
Rischio guerra in Europa
SI SEMINA ODIO SU UN RITORNO (CHE NON C’È) AGLI “ANNI DI PIOMBO” MENTRE IL VERO PERICOLO È UN CONFLITTO NEL CUORE DEL CONTINENTE
di Enrico Cisnetto - 20 settembre 2025
Astrale. Fuorviante. Pericolosa. La rozza discussione che si è aperta in Italia sul clima di odio politico che rischierebbe di insanguinare il Paese – nata da alcuni commenti a dir poco inopportuni intorno all’uccisione negli Stati Uniti di Charlie Kirk, giovane leader del mondo Maga – esprime perfettamente i limiti della politica di quest’epoca. È astrale perché parte da un episodio che non ha alcun punto di contatto con la nostra realtà e perché evoca il ritorno di una stagione, quella del terrorismo che, per fortuna, pagando un costo altissimo, l’Italia è riuscita a chiudere e lasciarsi alle spalle. È fuorviante, perché sposta il focus dell’attenzione pubblica su presunte conseguenze, e non sulle cause, di una contrapposizione che non ha nemmeno più la dignità intellettuale che un tempo le ideologie, per quanto fondamentaliste, conferivano allo scontro sociale e politico. Ed è pericolosa perché si semina odio discutendo della gravità dell’odio, e se la cosa non rischia di incendiare più di tanto gli animi – ci vuole altro in una società amorfa e disillusa come la nostra – di certo non aiuta ad affrontare con razionalità e coraggio i passaggi epocali che la storia ci sta mettendo davanti.
Vedete, se il confronto politico è diventato una guerriglia permanente – fortunatamente solo verbale, dove destra e sinistra, definizioni ormai prive di significato non in assoluto ma per come vengono declinate e interpretate, si sono trasformate nella dicotomia “noi/loro” – non è perché chi milita nei due fronti, né tantomeno in uno più dell’altro, ha esagerato alzando i toni. No, a nessuno è scappata la frizione. Per il semplice motivo che è questo sistema politico ad essere fatto così: si regge solo sulla contrapposizione e il disconoscimento reciproci, fa del conflitto la sua unica ragion d’essere, per cui le forze e le persone (stavo per scrivere personalità, ma mi sono subito corretto) che lo animano non possono che esprimere solo quella cifra. Ineluttabilmente. Perché i partiti e il ceto politico a cui ci siamo ridotti, sono espressione di questa misera modalità politica e non reggerebbero se chiamati a recitare un altro ruolo, quello del confronto delle idee, del dialogo e della sintesi in nome dell’interesse generale. Cioè la politica come dovrebbe essere, e non in astratto, perché così è stata nel passato e così è, seppure sempre più faticosamente, in qualche altra parte del mondo libero.
Abbiamo lasciato che si creasse, ormai da tre decenni, un bipolarismo armato in cui la politica si è ridotta soltanto ad organizzare le condizioni perché una parte prevalga elettoralmente sull’altra, mettendo in piedi coalizioni del tutto disomogenee quando non addirittura eterogenee, che puntualmente non reggono all’impatto con la dura realtà del dover governare, e danno vita ad un’insana “alternanza obbligata” tra alleanze che via via si dimostrano fallimentari. Le conseguenze sono la continua adozione di modalità di voto sempre più maggioritarie – per sopperire all’assottigliarsi del consenso popolare – lo svolgimento di campagne elettorali permanenti in cui ci si esercita a chi urla di più e insulta più efficacemente, la crescente personalizzazione della politica attraverso l’attivazione di partiti padronali, l’uso della mediocrità e della fedeltà come criteri di selezione delle classi dirigenti, l’affermarsi delle estreme a danno del centro moderato e di quello progressista.
Ora, con un siffatto sistema politico, in cui i protagonisti essendo privi di contenuti ricorrono al solo vocabolario che conoscono, quello del lessico populista, tanto da aver trasformato il bipolarismo nato nel 1994 nel più recente bipopulismo, perché stupirsi che destra e sinistra si accusino di usare l’arma dell’odio politico? Né vale la pena – lo dico ad alcuni amici che stimo, che si sono spinti su questo crinale – mettersi a far di calcolo per vedere se sono più gli Odifreddi e i Saviano a incitare all’odio verso la destra – come ha sostenuto Giorgia Meloni, dimenticandosi che essere presidente del Consiglio comporta certi obblighi – o se sono più i tatuati di CasaPound a demonizzare la sinistra. C’è l’una e l’altra cosa, e sono entrambe espressione fisiologica di una politica che o è contrappositiva o non è. Se poi aggiungiamo che le pagine dei giornali, l’informazione (si fa per dire) televisiva e i vari social media fanno da cassa di risonanza a questa guerriglia politica permanente, proponendo la logica che per esistere devi essere per forza o di qua o di là, senza distinguo, senza sfumature, spacciando il semplicismo per chiarezza e la complessità per inutile astrusità o, peggio, per voluta opacità, allora si capisce come si possa arrivare a temere, per fortuna infondatamente, che possano tornare gli anni di piombo. Cioè quella lunga stagione di guerra civile strisciante che ha prodotto qualcosa come 350 morti e un migliaio di feriti.
No, non c’è alle viste una riedizione del terrorismo, né rosso né nero. È vero, larghe fette della società hanno inoculato le tossine del pregiudizio, del settarismo, del negazionismo, dell’intransigenza ottusa, della sordità verso le argomentazioni altrui, specie se minimamente articolate. Ma sono tifoserie, curve da stadio, che non hanno nessuna intenzione di rischiare la pelle. Il terrorismo degli anni di piombo fu sì cosa tragica, ma a suo modo seria, che richiedeva a chi lo praticava di mettere in gioco la propria vita. Oggi s’imbraccia l’indignazione, il moralismo, non il fucile o la P38. Ma questo non significa che il paese sia migliore. Anzi. La politica è sprofondata in un vuoto pneumatico, priva di radici culturali, di idee, di progettualità, di slancio. Popolata da dilettantismo e mediocrità assoluti. Dico una cosa che spero non sia fraintesa: questi non sono nemmeno capaci di “odiarsi seriamente”.
E infatti la nostra politica, e con essa il Paese nel suo insieme, si presenta del tutto impreparata al cospetto di un passaggio storico come la fine di antiche solidarietà internazionali, il rischio di possibili velenose aggressioni che potrebbero riportare la guerra dentro il cuore dell’Europa e alle nostre porte di casa, la messa in discussione della stessa democrazia anche laddove ha sempre sventolato il vessillo della libertà. Ecco quello di cui dobbiamo avere paura: non il ritorno del fascismo o del comunismo, ma dell’essere così impotenti di fronte a rivolgimenti del contesto geopolitico talmente epocali da essere destinati a sconvolgere le nostre vite, da non esserne neppure consapevoli. Quanto può essere importante il rinfacciarsi reciprocamente parole di odio se poi le parti che lo fanno sono poi unite dalle medesime contraddizioni nel prendere posizione nei confronti della deriva trumpiana e della minaccia putiniana, e nell’organizzare le conseguenti risposte europee? Nulla. Fuochi fatui. In altri tempi non sarebbe mai stato possibile che, in vigenza di una mobilitazione della Nato, un esponente di governo, addirittura vicepresidente del Consiglio, abbracciasse il rappresentante diplomatico del nemico senza che questo fatto non aprisse un caso politico dentro la maggioranza. Così come non si può governare seriamente se nella coalizione che sorregge l’esecutivo convivono valutazioni totalmente diverse sul posizionamento internazionale del Paese e dunque sulle principali scelte di politica estera. E, ovviamente, non basta evitare che queste posizioni si cristallizzino, minimizzando o addirittura facendo finta di niente, per rendere il Paese credibile e influente nelle sedi dove si prendono le decisioni. Tanto più se, per evitare spaccature, si fanno figure di palta come quella di aver ritirato, dopo averla concessa, la disponibilità a inviare due aerei caccia intercettori Eurofighter nell’ambito della missione Nato chiamata “Sentinella dell’Est”, con base in Polonia.
Inoltre, il fatto stesso che molti degli apprezzamenti che vengono rivolti a Giorgia Meloni riguardino la sua – indubbia – capacità di surfeggiare, barcamenandosi tra un’intesa (informale, ovviamente) con Ursula von der Leyen e una sua comparsata alle manifestazioni anti-Europa degli ultra sovranisti spagnoli di Vox, e tra un ammiccamento con Trump che stende il tappeto rosso a Putin e una riunione (sempre da remoto, mi raccomando) dei Volenterosi che sostengono Zelensky, certifica l’ambiguità dell’Italia su questioni che invece richiedono il massimo della chiarezza e della coerenza. Il problema è che lo stesso grado di ipocrita doppiezza c’è anche a sinistra. Sia dentro il Pd, dove convivono anime che neppure il consumato camaleontismo di Franceschini riesce a ricondurre a unità, sia nel cosiddetto “campo largo”, in verità più lungo che largo, dove il filo-putinismo strisciante e mascherato di Conte finisce per congiungersi con quello leghista dell’altro fronte. Elly Schlein fischiata alla festa del Fatto Quotidiano perché difende – peraltro solo a parole, perché quando si tratta di prendere decisioni concrete scappa – l’Ucraina invasa dalla Russia, la dice lunga sulla deriva a sinistra.
Non più tardi di una settimana fa si è assistito, in Parlamento, ad uno spettacolo deprimente, ma soprattutto rivelatore di come stanno le cose. Da un lato, la maggioranza, per evitare di evidenziare le sue divisioni interne, non ha presentato alcun documento a sostegno della relazione del governo sui temi geopolitici più caldi. Dall’altro, l’opposizione ha prodotto ben cinque mozioni, corrispondenti ad altrettante posizioni politiche (Pd, 5S, Avs, renziani, europeisti). Mentre nessuna delle parti ha minimamente mostrato senso di responsabilità, evitando accuratamente lo sforzo di cercare anche solo un briciolo di convergenza, come richiederebbe la gravità del quadro internazionale.
Dunque, tanto in chi sta al governo quanto tra chi vorrebbe andarci convivono contraddizioni insanabili. Ma sopirle o derubricarle non risparmierà ad entrambi i fronti un inesorabile impatto con la realtà, che in tempi non lontani imporrà una dura, durissima resa dei conti. Come? È molto semplice: basterà che le circostanze richiedano decisioni ardue, tipo l’invio di truppe e mezzi militari su un fronte che si dovesse aprire, per vedere andare in frantumi le due anime del nostro bipopulismo. Naturalmente, c’è da augurarsi per il nostro bene che simili contingenze non si verifichino, ma sono dietro l’angolo e io non intendo far parte di quella vasta schiera di scriteriati che non vogliono nemmeno sentirne parlare. Della serie: se non ti occupi della guerra, o se per scongiurarla pensi sia sufficiente predicare la pace, la guerra si occuperà di te. E quando si dovrà dare conto della propria ignavia, non basterà dire “ma io stavo cercando di evitare che Vannacci mi scavalcasse a destra per tenere in piedi il muro contro i comunisti” o “ma io stavo cercando di evitare che Conte mi scavalcasse a sinistra rompendo il fronte antifascista”. Resta il presidente della Repubblica, la cui voce si è ripetutamente levata negli ultimi tempi sia per riempire i vuoti lasciati dalla politica imbelle, sia per mantenere acceso il lume della responsabilità. Basterà? (e.cisnetto@terzarepubblica.it)
L'EDITORIALE
DI TERZA REPUBBLICA
Terza Repubblica è il quotidiano online fondato e diretto da Enrico Cisnetto nato nel 2005 dall'esperienza di Società Aperta con l'obiettivo di creare uno spazio di commento indipendente e fuori dal coro sul contesto politico-economico del paese.