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L'editoriale di TerzaRepubblica

Una NATO Bis con chi ci sta

LA NATO SOPRAVVIVE, MA TRUMP L’HA GENETICAMENTE MODIFICATA ORA L’EUROPA DEVE CREARE UNA “NATO BIS” (L’ITALIA CHE FA?)

di Enrico Cisnetto - 28 giugno 2025

La Nato è un luogo dove, in nome della lealtà tra alleati, è meglio litigare apertamente o far finta di andare d’accordo? Ci sono delle circostanze – per esempio il vertice del 2018 – in cui si è scelto di dar sfogo alle divergenze, e la conseguenza è stata un coro di lagnose preoccupazioni. Questa volta, l’Alleanza Atlantica, riunita all’Aja, ha imboccato la strada opposta, e tutti fanno a gara a dire che è stato un successo. Ma non è così. A meno di non cantar vittoria per il solo fatto che la North Atlantic Treaty Organization sia ancora viva, almeno formalmente. In realtà, mai è stata così ampia la distanza che separa le due sponde dell’Atlantico, e far finta di niente serve a poco, anzi rischia di alimentare pericolose illusioni nelle opinioni pubbliche dei paesi alleati, specie in talune europee – come quella italiana – ad alto tasso di inconsapevolezza circa l’anarchia geopolitica che ci è dato di vivere in questa fase storica. E non si può nemmeno giudicare un successo il livello di coesione mostrato dal fronte europeo dell’Alleanza, il quale – al di là del comportamento da asilo Mariuccia dell’olandese Rutte, segretario generale della Nato, e di qualche eccesso di scodinzolamento (recidivo) di taluni leader nei confronti del facondo presidente americano, tutta roba da derubricare a folklore – ha mostrato sia differenze, che spero solo tattiche e non strategiche, nell’architrave su cui si regge l’impianto comunitario, l’asse franco-tedesco, sia un approccio complessivamente inadeguato alle conseguenze degli impegni di spesa presi all’Aja. Ma andiamo con ordine, partendo dai presupposti di questo primo incontro Nato dell’era Trump due.

Il secondo mandato presidenziale di The Donald si era aperto, nei mesi scorsi, all’insegna di una reiterata accusa agli europei di essere dei “parassiti” per aver lasciato agli Stati Uniti la maggior parte degli oneri della comune difesa. Accusa volgare nei termini e nei modi, ma sostanzialmente giusta nella sostanza, salvo mancare di ricordare che quella dipendenza strategica Ue aveva per gli Usa delle contropartite non irrilevanti. Le cifre che fotografano quella situazione le ha ricordate con puntuale precisione Marco Bresolin sulla Stampa: nel 2024 dei 1.360 miliardi di euro investiti in campo militare dai paesi Nato, quasi 900 arrivano dalle casse Usa, il che vuol dire che il contributo pro-capite di ogni cittadino americano è di 1.394 euro l’anno, contro i 540 euro degli italiani (proporzione non dissimile per gli altri cittadini Ue). Ora Trump ha imposto, con le sue modalità urticanti, un riequilibrio: entro il 2035, con un percorso incrementale “monitorato” (della serie, facciamo a non fidarci) ciascun componente della Nato dovrà arrivare a spendere a regime il 5% del pil, che a valore di oggi (ma, ovviamente, si spera che il pil aumenti) significa 2500 miliardi complessivi annui. Di cui il 70% di spese militari vere e proprie, e il 30% per la “protezione delle infrastrutture critiche, la difesa delle reti informatiche, la preparazione civile e la resilienza, l’innovazione e il rafforzamento della base industriale della Difesa”.

Era inevitabile, ed è bene che accada – a dispetto delle litanie anti-riarmo di casa nostra, su cui tornerò più avanti – non fosse altro perché la Russia destina alla Difesa il 9% del pil e la Cina il 7,2%. Ma occorreva portare a casa una contropartita, che non è arrivata. Parlo dell’articolo 5 dello statuto della Nato, quello che assicura il mutuo soccorso di tutti in caso che uno dei suoi membri venga aggredito. Trump da tempo l’ha subdolamente messo in discussione, e all’Aja bisognava sgombrare il campo anche dal minimo equivoco, quantomeno in cambio dell’accordo sulle spese al 5%. Invece, non solo non è stato così, tanto che per la prima volta si è relativizzato il principio della solidarietà strategica di fatto subordinando l’automatismo della difesa collettiva alla volontà della presidenza americana, ma si è anche preso atto del prevalere dei rapporti di Trump con Putin rispetto all’incondizionato appoggio europeo all’Ucraina. Di conseguenza, nella dichiarazione finale del vertice c’è solo un generico riferimento alla Russia, senza nessuna condanna né ulteriore sanzione. Mentre a Kiev viene riservata una frase nel comunicato finale – “gli Alleati riaffermano il loro impegno sovrano duraturo a fornire supporto all’Ucraina, la cui sicurezza contribuisce alla nostra, e, a tal fine, includeranno i contributi diretti alla difesa dell’Ucraina e alla sua industria della difesa nel calcolo della spesa per la difesa degli Alleati” – la cui sostanza è di gran lunga inferiore alla forma.

Tutto questo sancisce una distanza politica, tra gli Usa e tutti gli altri, che alla lunga rischia di rivelarsi insopportabile. Perché è fin troppo evidente che a Trump del destino di Kiev non importi nulla, tantomeno di quello personale di Zelensky, mentre accetta (e forse addirittura condivide) il principio del rafforzamento e allargamento della sfera d’influenza di Mosca, fino al punto di tutelarne gli interessi in Iran. Guardate, cari lettori, questa è la questione delle questioni: il legame profondo tra le due guerre, quella sul fronte ucraino e quella mediorientale, e il ruolo che in esse Trump svolge, al di là delle narrazioni. Non c’è alcuna prova fattuale, ma personalmente sono portato a credere fondate le analisi di talune intelligence secondo le quali la strage di Hamas del 7 ottobre 2023 – la cui genesi, altrimenti, non avrebbe alcun’altra spiegazione logica e strategica – abbia rappresentato un formidabile “diversivo” geopolitico rispetto alla piega, non certo favorevole alla Russia, che in quel momento aveva preso l’invasione dell’Ucraina a oltre un anno e mezzo dal suo inizio. E chi, se non il regime teocratico iraniano, ha armato la mano di Hamas? E con lo stretto legame, politico ma soprattutto militare – i droni con cui i russi conducono la loro guerra sono di tecnologia made in Iran – tra Mosca e Teheran il cerchio si chiude.

Voi mi direte: ma gli Usa hanno bombardato i siti nucleari iraniani. Vero, e Trump ha paragonato l’intervento a quello di Fordow nientemeno che a Hiroshima e Nagasaki, mentre Netanyahu, giocoforza, ha parlato di “vittoria epocale”. Ma il raid è durato solo una notte, dopodiché Trump si è stranamente affrettato a evocare tregua e trattative di pace, mentre i suoi esiti sono ancora tutti da scoprire, visto che del “totale annientamento” del programma nucleare dell’Iran di cui parla la Casa Bianca non c’è alcuna evidenza: dell’uranio arricchito non si ha traccia, così come della contaminazione che si sarebbe dovuta produrre. Siamo di fronte ad una gigantesca messa in scena? Temo di sì. E la reazione “telefonata” di Teheran, troppo simbolica per essere vera, alimenta questo timore. D’altra parte, basta leggere l’intervista rilasciata al Corriere della Sera dall’ex numero uno della Cia, Leon Panetta, per capire come l’accelerazione impressa da Teheran verso la produzione di uranio altamente arricchito – quale che sia il punto a cui è effettivamente arrivata – discenda dalla decisione di Trump del 2018 di chiamare l’America fuori dall’accordo sul nucleare iraniano (JCPOA), una vergogna che il presidente americano doveva in qualche modo coprire con un gesto eclatante.

Insomma, è venuto il momento di prendere atto della realtà, per quanto cruda: per Trump il rapporto con Putin “vale” ($$) molto di più di quello con gli storici alleati europei e occidentali, tanto che è persino disposto a tradire, nella sostanza, Israele pur di non intaccare gli interessi russi in e con l’Iran. Manca solo che solidarizzi con il coreano Kim Jong-un, e il circo degli autocrati è completo. L’Europa ne prenda atto. Ha fatto bene a sottoscrivere gli impegni al vertice dell’Aja, ma commetterebbe un errore esiziale a credere di aver comprato la fiducia dell’inquilino della Casa Bianca dicendo sì al 5% delle spese militari e di difesa. L’antica solidarietà euro-atlantica non esiste più. Si potrà un giorno ricostruire, ma con un altro presidente americano, portatore di altri interessi e di altra politica. Serve far finta che ciò non sia? Non ne sono affatto convinto, ma capisco la prudenza. Dunque, si faccia pure finta, a patto però di non finire per crederci davvero.

 

Tutto questo implica tre scelte fondamentali. La prima è costruire una “Nato nella Nato”, dando una struttura più organizzata e organica al comitato dei “volenterosi”. Riuscire a coagulare le principali forze europee con Gran Bretagna e Canada, magari allargando il campo anche a Giappone e Australia, significherebbe rappresentare agli occhi di Trump quell’unità extra Usa la cui mancanza, finora, lo ha indotto a pensare di poter fare il bello e il cattivo tempo. Avendo a mente che se l’ombrello Usa di protezione nucleare non è più aperto “a prescindere” ma a “condizione che”, e questa discrezionalità dipende esclusivamente dalla “certezza dell’incertezza” trumpiana, la prima delle necessità è la costruzione di una capacità di deterrenza nucleare autonoma, partendo dalla messa a fattor comune degli attuali arsenali nucleari francese e inglese. La seconda scelta inderogabile è fare in modo che questa “Nato bis” non faccia mancare quel sostegno strategico incondizionato a Kiev di cui gli Stati Uniti la stanno privando. Non in antitesi e polemica con Washington, ma senza deflettere, sapendo che quella ucraina è una linea del Piave superata la quale tutta l’Europa è in grave pericolo.

Ma c’è una terza scelta, tanto decisiva quanto potenzialmente divisiva: costruire – subito – una governance europea della Difesa. Intanto perché l’impegno del 5% di spesa sul pil non c’è alcun paese europeo, a parte la Germania, che sia in grado di sostenerlo senza renderlo comune, cioè comunitario. Vuoi per ragioni di finanza pubblica, a cominciare da Italia e Francia, vuoi per ragioni di sostenibilità politica (e qui è ancora l’Italia il ventre molle dell’Unione). Poi perché sarebbe impossibile realizzare un’autonomia strategica potenzialmente indipendente dagli Stati Uniti con un approccio sovranista, cioè con un impianto di Difesa che fosse solo la somma delle Difese nazionali. Finora, la Commissione guidata dalla sempre più claudicante Ursula von der Leyen ha cercato di rendere compatibili entrambe le formule in un dosaggio che privilegia le spese nazionali. Non è questa la strada. Non lo era prima, tantomeno non lo è ora che, al di là della narrazione corrente, è chiaro che non basta redistribuire più equamente le spese per mantenere in vita la Nato di un tempo, quella della solidarietà incondizionata. 

Queste scelte sono impossibili nell’Europa a 27 e con il diritto di veto pronto a scattare? È molto probabile, anzi, pressoché certo. E allora? Fino a qualche mese fa avrei detto che l’unica strada è quella di dar vita agli Stati Uniti d’Europa. Lo penso ancora, sia chiaro, ma credo anche che non ci sia il tempo, perché le risposte sul piano militare devono essere rapide, molto rapide. Dunque, fermo restando gli Stati Uniti d’Europa come punto di arrivo, occorre che da subito i grandi paesi continentali diano vita, con chi ci sta, ad una “Difesa euro-occidentale”, aperta anche a chi non fa parte della Ue come la Gran Bretagna, che preveda strutture militari unitarie finanziate da debito comune e che favorisca l’integrazione, senza egoismi, delle imprese industriali della difesa. Macron, Merz e Starmer avevano iniziato un lavoro di tessitura, cui si erano uniti anche i polacchi. Ora, tra il vertice Nato dell’Aja e l’ultimo Consiglio europeo, si sono notate crepe vistose in questa intelaiatura embrionale. Spero si tratti solo di difficoltà momentanee, di crisi di crescita di un progetto che è senza alternative.

In questo processo, finora l’Italia ha preferito restare alla finestra, attardandosi a coltivare l’illusione di poter costruire immaginari ponti con Trump. Meloni oscilla tra momenti di consapevolezza e pericolosi rinculi. I media hanno sottolineato, quasi fosse un miracolo mentre dovrebbe essere cosa del tutto normale, che la presidente del Consiglio e la segretaria del Pd, Schlein, si sono a lungo parlate circa l’anarchia geopolitica in cui ci è dato vivere. Bene. Ma se il punto d’incontro dovesse essere, come tutto fa supporre, un pacifismo da quattro soldi abbinato ad un isolamento in sede europea, beh allora è meglio che non si parlino. Questo è il tempo in cui si deve costruire potenza. Chi va in direzione opposta, sarà spazzato via, e se ne incaricherà la cronaca, neanche la storia. (e.cisnetto@terzarepubblica.it)

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