone “non è uno scontro, ma una convergenza di pochezze”. E d’altra parte, in una politica priva di idee, i protagonisti non possono che ricorrore al solo vocabolario che conoscono, quello del lessico populista.

Sia chiaro, non è cosa di oggi. Avendo spinto il Paese ad illudersi che il sistema maggioritario e il bipolarismo sarebbero stati salvifici dopo la fine della Prima Repubblica per via di Tangentopoli, per quasi un ventennio, dal 1994 al 2011, la politica italiana si è basata sullo schema binario berlusconismo-antiberlusconismo. Una contrapposizione allo stesso tempo impolitica e fittizia, perché basata sul giudizio su una persona, e fondamentalista, da guerra di religione, incarnata da partiti personali privi di radici culturali che hanno formato alleanze spurie, di cui le componenti minoritarie ed estreme hanno avuto la golden share. Ai tempi, questo schema bipolare ha giovato prevalentemente a Berlusconi, mentre il centrosinistra è riuscito a prevalere solo quando alla sua guida c’era un moderato, non un pasdaran dell’antiberlusconismo. Mentre a destra la radicalizzazione ha favorito prima il populismo del Cavaliere – incentrato sulle caratteristiche affabulatorie del personaggio e di quello che rappresentava per gli italiani – e adesso fa le fortune di Giorgia Meloni, che ha vinto le elezioni da posizioni di radicalismo nazional-populista ma ora pratica l’esatto contrario di quel che ha predicato e fa dell’incoerenza il suo maggior pregio. Se avesse portato avanti le politiche che si era prefissa e sotto le cui bandiere aveva mosso i suoi primi passi, il paese sarebbe al collasso. Per fortuna ha avuto la saggezza di evitare questo percorso, e di questo bisogna dargliene atto.

Con la scomparsa del Cavaliere e i riconoscimenti postumi persino sdolcinati da parte dei vecchi nemici, in molti si erano illusi che quel sentimento “anti” fosse morto insieme con l’oggetto dei suoi strali. Ma così non è stato, nonostante che nel frattempo due governi tecnici, Monti e Draghi, avrebbero potuto servire a seppellire le asce di guerra. Prima le letali tossine di anti-politica messe in circolo dall’avvento sulla scena del movimento grillino del “vaffa”, che ha aumentato esponenzialmente il tasso di populismo dell’intero sistema politico, poi lo spostamento a destra del centro-destra, diventato destra-centro (gli elementi di parziale moderatismo della Meloni sono stati compensati dalla radicalizzazione delle posizioni della Lega salviniana, oltre che dalle ricorrenti uscite della stessa presidente del Consiglio tese a tener buona la vecchia base missina), hanno favorito l’eclissi della stagione riformista della sinistra a favore di un “movimentismo dozzinale” (Luigi Zanda dixit) incarnato dalla Schlein con l’avvento alla segreteria del Pd nel marzo 2023. E così il vecchio schema berlusconismo-antiberlusconismo si è riproposto, come la peperonata di notte, nell’attuale modalità di melonismo-antimelonismo. Con una fazione che accusa l’altra niente meno di mettere in pericolo la democrazia e la libertà, e viceversa. 

E allo stesso modo in cui l’antiberlusconismo faceva maledettamente comodo a Berlusconi, che si è potuto ergere a vittima addossando ai suoi nemici la colpa delle falle degli esecutivi che presiedeva (“mi impediscono di governare”), altrettanto accade ora con le sinistre, parlamentari ed extra, che regalano alla Meloni legna pregiata per far ardere il sacro fuoco del vittimismo e del complottismo. Tanto che ha potuto festeggiare, con dosi trumpiane di trionfalismo, la durata del suo governo, il terzo più longevo della storia della Repubblica, e si avvia a contendere – guarda caso proprio a Berlusconi – le prime due posizioni di questa ingannevole classifica (continuità non è automaticamente sinonimo di governabilità). Dunque, la presidente del Consiglio – cui di certo non fanno difetto l’abilità e la scaltrezza – approfitta dell’inettitudine politica della sua avversaria (pardon, nemica), per esempio quando ha fatto intendere una cosa di una gravità inaudita, e cioè l’esistenza di una qualche indirettta responsabilità del governo nell’attentato a Sigfrido Ranucci (cosa che lo stesso giornalista ha escluso), sapendo bene, la Meloni, che quel suo ribattere colpo su colpo come ha fatto trasformando le aule di palazzo Madama e di Montecitorio in un ring, piuttosto che le intemerate di sua iniziativa, come quella su “flotilla per Gaza e Hamas”, rappresentano gravi sgrammaticature istituzionali, visto il suo ruolo. Sarebbe bastato far replicare a qualcuno dei suoi, possibilmente non un ministro. Ma pur essendone consapevole, non considera l’opzione silenzio – che peraltro pratica abbondantemente quando invece dovrebbe parlare – perché sa che da quel meccanismo di contrapposizione verbale ha tutto da guadagnare. Perché a votare vanno ormai solo le tifoserie, e quella della curva di destra in questa fase storica prevale su quella di sinistra. Il resto, cinicamente, non conta. E poco importa se alla fine, bene che vada, chi conquista palazzo Chigi rappresenta il 51% del 50% degli aventi diritto al voto, perché l’importante è vincere, facendo prevalere nel dibattito politico il valore delle percentuali rispetto al numero assoluto dei voti (anche per colpa dei media, che non contestano, rovesciandolo, questo approccio).

Ma quali frutti può dare un sistema politico in cui gli elettori sono indotti a scegliere in ragione delle antipatie che nutrono e le stesse coalizioni si formano in funzione “anti”, per “battere le sinistre” o per “fermare le destre”? E infatti il risultato di questo progressivo scadimento della politica sono appunto le urne deserte, e penso possa avere ragione Alessandro Campi quando nella War Room di martedì 21 ottobre (qui il link) ha espresso il timore che mentre “noi diciamo che i politici dovrebbero fare di tutto per riportare gli italiani alle urne, si ha la netta impressione che stiano facendo di tutto per lasciare gli astensionisti a casa”. In fondo, sapendo solo parlare del nulla confezionato sotto forma di slogan e infarcito di contumelie, nelle aule parlamentari non si perde certo tempo a cercare nelle fila avversarie interlocutori disposti a dialogare: quella è politica, non sia mai. E il distacco tra la politica e la maggioranza degli italiani – considerato che nelle file dell’astensionismo è confluito un pezzo importante della parte migliore di essi – a sua volta comporta due cose che concorrono al declino nazionale: il prevalere del populismo e, di conseguenza, il sostanziale non governo del Paese. Da destra a sinistra, nessuna forza politica si dichiara esplicitamente populista, ma tutte le sono, seppure con sfumature diverse, e solo alcune componenti minoritarie hanno titolo per dirsi immuni dal virus. Nell’attuale maggioranza di governo prevale un populismo di natura radicale, cui si aggiunge un nazionalismo anti-europeo – solo parzialmente attenuato dalla incoerenza meloniana, che per fortuna ha dismesso il suo vecchio eurodisfattismo, ma che ha frenato il suo inedito slancio verso l’Europa per andar dietro a Trump – e, nel caso della Lega, filo-putiniano. Nelle opposizioni, sono populisti per dna i 5stelle – cui hanno aggiunto il trasformismo di Conte, che ha permesso loro di collocarsi a sinistra senza colpo ferire – e lo è, nella versione del manicheismo ideologico e del pacifismo a senso unico, la galassia che fa capo ad AVS; mentre il Pd al tradizionale rivendicazionismo della sua componente ex comunista, che ora ha in Landini il suo leader, ha aggiunto il movimentismo progressista (definizione cara a Conte) della Schlein, finendo per compiere una vera e propria trasformazione antropologica che non lascia alcun spazio al riformismo e mette i Democratici in posizione gregaria rispetto ai pentastellati.

Intrise di questa “cultura” e sentendosi schiave del ricatto elettorale (senza capire che andava crescendo la prateria dei cittadini disillusi), le forze che si sono alternate alla guida del Paese il massimo che hanno potuto fare, come nel caso della Meloni, è essere incoerenti, cioè evitare di mettere in atto le scelte populisticamente malsane che hanno costituito le loro piattaforme elettorali. Il che ha significato, nel migliore dei casi, un “non governo” del Paese, facendo, più o meno bene, minimali politiche di conservazione dell’esistente. E, come ha sottolineato Francesco Cundari nella già citata War Room, “a compensazione di questo sostanziale immobilismo, hanno inscenato una guerra farsesca di contrapposizione, che peraltro spesso trascende anche in cose un po' meno buffonesche”. La perdurante stagnazione economica, la crescente gravità della crisi sociale, il decadimento istituzionale, l’imbarbarimento civile e culturale, sono le principali conseguenze del nostro trentennale bipolarismo malato, fatto di “destra e sinistra senza niente in mezzo” (copyright Marco Follini).

Ora, però, un fattore esogeno è destinato a scompaginare le carte di tutti: la geopolitica. I cambiamenti epocali cui stiamo assistendo, a cominciare dalla rottura della solidarietà euro-atlantica, costringeranno a scelte inimmaginabili. Il rischio di possibili velenose aggressioni che potrebbero riportare la guerra dentro il cuore dell’Europa e alle nostre porte di casa, produrrà rotture e riaggregazioni inedite. Fin qui i toni alti sono serviti a coprire le ambiguità che allignano in entrambi i fronti della nostra politica (su Putin, Lega e Forza Italia sono agli antipodi, mentre il campo largo in parlamento ha presentato ben cinque mozioni diverse). Ma domani, a cosa servirà continuare a rinfacciarsi reciprocamente parole di odio se poi tutte le parti sono unite dalle medesime contraddizioni nel prendere posizione nei confronti della deriva trumpiana e della minaccia putiniana, e nell’organizzare le conseguenti risposte europee? E se tanto in chi sta al governo quanto tra chi vorrebbe andarci convivono contraddizioni insanabili su questioni dirimenti, come la minaccia di una guerra, la dura realtà delle cose imporrà un’inevitabile resa dei conti. E a quel punto “il muro contro i comunisti” e “il fronte antifascista” si sbricioleranno. Sarà un passaggio pieno di insidie, doloroso. Ma sarà anche la possibilità di voltar pagina. Finalmente. (e.cisnetto@terzarepubblica.it)

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