
Se Trump tradisce Ucraina ed Europa
IL TRADIMENTO USA VERSO KIEV E BRUXELLES È FIGLIO DEL PATTO SCELLERATO CON PUTIN. I “VOLENTEROSI” SI ORGANIZZINO. SUBITO
di Enrico Cisnetto - 05 luglio 2025
Per favore, non date retta alle cronache, non credete ai resoconti dell’ennesima (la sesta quest’anno) telefonata tra Trump e Putin. Uno si è sforzato di convincere l’interlocutore a desistere nel fare la guerra all’Ucraina auspicando una “rapida conclusione dell’azione militare”, l’altro ha risposto “mi dispiace, ma devo continuare a perseguire i miei obiettivi ‘difensivi’ visto che sono stato attaccato dalla Nato”; allora il primo ha espresso tutto il suo rammarico, e poi con la stampa si è detto “insoddisfatto” dell’inflessibilità dell’inquilino del Cremlino, mentre il secondo ha fatto dire al suo portavoce che la Russia “continuerà a cercare una soluzione politica e negoziata al conflitto”; così che entrambi si sono lasciati con un fiducioso “dai, risentiamoci a breve”. Insomma, una vera disdetta, uno sforzo inutile, un colloquio che purtroppo non ha portato a nulla di costruttivo per via di visioni diverse e inconciliabili. No, le cose non sono andate come raccontano i giornali. La verità è che si è trattato di una vera e propria sceneggiata, consapevolmente recitata secondo un preciso copione, peraltro scritto dall’autocrate russo, che tra i due è quello che, pur rappresentando il paese più debole, ha la leadership personale e gli argomenti (vecchie pezze d’appoggio di quando The Donald era un immobiliarista dagli affari claudicanti) per tenere il coltello dalla parte del manico. Perché se così non fosse, il presidente degli Stati Uniti – cioè per definizione l’uomo più potente del mondo, e a maggior ragione nel caso dell’imperiale Trump – avrebbe già mandato a quel paese il comunista della Piazza Rossa nostalgico dell’Unione Sovietica che palesemente lo “percula” (licenza poetica) facendo finta di accostarsi ad un negoziato di tregua che di fatto non è mai esistito.
E che le cose stiano così, secondo un vero e proprio “patto scellerato”, lo dimostrano due fatti. Il primo lo racconta il New York Times: i due “autocrati” – uno conclamato, l’altro ben avviato su quella strada – durante quella telefonata, che avrebbe dovuto essere quantomeno tesa se non infuocata, hanno trovato il modo di confermarsi il reciproco interesse alla realizzazione di alcuni progetti di comune cooperazione, soprattutto nel campo dell’energia e dell’esplorazione spaziale, che fanno pensare all’Artico come terreno d’incontro (Groenlandia, occhio). Il secondo e ancor più importante fatto è la scandalosa decisione americana – formalmente del Pentagono, in realtà della Casa Bianca – di sospendere l’invio a Kiev di armi e munizioni, tra cui i missili terra-aria Patriot fondamentali per le capacità difensive ucraine – ripeto, difensive, non d’attacco – persino bloccando quelli già di stanza in Polonia, con la ridicola motivazione di non averne abbastanza per la sicurezza Usa. E questo proprio mentre l’offensiva militare russa si fa ogni giorno più pesante, in piena e palese contraddizione con il beffardo commento del Cremlino, secondo cui la decisione americana renderà più facile arrivare alla pace.
Si tratta di un vergognoso tradimento degli impegni presi dagli Usa con l’Ucraina, e poco importa che risalissero all’amministrazione Biden, erano pur sempre degli obblighi assunti dagli Stati Uniti d’America. La cui conseguenza, al di là della totale perdita di credibilità americana, è esporre un popolo martoriato da tre anni e mezzo di guerra, parlo di civili non di militari, a subire i missili e i droni russi lanciati sulle città senza più lo scudo aereo che finora aveva consentito di limitare i danni. In una fase cruciale del conflitto, in cui Mosca sta profondendo il massimo sforzo militare anche a costo di pagare un altissimo prezzo in termini di vite umane visto l’uso massiccio della fanteria – anche straniera: sta arrivando un altro contingente dalla Corea del Nord, mentre Kim Jong-un ha appena versato lacrime di coccodrillo per la decimazione del primo battaglione inviato come regalo a Putin – il tradimento trumpiano sbilancia pesantemente i rapporti di forza in campo e di conseguenza rischia di compromettere le sorti della guerra a danno di Zelensky.
Certo, ha fatto bene Christian Rocca a ricordare che Washington non è nuova a scelte codarde nei confronti di Kiev per tenersi buona Mosca, da Bush senior che si spese per convincere gli ucraini a non dichiarare la propria indipendenza, a Bill Clinton che convinse a cedere quasi duemila testate nucleari ai russi, in cambio di garanzie sulla sicurezza e l’integrità territoriale (sic!), e che lo stesso Biden abbia fatto meno di quel che poteva e che avrebbe dovuto fare per arginare l’imperialismo russo. Senza contare che Barack Obama inaugurò la sua presidenza nel 2009 prendendo atto senza colpo ferire della conquista russa della Georgia. Errori, anche gravi. Ma la politica estera americana, repubblicana o democratica che fosse, non si è mai messa al servizio degli interessi di Putin come sta facendo ora Trump. Si può discutere sul perché lo faccia – e probabilmente la risposta giusta sta in un mix di motivazioni, da quella psicologica (Trump ammira Putin e vorrebbe imitarlo) a quella dei rapporti d’affari tra i due, dalla complicità con il Cremlino per conquistare la Casa Bianca alle fantasie geopolitiche di The Donald frutto di una abissale ignoranza – ma non si può disconoscere che così sia. Così come non ci sono dubbi che abbandonare l’Ucraina al suo destino rappresenti anche una vigliaccata nei confronti dell’Europa, scientemente perpetrata ai suoi danni sapendo che ha oltre un quarto dei suoi paesi, quelli più prossimi alla Russia, esposti al rischio di un ulteriore allargamento del conflitto, e sapendo che, al di là della volontà politica – che c’è, ma è faticosa da mettere insieme, specie se si agisce nell’ambito Ue a 27 – nell’immediato non disponiamo dei mezzi militari, e in particolare batterie di missili difensivi, che possano sostituire quelli americani venuti meno, né ci sono i tempi tecnici per poterli produrre.
Fatico a scriverlo, perché mi sanguina il cuore di uomo che ha sempre guardato all’America come la terra della libertà e delle opportunità e come il baluardo alle derive autoritarie in giro per il mondo dopo essere stata l’artefice della sconfitta del nazifascismo, per cui mi affido alle sacrosante parole del direttore de Linkiesta: “Trump è corresponsabile della strage di ucraini, facilita il progetto imperialista di Mosca, favorisce l’attacco militare e ibrido del Cremlino al sistema liberal-democratico dell’Europa, e contribuisce a indebolire lo stato di diritto negli Stati Uniti”. È dura da accettare, ma è così. E se così stanno le cose, torno a ripetere quanto ho già avuto modo di dire qui: l’Europa deve reagire. Capiamoci bene, non si tratta di disconoscere la strategicità del rapporto euro-atlantico e ritirare la relativa solidarietà. Tantomeno di fare proclami contro l’alleato traditore, che una parte delle opinioni pubbliche europee non capirebbe né accetterebbe, e un’altra parte strumentalizzerebbe. No, l’Alleanza Atlantica va riconfermata, non fosse altro perché deve essere chiaro che è Trump ad assumersi la responsabilità di sciogliere, nei fatti, quegli storici legami. Ma un conto è riaffermare l’indissolubilità di quel matrimonio, un altro è crederci, chiudendo gli occhi di fronte al tradimento del partner.
Si dice: ma l’Europa, frastornata, divisa e attraversata da forti pulsioni sovraniste, sta cercando di guadagnare tempo. Capisco, ma disapprovo. Qui non c’è tempo da perdere, e la politica del rinvio, oltre a rivelarsi una pia illusione – perché Trump c’è, fa della velocità di cambiare opinione senza colpo ferire la sua cifra politica, resterà anche dopo le midterm elections (salvo un ribaltone clamoroso) e tenterà di forzare le regole per avere un terzo mandato – rischia di bloccare i processi di cambiamento degli assetti istituzionali continentali.
Al contrario, occorre uno scatto di generosità, fantasia, creatività. Ma sapendo che le urgenze, a cominciare dal salvataggio dell’Ucraina, fanno necessariamente premio sui grandi progetti. Per affrontarle, così come non sono utili gli attuali strumenti comunitari a cominciare dalla Commissione Ue, va detto chiaramente che non ci sono le condizioni e soprattutto i tempi per alzare l’asticella delle ambizioni verso gli Stati Uniti d’Europa, che devono restare il punto d’arrivo senza illudersi che possano essere a portata di mano. Occorrono aggregazioni nuove di chi ci sta senza doversi sopporre a faticose e complicate mediazioni politiche interne. E devono essere cross border, cioè ricomprendere anche realtà che non fanno parte né istituzionalmente né geograficamente del Vecchio Continente. I paesi indispensabili sono sicuramente Francia, Gran Bretagna, Germania e Polonia. I primi due perché dispongono delle armi nucleari necessarie a creare deterrenza anche senza l’ombrello protettivo americano. Devono avere la forza non dico di unificare ma almeno di coordinare i loro arsenali, trovando una modalità di governance dei medesimi – ecco qui lo scatto di fantasia richiesto – che consenta una condivisione di responsabilità decisionali, al di là della titolarità del famoso “dito sul bottone”. I tedeschi sono essenziali non solo perché rappresentano il più importante paese europeo, ma perché hanno già deciso, potendoselo consentire in termini di bilancio, di investire una cifra monstre per la difesa. Infine, la Polonia: Varsavia ha ormai trasformato l’asse Parigi-Berlino in un triangolo, non fosse altro perché in questa fase ha un peso enorme, detenendo la forza militare più grande d’Europa e avendo un obiettivo di crescita esponenziale delle sue forze armate che la piazzerà al terzo posto nella Nato dopo Stati Uniti e Turchia. A questo primo cerchio se ne aggiungono poi altri due. Uno comprende i paesi baltici e quelli nordici più esposti alle mire di Putin, a cominciare dalla Finlandia, che condividendo con la Russia un confine di ben 1.340 km registra il più alto tasso di preoccupazione di essere invasa, tanto che su una popolazione di appena 5,6 milioni di abitanti conta quasi 900mila riservisti, dispone di rifugi antiatomici per 4,4 milioni di persone e ha tutti gli asset bellici interrati sotto 30 metri di granito. L’altro ingaggia Canada e Australia e si candida a comprendere altri paesi, come per esempio il Giappone e la Corea del Sud (indispensabile, vista la pericolosità dell’altra Corea, che ha un arsenale nucleare in crescita ed è alla mercè della follia del suo dittatore). Insomma, un nucleo ristretto europeo (come lo fu quello che diede vita all’euro), destinato a spostare gli equilibri del potere comunitario effettivo sia a danno della Commissione che del Consiglio Europeo, cui si aggiunge in primo luogo la Gran Bretagna, che agisce come se la Brexit non ci fosse mai stata, e che poi si allarga a fisarmonica. Che lo si voglia chiamare ancora “comitato dei volenterosi”, oppure “Nato nella Nato” o “Nato bis”, poco importa. L’importante è che si agisca, subito e lasciando fuori dalla porta rancori e gelosie. Con buona pace di Francis Fukuyama, la storia non finisce. Ma neppure aspetta. Si tratta di scriverla, nel modo giusto.
Lo so, non ho citato l’Italia. Ne farò oggetto di un’analisi a sé stante, prima di rinfoderare il computer e andare in vacanza. Nella speranza che nel frattempo qualcuno o qualcosa mi offra le parole, che nel frattempo sono andate tutte perdute. (e.cisnetto@terzarepubblica.it)
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