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L'editoriale di TerzaRepubblica

Trump, Putin, Netanyahu e noi...

LA DEMOCRAZIA USA VIOLENTATA DA TRUMP AGEVOLA I DISEGNI NEO-SOVIETICI DI PUTIN E I MASSACRI DI NETANYAHU. E L’EUROPA?

di Enrico Cisnetto - 27 settembre 2025

Il mondo è oggi ossessionato da tre inquietanti interrogativi. Putin ha davvero intenzione di estendere la guerra che da oltre tre anni sta facendo all’Ucraina ad altre parti dell’Europa? Come si fa a fermare Netanyahu e mettere fine al massacro che sta perpetrando a Gaza, senza per questo concedere nulla ad Hamas? Fino a che punto Trump imprimerà alla democrazia americana una torsione autoritaria e considererà l’Europa un ex alleato se non addirittura un nemico, anche a rischio di far saltare l’Alleanza Atlantica? Sulle prime paiono domande distinte, sommabili solo sul piano emotivo. In realtà sono profondamente interrelate, tanto che non è possibile rispondere a ciascuna senza trovare la risposta alle altre. Ed è la terza quella da cui partire, perché a cascata condiziona anche le altre due angoscianti questioni.

È impossibile sostenere che gli Stati Uniti non siano più una democrazia, ma, nello stesso tempo, è difficile evitare di definirli avviati verso una forma di autocrazia elettiva. Si tratta solo di valutare a che punto siano di questo incredibile processo involutivo. A inquietare sono tre fenomeni. Il primo è il quotidiano elenco di atti che il presidente compie che vanno a ledere lo stato di diritto, ad alterare l’equilibrio dei poteri, a mortificare lo spirito oltre che la lettera della democrazia. Usa la giustizia come una clava sui suoi nemici e come una spugna che cancella le violazioni della legge sue e dei suoi amici; cerca di mettere la mordacchia alla stampa e alla libertà di opinione; tenta di assoggettare al suo volere non solo ogni ganglio dell’Amministrazione ma anche le grandi istituzioni, dalla Corte federale alla Federal Reserve, che concorrono al “check and balance” del sistema, gettando alle ortiche il principio della divisione dei poteri che da quasi tre secoli (Montesquieu lo teorizzò nel 1748 nel suo “Spirito delle leggi”) consente alle democrazie di evitare l’assolutismo e di salvaguardare la libertà dei cittadini; toglie il lavoro a chi lo contesta o più semplicemente non si allinea al pensiero nazionalista cristiano Maga, per esempio marchiando come terroristi coloro che rifiutano l’iperbole che l’orrendo omicidio di cui è stato vittima abbia reso Charlie Kirk un martire di Dio e della libertà americana.

E qui siamo al secondo fenomeno che concorre alla torsione della democrazia americana: la distruzione della laicità dello Stato a favore della creazione di una legittimità teocratica alla politica trumpiana. Quando Kirk, predicatore del verbo trumpiano fino ad alimentarlo di parole d’ordine, diceva che il Civil Rights Act fosse stato un errore, che le donne afroamericane (tra cui Michelle Obama) fossero prive di “capacità di elaborazione cerebrale”, che Joe Biden dovesse essere incarcerato o persino ucciso per i suoi peccati presidenziali e che negli Stati Uniti dovessero esserci esecuzioni pubbliche, faceva discendere il contenuto dei suoi sermoni direttamente dal dettato biblico, chiamando le forze del bene a combattere senza esclusione di colpi le forze sataniche. Non so valutare quanto questo schema mentale del “amico-nemico” sia penetrato nelle coscienze dei cittadini americani, ma certo non poco non solo visto il successo di Trump – che se domani cadrà, sarà per l’andamento dell’economia, per il prezzo di “eggs & bacon” e del gallone di benzina, non per ripulsa culturale e morale – ma anche e soprattutto per mancanza di reazione. Nelle mie War Room dei mesi scorsi ho più volte chiesto a chi conosce bene l’America e gli americani se ci fossero anticorpi in quella società, ma le risposte sono sempre state scoraggianti. D’altra parte, basta vedere la pochezza della reazione del partito Democratico, del mondo intellettuale liberal e persino degli ex presidenti. Tanto che da quando Trump si è reinsediato alla Casa Bianca il più significativo “resistente” nei confronti del presidente “imperiale” è apparso Jerome Powell, che ha mantenuto la barra della Federal Reserve dritta nonostante le inaudite pressioni, a suon di improperi, di The Donald.

Ed è questo il terzo dei fenomeni che mi induce a pensare (temere) che il processo involutivo della democrazia Usa sia significativamente avanti e marci spedito. Come ha scritto Edward Luce sul Financial Times “a pochi mesi dal 250º anniversario della Dichiarazione d’Indipendenza, Trump sta demolendo i principi fondativi del Paese con un’agilità sconcertante”. Il fatto è che tutto ciò avviene mentre negli ultimi decenni la democrazia nel mondo è progressivamente crollata dal 60% al 20% della popolazione complessiva, mentre le autocrazie sembrano prevalere sul vecchio Occidente liberale vincendo quella battaglia che il comunismo perse alla fine del secolo scorso, ma soprattutto mentre il mondo “terzo”, quello che negli ultimi decenni ha prodotto un boom economico e demografico senza precedenti, guidato dalla Cina con India, Russia, Corea del Nord e Iran, cerca di imporre nuovi equilibri planetari. Con ogni mezzo, guerre – militari e ibride – comprese. E la “politica estera” di Trump (le virgolette stanno a significare che sarebbe più opportuno definirla “imperiale”), cioè del paese più potente del mondo – fatta di folli imposizioni doganali, di minacce di annessioni e di sostanziali coperture ai guerrafondai – finisce per essere, priva com’è di contraddittorio interno, benzina sul fuoco dei conflitti.

Ho scritto qui più volte del “patto scellerato” che lega Trump a Putin, maldestramente mascherato dalle presunte (e penose) riprovazioni che l’inquilino della Casa Bianca di tanto in tanto rivolge a quel “simpatico discolaccio” che sta al Cremlino, cui comunque concede infinite dilazioni di tempo per mettersi in riga. Ecco, dunque, che alla domanda “Putin dove vuole arrivare?”, l’unica risposta corretta è “arriverà fin dove gli sarà consentito di arrivare”. Zar Vlad da anni persegue un disegno chiaro: rinverdire la potenza strategico-militare della vecchia Unione Sovietica. Obiettivo che non è frutto della schizofrenia ideologica di un folle – come fu quella di Hitler, per intenderci – bensì della fredda visione di un figlio dell’URSS, e in particolare del Kgb, che su quella storia e su quella educazione nazionale fonda le sue mosse. Come i ripetuti attacchi cyber, la crescente ingerenza in tutta l’area est europea, le violazioni degli spazi aerei, l’infiltrazione di partiti e movimenti sociali del Vecchio Continente (come dimostra la crisi francese, voluta dai filo-putiniani, e il tasso di condizionamento che in Italia è riuscito a ottenere sia dentro la maggioranza di governo che all’interno dell’opposizione). Azioni che assomigliano alla tecnica edilizia del “carotaggio”, utile a verificare la tenuta del terreno, in questo caso dell’Unione europea. Se l’Europa non mostra reazioni significative, Putin proseguirà. Se dovessero esserci segnali difensivi rilevanti, si fermerà, perché non è un pazzo dalla ferocia irrazionale, ma un cinico razionale che sa che l’attuale contesto gli è favorevole per agire. Altrimenti, proseguirà nella sua strategia, invisibile solo a chi non la vuole vedere, che quantomeno punta a ristabilire la potenza dell’Unione Sovietica. Cosa che dovrebbe far prendere in considerazione all’Europa l’ipotesi peggiore, ovvero che la guerra in Ucraina sia solo il preludio per un’avanzata più vasta, e acquisire la consapevolezza che – al di là di qualche dichiarazione, peraltro estemporanea e contraddittoria – non avrà gli Stati Uniti al suo fianco nell’opera di dissuasione nei confronti di Mosca (su questo si veda la puntata di War Room di martedì 23 settembre, qui il link).

Invece, purtroppo, l’Europa sembra reagire in ordine sparso, un po’ perché il maledetto diritto di veto che la regola dell’unanimità concede, limita l’Unione, e un po’ perché ci sono paesi che galleggiano in una preoccupante ambiguità. L’Italia, per esempio, che oscilla tra l’illusione di poter condizionare Trump, finendone succube, e la maldigerita necessità di non perdere il contatto con la Ue (dove però ci presentiamo più divisi che mai) e i “volenterosi” (cui ci agganciamo malvolentieri), rinunciando così ad esercitare alcuna leadership.

Un atteggiamento, questo del governo Meloni, che si è riflesso anche nella gestione del “caso Israele”. La presidente del Consiglio, che pure ha un passato filo-palestinese (quando era ministro del governo Berlusconi reclamò a gran voce l’immediato riconoscimento dello Stato della Palestina), è arrivata buona ultima, e tra mille contorcimenti, sulle posizioni di Macron e altri 160 capi di Stato e di governo. Un po’ perché non sopporta il presidente francese – ma si può governare cedendo alle proprie ubbie? – ma soprattutto perché non voleva contraddire Trump, che nella copertura a Netanyahu non fa neppure le finte che usa con Putin.

E qui siamo alla domanda che più gira in questo momento ad ogni latitudine del mondo: si deve, e come, fermare il governo israeliano? Una domanda che si pongono anche i tanti che, come me, sono sempre stati per la difesa di Israele e il suo diritto ad esistere, a fronte delle forze che, in terra di Palestina come nella regione mediorientale, lo hanno negato fino al punto di creare un terrorismo articolato in molteplici organizzazioni. La mia risposta – temo minoritaria, perché su questa questione si sono formate due tifoserie che escludono a priori che ci possano essere ragioni e torti da entrambe le parti – è la seguente: se è giusto, anzi sacrosanto, pretendere l’eliminazione di Hamas da ogni forma di presenza, tanto più di governo, in Palestina, perché è la precondizione per stabilizzare la regione mediorientale, a sua volta fatto essenziale per fortificare gli equilibri geostrategici mondiali, altrettanto è inaccettabile che Israele abbia scelto una linea che si è tradotta nel disumano massacro di Gaza. So che Hamas non è un esercito contro cui combattere, ma una struttura terroristica che usa la popolazione che dice di rappresentare e difendere come uno scudo umano. E so che continuare a non rilasciare gli ostaggi israeliani del 7 ottobre dopo 3 anni dall’attentato significa far pagare un prezzo altissimo proprio ai palestinesi. Ma questo non giustifica l’assalto totale a Gaza, tanto più se è preludio per fare altrettanto in Cisgiordania, condito dalle inaccettabili rivendicazioni di ministri del Governo Netanyahu che oscillano tra un deprecabile interesse immobiliare per la ricostruzione della Striscia, da spartire con gli Usa (ma sarebbe meglio dire, con la famiglia Trump), e un ancor peggiore odio razziale verso i palestinesi in generale, senza distinzione tra civili e terroristi.

Si tratta di un autogoal che espone Israele ad una riprovazione mondiale senza precedenti – di cui Netanyahu, coperto da Trump, sembra fottersene – che finisce però per alimentare la diffusione di un inaccettabile odio antisemita, di cui ne è un esempio la scia di violenza scatenata da frange di facinorosi nelle manifestazioni italiane per Gaza, che pur pacifiche avevano però il torto di scandire slogan solo contro Netanyahu senza spendere una parola su Hamas e il suo criminale uso strumentale dei palestinesi. Anche qui, come nel caso del governo israeliano, trasformando una ragione in un torto. Occorre invece avere il coraggio di dire che la situazione è terribilmente complessa, come dimostra il fatto che la soluzione della comunità internazionale resta sempre la stessa – 2 popoli, 2 Stati – dopo decenni di fallimenti e veti incrociati. Non dimentichiamoci che fu la stessa Israele a finanziare Hamas, favorendone la vittoria nella Striscia sulla più moderata ANP (ex OLP), proprio per scongiurare il pericolo di uno stato palestinese unitario. E adesso che Netanyahu vuole annientare definitivamente Hamas senza curarsi del disprezzo mondiale, non si capisce come possa accettare la nascita di uno stato arabo ai suoi confini, tra l’altro tutti da definire. 

Ma anche qui, come nel caso delle mire di Mosca, Tel Aviv senza la copertura di Washington avrebbe potuto avventurarsi su questa che sembra essere una strada priva di ritorno? Come vedete le tre questioni che tengono in ansia il mondo e che portano i nomi di uomini poco inclini alla democrazia – Trump, Putin, Netanyahu – s’intrecciano e portano tutte allo scioglimento di due nodi. Il primo è quello del mantenimento in vita della democrazia americana, che richiama il risveglio delle coscienze in quel grande e controverso paese. Il secondo è la risposta europea e del mondo libero, che richiede che i “volenterosi” facciano un salto di qualità nel darsi una struttura permanente e vincolante e comincino, come hanno già fatto Macron e Starmer con il riconoscimento della Palestina – atto privo di concretezza, ma politicamente carico di una grande forza simbolica e per questo necessario – ad occuparsi anche del fronte mediorientale oltre che di quello russo-ucraino, inventandosi una soluzione per l’intera regione che recuperi l’essenza dei “patti di Abramo” e che nello specifico israelo-palestinese vada oltre lo schematismo ormai consunto della formula “2 popoli, 2 Stati” (su questo si veda la puntata di War Room di mercoledì 24 settembre, qui il link). Nella consapevolezza che probabilmente, almeno fino a quando Trump sarà alla Casa Bianca, tocca far da soli. (e.cisnetto@terzarepubblica.it)

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