ultimora
Public Policy

L'editoriale di TerzaRepubbica

Trump e l'anarchia geopolitica

IL G7 È MORTO E IL MONDO È PREDA DI UNA “ANARCHIA GEOPOLITICA”. DA NOI CHI È CONTRO IL “GUERRAFONDAIO” NETANYAHU È A FAVORE DEL “PACIFISTA” PUTIN

di Enrico Cisnetto - 21 giugno 2025

“Grande è la confusione sotto il cielo”, ma contrariamente a quanto diceva Mao Tse-Tung “la situazione non è eccellente”. Gli Stati Uniti affiancano Israele nella guerra all’Iran? Si, no, forse, chissà. Teheran è a un passo dal possedere la bomba atomica? Si (Aiea, Agenzia atomica dell’Onu, dieci giorni fa), no (Aiea tre giorni fa). Trump impone dazi a mezzo mondo? Pesantissimi, così così, zero. Putin ha già vinto la guerra in Ucraina? Sì, Zelensky sta per soccombere, è inutile sostenerlo; no, Mosca è in crisi militarmente ed economicamente, basta poco perché Kiev prevalga.

Di fronte a questo caos interpretativo dei fatti, che non ha precedenti e che risale a cause di tipo cognitivo che vanno ben al di là della disinformazione organizzata, pure più attiva che mai, mi sale un moto di crescente repulsione – non so se generato da invidia o da disprezzo, ma più probabilmente dal secondo dei due sentimenti – verso coloro che esibiscono certezze inossidabili. Mi riferisco a chi ipotizza i comportamenti di Trump, che è la cosa più difficile del mondo non fosse altro perché lo stesso presidente americano sembra “in disaccordo con sé stesso” (definizione del Washington Post) tanto da dire che “tutto può succedere perché nessuno sa cosa farò”, con ciò rendendo evidente che nemmeno lui abbia in testa cosa davvero intende fare. E mi riferisco a chi sostiene, non si capisce su quali basi al di là delle fake news, che tra Putin e Zelensky la colpa della guerra in corso da oltre tre anni sia di colui che è stato attaccato e in generale degli ucraini fin dal 2014 quando Mosca si prese la Crimea. Ma, soprattutto, diffido sia di coloro che si dicono certi che il pendolo della ragione batta esclusivamente dalla parte dei palestinesi – e pazienza se sono rappresentati dai signori di Hamas (guai a dire che sono terroristi, e se lo si dice poi ce ne si dimentica nelle valutazioni) – e quello del torto dalla parte israeliana, tanto a Gaza come in Iran, sia di coloro che affermano l’esatto contrario. Anche se il peggio è rappresentato da chi, senza paura di cadere in una contraddizione persino ridicola, è contemporaneamente contro Netanyahu perché giudicato guerrafondaio e pro Putin, considerandolo un benefattore dell’umanità. A me, invece, i miei maestri hanno insegnato a praticare costantemente il dubbio, un principio dal valore inestimabile che tiene lontana la presunzione e aiuta ad avere un senso del limite. Per questo in TerzaRepubblica cerco di analizzare quanto sta accadendo nel mondo senza alcuna prevenzione e tabù. Tanto più in questa “anarchia geopolitica” in cui ci è dato di vivere.

Ho fatto questa premessa perché ho la sensazione che in questo momento ragionare su Israele e le sue scelte richieda un massiccio ricorso supplementare alla laica religione del dubbio. Escludendo qui, come non degne di considerazione, le contrapposte partigianerie in campo, particolarmente attive nell’attribuirsi il plenum delle responsabilità senza minimamente considerare le ragioni altrui, proviamo a valutare le argomentazioni più gettonate. Da un lato, oltre che a contare le vittime, si è naturalmente portati a valutare come unilaterale e preventivo l’attacco israeliano all’Iran, per di più era aperta una trattiva con gli Stati Uniti sul nucleare, e a considerare il pericolo che un eventuale coinvolgimento diretto americano faccia scoppiare un conflitto di dimensioni planetarie. Dall’altro, partendo dal ruolo di Teheran come principale finanziatore, sostenitore e utilizzatore di tutti i gruppi terroristici del Medio Oriente, ci si compiace che Tel Aviv voglia sbarazzarsi oggi dell’Iran così come ieri di Hamas, costi quel che costi. Tanto più se è probabile, o almeno possibile, che l’arricchimento dell’uranio nei laboratori iraniani sia arrivato ad un punto tale da far temere che a breve Teheran possa disporre di testate nucleari e intenda usarle, considerata la mentalità millenarista dei suoi leader teocratici, per i quali l’obiettivo ideologico di distruggere Israele vale il prezzo del martirio di massa di un conflitto nucleare.

Il fatto è che entrambi i giudizi stanno in piedi, e dunque occorre armarsi di pragmatismo e provare ad andare oltre. Per esempio, rispondendo ad alcune domande chiave. Quella preliminare riguarda naturalmente la legittimità e l’opportunità dell’intervento israeliano. Io trovo fuorviante la questione della bomba, che si presta alla strumentalizzazione circa lo stato di avanzamento della sua preparazione. A rendere politicamente legittima la scelta di Tel Aviv basta e avanza il fatto che Teheran abbia armato e finanziato milizie che hanno Israele come nemico, e che una di queste, Hamas, non fosse altro per mancanza di controllo da parte iraniana, abbia perpetrato il massacro del 7 ottobre 2023. I critici dell’attacco dovrebbero almeno chiedersi se Israele avesse un’alternativa realistica contro un avversario che ha ripetutamente promesso di cancellarlo dalla mappa. Mentre sul piano dell’occasione, credo che gli israeliani temessero, a ragione, che Trump potesse fare con l’Iran un accordo raffazzonato, e dunque pericoloso, ed è comprensibile che abbiano ignorato l’appello del presidente Usa a concedere tempo al negoziato con Teheran.

Ma detto questo, ecco la seconda domanda, per me dirimente: il piano di Netanyahu è solo militare o anche politico? Lo dico perché ho la netta impressione che gli israeliani si muovano soltanto sul primo dei due livelli, trascurando di avere, così come fu per gli americani in Iraq quando fecero fuori Saddam Hussein o in Afghanistan quando finirono per lasciare il campo ai talebani, un punto di caduta per l’esito delle loro azioni. Come è emerso nella War Room di martedì 17 giugno (qui il link), la Repubblica Islamica è sicuramente illiberale, totalitaria e sanguinaria, ma non è un regime monocratico, e con una pluralità di poteri il regime change non si ottiene semplicemente eliminando Ali Khamenei. Ho letto l’auspicio dello scrittore e attivista per i diritti umani di origine iraniana, oggi cittadino svedese, Iraj Mesdaghi, convinto che se Trump desse il via libera a Netanyahu di colpire la guida suprema, responsabile della repressione e delle violenze nei confronti degli iraniani, il regime teocratico cadrebbe, e se anche non crollasse sarebbe così indebolito da non avere più potere sul popolo. Ma, come ha scritto sulFinancial Times l’ex capo dell’MI6 e ambasciatore britannico all’Onu, John Sawers, il regime iraniano, pur fragile e profondamente impopolare, non ha un’opposizione organizzata e leadership alternative pronte al ricambio, e di certo non bastano gli appelli di un leader israeliano affinché il popolo iraniano si sollevi. Viceversa, elementi delle forze armate sono nella posizione migliore per prevalere in una lotta per il potere che si dovesse scatenare – si parla della “seconda generazione” dei Guardiani della Rivoluzione, che non sono più solo militari ma anche uomini d’affari, tecnocrati e strateghi di intelligence – mentre è remota la possibilità che emerga un governo liberale e filo-occidentale. Dunque, Netanyahu rischia di ottenere niente di più che la frammentazione dell’Iran, come avvenuto in Libia, Siria, Yemen e Somalia. È una buona prospettiva per Israele? È tale da giustificare la sopportazione di un livello di riprovazione morale e politica su scala mondiale che già le modalità dell’intervento a Gaza – tra l’altro non ancora risolutivo – avevano reso allarmante, generando un tasso di antisemitismo intollerabile? Il dubbio è quantomeno lecito.

 

Infine, c’è un’ultima domanda cui occorre dare risposta: Israele è militarmente in grado di portare fino in fondo il suo disegno in Iran senza l’intervento diretto degli Stati Uniti? Non sono un esperto, ma leggo che gli impianti nucleari iraniani sotterranei di Fordow, sepolti sotto 100 metri di cemento armato, non possono essere distrutti senza la gigantesca bomba da 12,3 tonnellate GBU-57 Mop (abbreviazione di Massive Ordinance Penetrator), che solo i bombardieri B-2 in grado di trasportare un carico di 18 tonnellate e volare senza rifornimento fino a 11mila chilometri possono sganciare. Strumenti che solo gli americani possiedono. E considerati i rapporti non proprio idilliaci tra Netanyahu e Trump, e l’assoluta imprevedibilità di quest’ultimo, il governo israeliano ha fatto bene ad avventurarsi in una guerra senza la certezza del sostegno di Washington?

Come si vede, i miei dubbi non discendo da giudizi morali e tantomeno da pregiudizi ideologici. A preoccuparmi, semmai, è l’imperversante anarchia geopolitica. Basti vedere il modo efferato con cui Trump ha assassinato il G7, abbandonando anzitempo l’incontro tra i leader dei paesi più industrializzati del mondo che si svolgeva in Canada. Cosa che rappresenta uno schiaffo agli alleati e un duro colpo all’ordine mondiale, ormai sempre più in crisi. Anche perché della toccata e fuga del presidente americano tra i boschi dell’Alberta rimarranno solo le dichiarazioni su Putin, ancora orientate a difendere e legittimare lo Zar sul piano internazionale (“fu un errore escluderlo da quel che un tempo era il G8”) fino al punto di proporlo come mediatore tra Gerusalemme e Teheran, senza neppure preoccuparsi di cadere nel ridicolo. Una posizione intollerabile per gli alleati europei, che invece chiedevano di incrementare le sanzioni contro la Russia, puntualmente rifiutate dagli Usa, che continuano a non prendere atto di come Mosca non abbia alcuna intenzione di mettere fine alla guerra contro l’Ucraina. Anche perché ora i russi confidano che il conflitto Iran-Israele acceleri il disimpegno Usa nei confronti dell’Ucraina – hanno già dirottato verso Tel Aviv alcuni sistemi di difesa inizialmente destinati a Kiev – e distragga l’Europa nell’appoggio a Zelensky.

In questo contesto, quel che più mi colpisce è l’inconsistenza delle reazioni da parte degli alleati occidentali. Per carità, la posta in gioco è altissima, l’equilibrio è un valore assoluto e tentare in tutti i modi di tenere ancorati gli Stati Uniti è cosa buona e giusta. In fondo gli Usa restano gli Usa anche con questa presidenza, che prima o poi (speriamo più prima che poi) passerà. Ma incassare senza colpo ferire le sparate pro-Putin non è più tollerabile. Esiste un punto di confine tra la giusta saldezza di nervi, indispensabile per evitare di rompere quel che resta (poco) della solidarietà atlantica, e la necessaria reazione da parte europea e occidentale per tenere la barra dritta sui rapporti con la Russia, che non possono essere segnati da alcuna ambiguità. Fino a quando gli alleati occidentali intendono continuare a prendere schiaffi da Trump? Sembrano Totò nel famoso sketch di Pasquale, con l’Occidente che si limita a dire “e che so Pasquale io?”. Anche perché il G7 declassato a G6 e ridotto ad un’inutile declinazione di buone intenzioni e belle speranze, mentre ovunque la forza ha preso il posto della ragione e del diritto, e con Trump che si comporta come se ci fosse un a lui più gradito G3 (Usa, Russia, Cina), è un danno per tutti, ma in primis per Europa, Gran Bretagna e Canada.

L’Europa, poi, è profondamente divisa tra la linea del cancelliere tedesco Merz (“Israele fa il lavoro sporco per tutti noi”) e quella dell’Alta rappresentante per la politica estera Ue, Kaja Kallas, che è pronta a certificare la violazione dei diritti umani di parte di Israele (vedi War Room di ieri, qui il link). Cosa, questa, che al pari di un pronunciamento della Corte internazionale di giustizia che ha giudicato “illegali” gli insediamenti israeliani ha spinto nove paesi europei (Belgio, Finlandia, Irlanda, Lussemburgo, Polonia, Portogallo, Slovenia, Spagna e Svezia) a chiedere l’interruzione delle relazioni commerciali con i territori delle colonie. In tutto questo, trascuro l’Italia: semplicemente non pervenuta. (e.cisnetto@terzarepubblica.it)

Social feed




documenti

chi siamo

Terza Repubblica è il quotidiano online fondato e diretto da Enrico Cisnetto nato nel 2005 dall'esperienza di Società Aperta con l'obiettivo di creare uno spazio di commento indipendente e fuori dal coro sul contesto politico-economico del paese.