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L'editoriale di TerzaRepubblica

Gli errori della sinistra

NON SI VINCE BLOCCANDO IL PAESE E TRAMUTANDO UNA TRAGEDIA IN FARSA. COME DIMOSTRANO LE MARCHE NELLO SCONTRO PERDONO TUTTI

di Enrico Cisnetto - 04 ottobre 2025

Non serve confrontare la miseria delle questioni politiche nostrane con la dimensione epocale dei temi che lo scenario geopolitico planetario propone alla nostra distratta attenzione, per arrivare alla conclusione che siamo in una condizione surreale. Per esempio, non si ha la minima consapevolezza che siamo già dentro, e non come semplici spettatori, ad una guerra, quella ibrida scatenata dalla Russia di Putin (i droni che hanno fatto chiudere l’aeroporto di Monaco di Baviera ci dicono che l’Italia può essere il prossimo obiettivo). Così come si fatica a capire che la torsione prodotta da Trump agli Stati Uniti e alla sua democrazia cambia completamente il contesto in cui per 80 anni ci eravamo comodamente abituati a vivere. E si arriva alla follia di ridurre il dramma del Medio Oriente, complesso e doloroso, alla farsa movimentista della Flotilla, strumentalizzata dagli uni come se quella “missione” fosse in grado di alleviare le sofferenze del popolo di Gaza e risolvere il rompicapo israelo-palestinese, e messa sotto accusa dagli altri come se il suo svolgersi determinasse il buon esito o meno del “piano di pace” di Trump e Netanyahu.

No, per misurare la pochezza della politica italiana – dei suoi protagonisti come del circo Barnum di chi la analizza (si fa per dire) e commenta – basta osservare la ripetitiva modalità strabica con cui si “leggono” i pronunciamenti elettorali dei cittadini italiani. Ultimo è il caso del voto per il rinnovo del Consiglio regionale delle Marche, ma sono pronto a scommettere che lo stesso copione si ripeterà per le elezioni prossime venture in Calabria, Toscana, Campania, Puglia e Veneto. 

Partiamo da ciò che viene taciuto. Si versa qualche lacrima (di coccodrillo) sul crescente astensionismo (questa volta nelle Marche è arrivato al 50%), ma poi a nessuno viene in mente che ciò che conta analizzare e valutare non sono (solo) le percentuali di candidati e partiti – che pure determinano l’assegnazione dei seggi e concorrono a formare maggioranze e minoranze – ma il numero assoluto dei suffragi. Farlo, nel caso marchigiano, porta a scoprire che rispetto al voto più recente e politicamente significativo, quello per la Camera di tre anni fa, tutti i partiti hanno perso consensi: 5 Stelle -75mila voti (-72%), Fratelli d’Italia -67mila (-30%), Pd -28mila (-18%), Lega -19mila (-31%), Forza Italia -3mila (-6%), Alleanza Verdi Sinistra -2 mila (-8%). Solo Noi Moderati, che passa da 5.920 a 9.299 voti, è in controtendenza. Certo, nella regione l’affluenza alle politiche del 2022 fu più alta del 18%, e questo spiega la generalizzata carneficina elettorale. Ma la colpa non è di chi è rimasto a casa, bensì di chi ha disilluso così tanto i cittadini da indurre molti, se non i più, a disertare i seggi. Peccato che questa analisi non la faccia nessuno. I vincitori, in questo caso il centro-destra, preferiscono cantare vittoria, senza rendersi conto che governare con il consenso di solo un quarto degli aventi diritto è cosa ardua. E i perdenti, nello specifico il centrosinistra, indulgono nel ridimensionare la sconfitta (Bersani ha deprecato lo “sconfittismo”, sostenendo che nelle Marche aver perso con otto punti di distacco quando alle regionali di cinque anni prima quel divario era stato di 12 punti, per il centro-sinistra è un “passo avanti”) quando non la usano per regolare i conti al proprio interno. In entrambi i casi, il contrario di ciò che andrebbe fatto.

D’altra parte, non c’è da stupirsi visto che di fronte a cotanto astensionismo, si offre all’Italia e al mondo che ci guarda un miserevole spettacolo come quello della vicenda denominata “Flotilla”, che va in onda (è proprio il caso di dire così) da settimane, sfidando le leggi minime dell’intelligenza propria (di chi ha organizzato la “missione”) e altrui. E che entrambi i fronti della nostra politica militarizzata hanno strumentalizzato come peggio non si poteva.

Per non essere frainteso, voglio subito partire dalla responsabilità istituzionale “perduta” di Giorgia Meloni che, come in altre circostanze, ha mostrato di prediligere il ruolo di leader politico, trascurando i doveri che gli imporrebbe quello di presidente del Consiglio. Usare da parte sua la vicenda per fare campagna elettorale è prima di tutto una sgrammaticatura istituzionale, ma poi si rivela anche un errore politico da matita blu. Per almeno tre motivi. Il primo: le sue reiterate accuse ai “flottiglianti” e alla sinistra che li sostiene finiscono per alimentare quel clima di tensione, se non di odio, che la stessa Meloni ha denunciato con toni che hanno rappresentato benzina sul fuoco. Può darsi che questo le serva per tenere calda la sua tifoseria e magari per evitare che la medesima sia attratta da chi, come Vannacci, fa peggio di lei. Ma alla lunga produce solo disaffezione, e per chi sta a palazzo Chigi non è il sentimento collettivo che aiuta a governare. Il secondo motivo: un conto sono gli scioperi politici e le manifestazioni di piazza, magari in taluni casi con code di violenza, un altro è il sentimento diffuso nella gran parte dei cittadini italiani (come un po’ in tutto il mondo) di fronte all’enormità e all’orrore di quanto è accaduto a Gaza. Sottovalutarlo si rivelerà un boomerang. Infine, per quanto attiene al piano di pace americano (ma il vero autore è Blair), che tutti auspichiamo possa davvero funzionare ma che è reso precario da molte variabili – l’inaffidabilità di Trump, la sfacciata furbizia di Netanyahu, l’irriducibilità ideologica di Hamas – francamente affermare che la sua riuscita o meno dipenda dalla piega che prenderà il caso Flotilla appare ridicolo prima ancora che falso. Peccato, perché seppure con ritardo la presidente del Consiglio aveva usato parole adeguate per condannare le scelte militari del governo di Israele.

E veniamo alla nostra benedetta sinistra, che ancora una volta per mostrare la sua esistenza in vita si è affidata ad un movimentismo ideologico e populista, dove la linea di confine tra politica e moralismo è assai labile. Sia chiaro, la mobilitazione della società civile finalizzata sia a manifestare una vicinanza simbolica sia a organizzare una solidarietà concreta nei confronti di una popolazione sofferente – ancorché la genesi di quella condizione sia molto più complessa di come la si vuole raccontare – non solo è legittima, ma ammirevole. Se poi, però, quell’iniziativa dimentica gli scopi caritatevoli, fino al punto di rifiutare l’uso di canali inequivocabilmente umanitari come quelli offerti dal cardinale Pizzaballa per far giungere i generi di conforto ai palestinesi, e assume i contorni di una forzatura politica, persino in barba agli appelli del Papa e del presidente Mattarella, con l’evidente obiettivo di farsi fermare da Israele per denunciarne il (presunto) sopruso, allora la questione assume tutta un’altra veste. Inseguirla su quel terreno di forzatura scenica totalmente priva di strategia politica, da parte di quei soggetti che intendono candidarsi alla guida del Paese – cosa che potrà avvenire solo se agli italiani ci si presenta come forze di governo e non come casse di risonanza di qualunque movimentismo – consegna la sinistra alla perenne minorità in cui da tempo è precipitata.

So perfettamente che le mobilitazioni di questi giorni non sono opera del Pd, e nemmeno di 5stelle e AVS, ma di un mix di spontaneismo e di capacità organizzativa dei sindacati di base, cui si è poi aggiunta la Cgil al motto “nessuno alla nostra sinistra”. Ma questo, semmai, aggrava le responsabilità di Elly Schlein, che incapace di esercitare alcuna leadership, fino al punto di non riuscire a dare una linea autonoma al suo partito, finisce per mettersi al traino di chi sa mobilitare e accendere la piazza. E pazienza se ciò avviene con modalità e parole d’ordine che il vecchio Pci non si sarebbe mai fatto imporre. Applaudire, senza averne minimamente influenzato le scelte, un inedito fronte sindacale – formato dalla Cgil, che si è persa per strada la Uil, e dai sindacati di base Usb che nei giorni scorsi avevano scavalcato a sinistra Landini con successo – che blocca il Paese proclamando uno sciopero generale (naturalmente di venerdì) contro l’inevitabile alt imposto da Israele alle barche di Greta & C., privilegiando i temi identitari di politica internazionale rispetto alla contrattazione per aumentare i salari dei redditi più bassi e alla lotta sindacale a difesa degli emarginati, non è propriamente la premessa per vincere le prossime elezioni, regionali o nazionali che siano.

Se poi tutto questo avviene mentre si accende l’unica, ancorché fioca, luce di speranza che non dico si faccia la pace ma almeno si fermi la guerra, rende ancor più grottesca la situazione. E se poi in Parlamento il Pd (alcuni riformisti compresi, ahimè) sceglie di astenersi sulla mozione di maggioranza che appoggia “l’iniziativa di pace messa in campo dagli Usa” per Gaza e di votare contro quella per il “riconoscimento condizionato della Palestina”, finendo di fatto per essere contrari alla fine politica e militare di Hamas – sottraendosi così alla richiesta di unità cui hanno invece aderito Calenda, Renzi e PiùEuropa – mostra che quel partito più che nella mani di Schlein è in quelle di Conte, Fratoianni-Bonelli e Landini, che lo eterodirigono. Con buona pace sia delle speranze della segretaria “armocromatica” di essere la candidata del “campo largo” che si batterà contro Meloni, sia delle possibilità che quella coalizione, che sta in piedi solo se il Pd si sottomette al populismo pentastellato e al radicalismo di AVS e Cgil, possa vincere le prossime elezioni.

Al governo non si va benedicendo chi invade le stazioni ferroviarie, ferma i treni, blocca le autostrade, occupa le università, ingaggia la guerriglia urbana e assalta le fabbriche di Leonardo perché producono strumenti di difesa. O facendo finta di non vedere che il fronte cosiddetto pro-Pal è zeppo di odiatori per i quali il 7 ottobre è il 25 aprile dei palestinesi. Né tantomeno facendo proprie, o comunque non contestando, figure come quella della relatrice speciale dell’Onu per la Palestina, Francesca Albanese, che non solo non vuol sentir parlare del 7 ottobre e delle responsabilità di Hamas, ma che nel suo repertorio ha frasi del tipo “i terroristi hanno rimesso la questione della Palestina al centro della discussione, stanno animando una rivoluzione globale”. O come Ginevra Bompiani, che a dispetto del suo cognome (il padre, Valentino, fondò nel 1929 l’omonima casa editrice, pezzo pregiato della cultura italiana) si divide tra il sostenere le ragioni dell’invasione russa in Ucraina e l’affermare il sacrilego paragone tra Hamas e Sandro Pertini (testuale). Se Schlein va alla festa del Fatto Quotidiano e viene sommersa di fischi e improperi perché si è permessa di affermare che “il popolo ucraino ha subìto un’invasione criminale”, dovrebbe prendere atto che con certi compagni il viaggio è bene non farlo.

Dopo la sconfitta rimediata nelle Marche, da più parti si è detto e scritto che l’unità delle forze avverse al governo Meloni è “condizione necessaria ma non sufficiente”, e che per vincere la sinistra si deve dotare di un “progetto Paese”. Peccato che in questo ragionamento siano contenuti due errori esiziali. Il primo: quell’unità “necessaria ma non sufficiente” è costruita per contendere alla destra la maggioranza della metà del Paese che si reca alle urne, e mi permetto di dubitare che fermo restando quel perimetro di votanti ciò sia possibile, ma non per riconquistare i disillusi, che per lo più sono tali perché stanchi dell’insopportabile livello di populismo e pressapochismo di cui è intrisa la politica. Costoro, per tornare a votare e scegliere la sinistra, hanno bisogno di essere affascinati proprio da quel “progetto Paese” che si reclama. Ma per definirlo e condividerlo – e qui siamo al secondo degli errori che si commettono – i casi sono due: o si buttano giù quattro generici auspici, e allora si salva (forse) l’unità ma non si conquista nessuno di coloro che si sono sottratti alle tifoserie, oppure si fanno analisi e proposte pensate, e allora è sicuro che il “campo largo” va a farsi benedire.

Questo significa che ineluttabilmente Meloni vincerà in eterno, e che magari nella prossima legislatura conquisterà (per sé?) il Quirinale? Il fatto è che anche il destra-centro oggi maggioranza è attraversato da profonde lacerazioni e minato da vistose incompatibilità. Fin qui sopite dalla leadership forte di Meloni e dalla convenienza a tenere la polvere sotto il tappeto per restare al potere. Ma quella polvere (pirica) è pronta ad esplodere da un momento all’altro, specie se le questioni internazionali porranno il paese di fronte a scelte difficili. Quindi la vera domanda è: fino a quando l’Italia potrà continuare ad affidarsi ad una politica siffatta? Temo che la miccia si sia fatta maledettamente corta… (e.cisnetto@terzarepubblica.it)

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