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L'editoriale di TerzaRepubblica

Consigli (non richiesti) a Meloni

LA DISAFFEZIONE SUI REFERENDUM È UNA SCONFITTA PER TUTTI. APPROFITTI DELLA ROTTURA MUSK-TRUMP PER SCEGLIERE, SENZA INDUGI, L’EUROPA

di Enrico Cisnetto - 14 giugno 2025

Occhio all’effetto strabismo. Giorgia Meloni – a cui in questa newsletter rivolgerò, sommessamente, consigli non richiesti – rischia di vedere il bene nel risultato dei referendum voluti dalla sinistra, indubbiamente afflitta da mal di quorum, e di vedere il male nella faida che si è aperta tra Donald Trump ed Elon Musk, considerato che la nostra presidente del Consiglio aveva fatto leva sul secondo per accreditarsi con il primo e che ora il giochetto è andato a farsi benedire. Ma le cose non stanno proprio così. Anzi, per certi versi stanno all’opposto. Vediamo perché, partendo dalla consultazione referendaria. 

Non c’è dubbio che i referendum siano stati proposti e cavalcati dalle attuali opposizioni, avendo in testa non i temi dei quesiti ma un obiettivo politico: trasformare la consultazione in un ballottaggio su Meloni e il suo governo. E per farlo ci hanno aggiunto la manifestazione pro Gaza di sabato 7 giugno, che avrà anche riempito la piazza ma al prezzo di evidenziare tutte le contraddizioni che allignano nel “campo largo” sia sulla questione specifica – slegando le ragioni della Palestina da quelle di Israele e usando la parola “genocidio” come leva per alimentare pericolosi umori antisemiti – sia più in generale sulla politica estera e la collocazione internazionale dell’Italia (vedi War Room di martedì 10 giugno, qui il link). Con ciò commettendo una serie di errori politici da matita blu: scegliere temi distanti dal sentire popolare e sbagliati (quelli sul lavoro perché intrisi di ideologismo vecchio stile, quello sulla cittadinanza perché non adatto allo schematismo del sì/no); pretendere di poter tradurre automaticamente le indicazioni referendarie in voti politici; indicare come traguardo non il quorum e la vittoria dei Sì ma il raggiungere un numero di voti superiore ai 12 milioni e 305 mila che nel 2022 permisero al centrodestra di andare al governo (peccato che i Sì hanno raccolto al massimo, nel quesito più votato, quello sul reintegro nel posto di lavoro, 12 milioni e 249 mila). Risultato: si farà fatica a riparlare di lavoro e di cittadinanza nella maniera giusta, sepolti come sono stati dal calcolo politico (sbagliato) e dall’indifferenza.

Ma se la sinistra si è, more solito, autoflagellata, una riflessione ragionata e non superficiale suggerirebbe di evitare conclusioni politicamente improprie anche sul fronte opposto. Per diverse ragioni, gentile presidente del Consiglio. La prima è che se la sinistra ha perso, questo non significa automaticamente che la destra abbia vinto, non fosse altro perché si è furbescamente affidata non alla contrapposizione dialettica ma al facilmente prevedibile disinteresse dei cittadini (se su 67 referendum abrogativi fin qui celebrati, in 28 non è stata superata la soglia, e dal 1990 in poi solo in tre occasioni è scattato il quorum, qualcosa vuole ben dire). La seconda ragione è che se i Sì non sono meccanicamente voti a sinistra, i No e soprattutto le astensioni non lo sono a destra. Ma c’è una terza e ben più profonda ragione per non festeggiare dalle parti di palazzo Chigi: la deriva della democrazia iper minoritaria. Nel 2022 il centrodestra vinse rappresentando circa il 26% degli aventi diritto, e quando si ha con sè un quarto del Paese, per definizione si fatica a governare. Ed è dall’inizio della Seconda Repubblica, ormai più di tre decenni, che le maggioranze in Parlamento sono minoranze nel Paese, e con il passare del tempo hanno finito col rappresentare una fetta sempre più esigua di italiani. Ora anche questi referendum vanno in quella direzione, e la rafforzano. E la disaffezione è, o dovrebbe essere, un problema di tutti, a cominciare da coloro cui arridono le percentuali (e hanno il vizio di non guardare i numeri assoluti).

Dunque, la battuta “mi costringeranno a stare qui per i prossimi dieci anni” se la poteva risparmiare non solo per ragioni di fair play – non è mai troppo tardi per imparare a distinguere i comportamenti opportuni quando si hanno incarichi istituzionali rispetto a quelli di partito, lo dico anche e prima di tutto al presidente del Senato La Russa – ma anche per ragioni sostanziali, perché corre il rischio di crederci sul serio e commettere errori conseguenti. Insomma, non è scontato l’esito delle elezioni regionali che si terranno in autunno, figuriamoci quello delle politiche alle quali mancano ancora due anni pieni. Nei quali – donna avvertita… – può star certa che emergerà il tema dell’economia che è tornata alla maledetta “crescita zero”. Questione che non sarà certo esorcizzabile raccontando che facendo un +0,6% di pil quest’anno battiamo la Germania. Primo perché non siamo in gara con l’economia tedesca – del cui andamento dovremmo preoccuparci, viste le interrelazioni con la nostra, non compiacerci – e secondo perché la quasi totalità della crescita prevista per quest’anno si riferisce al primo trimestre, e questo significa che da aprile a dicembre l’Italia rimarrà sostanzialmente ferma. E in economia contano i trend (vedi la War Room di mercoledì 11 giugno, qui il link). 

E veniamo alla questione americana. Si dice che Meloni sia contrariata per la furibonda lite tra l’inquilino della Casa Bianca e il ketaminico miliardario padrone di Tesla e Starlink. Se così fosse, mi permetto di suggerire alla presidente del Consiglio uno stato d’animo del tutto opposto. Per Lei, mi creda, la rottura tra quei due rappresenta un vero e proprio colpo di fortuna. Per quattro semplici motivi. Il primo è che il ponte che Musk le ha costruito per arrivare a Trump non è mai stato davvero solido, neppure quando la “strana coppia” andava, o pareva andare, d’amore e d’accordo. Il secondo motivo è di ordine metodologico: da un lato non si affida ad un businessman, chiunque esso sia e a maggior ragione se ha il profilo folle di Musk, le chiavi del rapporto con un capo di Stato, specie se si tratta del più potente al mondo; dall’altro, le relazioni tra leadership politiche e istituzionali non rispondono alle regole delle pierre, e per essere vere e forti richiedono il requisito fondamentale della credibilità personale, che per definizione non è delegabile. Presidente, Lei mi dirà che arrivare ad un tipo egoriferito e volubile come The Donald è cosa assai complicata e che non le è parso vero di trovare una sponda che la aiutasse nel rendez-vous. Capisco. Ma Lei rappresenta l’Italia, che nonostante tutti i suoi difetti è pur sempre uno dei paesi del G7, e l’unica arma da usare – ammesso e non concesso che con Trump si possa davvero avere un dialogo – è quella dell’autorevolezza, non dell’accondiscendenza o della (presunta) fascinazione. Il terzo motivo attiene agli interessi economici del magnate americano: ora Lei, Presidente, potrà facilmente sottrarsi al ricatto di nome Starlink, al quale ha mostrato di volersi piegare senza però mai arrivare al dunque – ecco un caso nel quale è risultata utile la sua proverbiale tendenza a barcamenarsi – e che prima o poi l’avrebbe comunque messa in imbarazzo, tanto a dire sì e firmare contratti “pericolosi” quanto a dire no e compromettere il rapporto così abilmente costruito. Ora non c’è più motivo di tentennare, si butti sul progetto del sistema satellitare europeo e tanti saluti a Starlink.

Ma poi c’è il quarto e ultimo motivo, il più importante, per cui Lei dovrebbe rallegrarsi della rottura Musk-Trump. È venuto il momento di rimodulare non tanto il rapporto con il presidente degli Stati Uniti, che c’è e non c’è, quanto le sue personali ambizioni nel tentativo di intrattenerla questa benedetta relazione. E il venir meno della sponda di Musk è l’occasione ideale per questo reset. Lo impone il realismo politico, che a Lei non difetta anche se si ostina a definire The Donald “coraggioso, schietto, determinato nel difendere i suoi interessi nazionali”, cosa che non è. Presidente, Lei per opportunismo – ma facendo un calcolo che si è rivelato sbagliato – ha scelto di buttarsi nelle braccia del rieletto Trump, e lo ha fatto anche a costo di essere e apparire lontana dall’Europa. Certo nel farlo si è sforzata di tenere i piedi in due scarpe e inizialmente avendo anche la pretesa di svolgere un ruolo di pontiera tra le due sponde dell’alleanza atlantica. Adesso prenda atto che l’operazione non è riuscita e che insistere sarebbe un suicidio per Lei e per l’Italia, che Trump è un impasto di narcisismo esasperato e fascismo latente (l’efficace definizione di “narcifascismo” è di Marco Gervasoni sull’HuffPost) indigeribile persino per Lei che pure frequenta con piacere i Viktor Orbán. E con l’abilità che non le manca faccia marcia indietro. Sì, è vero, gli incontri che Lei ha fatto con gli odiati (chissà poi perché) Macron e Sanchez, così come quello con il socialista portoghese Antonio Costa, presidente del Consiglio europeo, sono andati per il verso giusto, perché a quanto è dato sapere Lei si è professata a favore del debito comune pur sapendo che si tratta dell’anticamera della “sovranità europea”. Ma nelle stesse ore ha anche incontrato quel “loco” di Milei, e dirsi d’accordo con il presidente argentino ha tolto credibilità alla sua “conversione europeista”, tanto da farsi affibbiare da alcuni osservatori un poco gratificante “Giorgia Zelig”.

Veda, signora Presidente, l’astuzia della politica è un ingrediente fondamentale, ma non va confusa con l’ambivalenza, che è altra cosa e che non paga. Perché agli occhi di Trump – ammesso che ne abbia per Lei e per qualunque altro leader che non si chiami Putin o Xi Jinping – Meloni è troppo europeista e per gli europei è troppo trumpiana. È dunque venuto il momento di sgombrare il campo dagli equivoci e dalle doppiezze (già, nel pantheon della politica italiana non c’è solo quella comunista, la “doppiezza togliattiana”, ma anche quella missina da cui Lei discende) e dire con adamantina chiarezza da che parte sta. E se la collocazione che sceglie è lontana dalla sponda da cui è partita, avvalori la credibilità della scelta dando il senso del percorso intellettuale politico compiuto, eviti di far finta di niente se passa dal “no euro” al “entente cordiale” con von der Leyen e Metsola. Cambiare idea non solo è lecito, ma segno di intelligenza, l’importante è farsene carico e non far finta che ci sia piena continuità, altrimenti si scontenta la sponda che si lascia e non si convince quella verso cui si approda. 

Signora presidente del Consiglio, stiamo attraversando un versante della storia pieno di cambiamenti epocali. Esserne protagonisti e non soggetti passivi o al massimo comprimari richiede consapevolezza, pragmatismo, lucidità, saldezza, coraggio. E, al contrario, non praticare la furbizia, il disinganno, i tentennamenti, il piccolo cabotaggio. C’è da costruire l’Europa della post solidarietà atlantica, cui siamo costretti, dopo quasi un secolo, a rinunciare per volontà altrui. E c’è da farlo avendo ai confini chi immagina di poter ricostruire l’Unione Sovietica, anzi un impero ancora più vasto capace di sconfiggere e umiliare il Vecchio Continente. Si tratta di un impegno straordinario e inedito. Onorarlo significa passare alla storia e assicurarsi il futuro, rifiutarlo o anche solo aggirarlo, comporta arrendersi ad un destino di ingloriosa marginalità, precludendosi il domani. Un’ambizione che va “volenterosamente” condivisa con i Macron, i Merz, gli Starmer, senza preclusioni o altezzosi distinguo.

Decida Lei cosa vuol fare, non pretendo certo con questi sommessi suggerimenti non richiesti di spingerla nella direzione che ho provato a indicare. Ma una cosa le chiedo: valuti che oltre al suo destino personale c’è in gioco anche e soprattutto quello dell’Italia. Della Nazione, come direbbe Lei. Che non merita – e non sopporta – più di doversi sciroppare la litania della destra buona e della sinistra cattiva (e viceversa, naturalmente). Buon lavoro. (e.cisnetto@terzarepubblica.it)

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