
Referendum tra voto e astensione
REFERENDUM, L’ASTENSIONE È LEGITTIMA E DEMOCRATICA ECCO PERCHÈ NON RITIRERÒ LE SCHEDE SUL LAVORO E VOTERÒ SÌ SULLA CITTADINANZA
di Enrico Cisnetto - 06 giugno 2025
Una gigantesca nube di ipocrisie avvolge i referendum di domani e lunedì, attribuendo loro una valenza che non hanno e dando la misura del livello infimo cui è giunta la politica italiana (e di chi la commenta). Io, come spiegherò dettagliatamente più avanti, sono contro a quattro di essi, i quesiti sul lavoro, e a favore di quello sulla cittadinanza, ma il mio giudizio è complessivo e attiene alla consultazione nel suo insieme.
La prima e più grande ipocrisia riguarda il valore democratico che si vuole attribuire al voto referendario, da cui se ne fa discendere una severa condanna morale nei confronti di chi si astiene e, soprattutto, di chi, sulla base di una valutazione politica di merito, suggerisce ai cittadini di astenersi. Il presupposto è errato, e per questo respingo al mittente la perbenistica censura. Basterebbe rifarsi ai padri costituenti, che vollero non casualmente distinguere tra i referendum “abrogativi” – come i cinque in questione – e quelli “confermativi”. Per i primi, trattandosi di sconfessare quanto deciso dal Parlamento cui spetta la rappresentanza della volontà popolare, è previsto che la partecipazione al voto raggiunga la maggioranza degli aventi diritto pena nullità (art. 75 della Costituzione). I secondi riguardano leggi costituzionali o di revisione costituzionale approvate da ciascuna delle Camere con una maggioranza inferiore ai due terzi dei componenti (se superiore il cosiddetto “referendum costituzionale” è inammissibile): per questi non è previsto alcun quorum essendo sufficiente che i voti favorevoli superino quelli sfavorevoli. In questo secondo caso, dunque, vale l’art. 48 della Costituzione, che parla di “dovere civico” del voto, per cui non esiste un livello minimo di partecipazione da raggiungere al pari delle elezioni della democrazia rappresentativa, mentre nel primo caso – con il 75 che si configura come deroga del 48 – l’aver stabilito il principio del quorum rende la partecipazione al voto come un’opportunità e non un obbligo (neppure morale). Se la scelta di non votare è lecita, tanto che per legittimare la consultazione è previsto il quorum, allo stesso tempo il voto non può essere considerato doveroso. Vale ciò che da Capo dello Stato ebbe a dire Giorgio Napolitano: “Se la Costituzione prevede che la non partecipazione della maggioranza degli aventi diritto è causa di nullità, non andare a votare è un modo di esprimersi”.
D’altra parte, sulla base di questo presupposto, nel corso del tempo si è andata formando la consuetudine di considerare l’astensione il miglior modo per far prevalere i No, a fronte del fatto che si recano alle urne quasi esclusivamente i fautori del Sì. Tant’è vero che in tutti i referendum dove non si è raggiunto il quorum (dal 1990, referendum sulla caccia, ad oggi sono stati 10 su 13) ha sempre prevalso largamente il voto favorevole al quesito abrogativo. Insomma, i “No” sono una esigua minoranza se votano, ma diventano maggioranza se scelgono di non andare a votare, impedendo il raggiungimento del quorum. L’astensione non è quindi l’arma di chi preferisce il mare o la montagna alla canicola del seggio, ma è un modo legittimo per rispondere al quesito referendario.
Si dirà: ma negli astenuti ci sono anche i qualunquisti renitenti al voto, non solo coloro che optano per lo strumento del non voto per esprimere la loro contrarietà al merito del quesito. Vero, ma questa rendita di posizione a favore dei contrari è un rischio che i promotori di un referendum sanno di correre, così come vale il ragionamento che se l’affluenza è bassa è lecito presumere che il tema affrontato sia di scarso interesse o risulti ostico. E se è dal 1995 che una consultazione referendaria non supera lo sbarramento, qualcosa vorrà ben dire in termini di inflazione dello strumento. Si vuole abbassare il quorum, magari portandolo al 50% più uno del numero dei votanti delle elezioni politiche precedenti alla consultazione referendaria? Va bene, ma allora si aumenti la quantità di firme necessarie per indire un referendum (sempre fatta salva la valutazione della Corte Costituzionale). Il professor Ceccanti suggerisce di passare da 500 mila a 800 mila: sono d’accordo, ma non mi scandalizzerei se si arrivasse al milione.
Tornando al fastidioso sventolio della bandiera della verginità democratica in relazione all’astensione, suggerisco caldamente di evitare. Perché è accaduto infinite volte che destra e sinistra si siano alternate, a seconda del tema ma soprattutto dei promotori del referendum, a fare propaganda per l’astensione. Ricordo solo due fatti, giusto per essere bipartisan, che la dicono lunga sul tasso di ipocrisia che si sta riversando sui cinque referendum del momento. Il primo: nel 2003 (referendum sull’articolo 18 dello statuto dei lavoratori proposto da Rifondazione Comunista) furono i segretari della Margherita (Rutelli), dei Ds (Fassino) e della Cgil (Cofferati) a invitare gli italiani a disertare le urne. Il secondo: si accusa Giorgia Meloni di incoerenza per aver furbescamente annunciato che andrà alle urne ma non ritirerà le schede – in effetti di scelta codina si tratta, e comunque inutile ai fini di evitare l’accusa di diserzione – mentre la vera incoerenza è quella di essere contro (solo di fatto, senza dirlo) all’abrogazione di norme, il Jobs Act in particolare, alle quali a suo tempo si era vivacemente opposta in Parlamento. Una contraddizione che la sinistra non le imputa per il semplice motivo che le norme che oggi vuole eliminare fu il Pd (di Renzi, certo, ma l’allora minoranza interna non si oppose) a volerle e votarle. Della serie, odiamoci pure, ma ciascuno nasconda la vergogna delle proprie incoerenze senza rinfacciarsele l’un l’altro. Complimenti.
E veniamo al merito. I quesiti sul mercato del lavoro, accompagnati da un enfatico moralismo a buon mercato, sottendono un approccio ideologico, anti-mercato, una visione tolemaica del lavoro che parte dal presupposto che nei conflitti l’impresa abbia sempre torto e i lavoratori sempre ragione. Ma soprattutto, i quesiti sono figli di un mondo che fu, perché nel frattempo il mercato del lavoro è completamente cambiato: salari troppo bassi da un lato, difficoltà a trovare mano d’opera dall’altro. Nello specifico, il quesito numero 1 viene pomposamente presentato dai promotori come “ripristino dell’art. 18 dello Statuto dei lavoratori”. In realtà, porterebbe solo al ripristino per tutti i rapporti di lavoro della legge Fornero, con effetti modesti e comunque di ulteriore disallineamento dell’Italia rispetto all’Europa. Quanto al secondo quesito (disciplina dei licenziamenti nelle piccole imprese), è contraddittorio rispetto al primo: qui si vuole sopprimere il limite dell’indennizzo per i licenziamenti nelle imprese minori, mentre per le maggiori s’intende ridurlo da 36 a 24 mensilità. Dei contratti a termine si occupa il terzo referendum, e lo fa nonostante il contenzioso giudiziale si sia molto ridotto e il loro volume (circa il 15%) sia in linea con la media Ue. Inutile. Infine, il quesito 4: è del tutto irragionevole attribuire all’impresa committente una responsabilità che sta in capo solo all’impresa che si è giudicata l’appalto. Capisco che in questo caso, contrariamente ai primi tre quesiti, il lavoratore sia favorito, ma il modo non mi pare corretto. Mentre, come suggerisce Pietro Ichino, sarebbe stato utile un referendum abrogativo della sciagurata norma (Dl n. 19/ 2024, art. 31) che ha cancellato l’unificazione e la riorganizzazione degli ispettorati del lavoro introdotta dal Jobs Act. Insomma, come spiega Giuliano Cazzola (vedi la War Room di giovedì 5 giugno, qui il link), l’eventuale abrogazione di ciò che rimane della disciplina del mercato del lavoro targata Renzi (ma il cui vero padre è Tommaso Nannicini) farebbe sparire norme più convenienti per i lavoratori e per l’occupazione rispetto alla disciplina che vincendo i Sì verrebbe ripristinata. In sostanza, per i lavoratori assunti prima del 7 marzo 2015 non cambierebbe nulla, mentre per quelli assunti dopo (con contratto a tutele crescenti) cadrebbe una tipologia di contratto per loro positiva perché già ripulita degli aspetti più svantaggiosi dagli interventi della Consulta.
Quanto alla cittadinanza, dimezzare da 10 a 5 anni il periodo di residenza richiesto agli stranieri extra-Ue per ottenerla appare più che ragionevole, anche perché aiuta i processi d’integrazione e dunque circoscrive l’area della clandestinità. È vero che l’Italia, in Europa, è tra i paesi più generosi, visto che nel 2022 il 22% del milione scarso di nuove cittadinanze complessivamente concesse dai paesi Ue riguarda noi. Ma è anche vero che il nostro è il paese che più soffre la crisi demografica, ed è quindi maggiormente bisognoso – sotto ogni aspetto, del lavoro, previdenziale, fiscale – di incrementare i flussi in ingresso. Certo, con il referendum si usa l’accetta, mentre molto meglio sarebbe stato legiferare partendo da un’elaborazione politica sul tema dell’inclusione. Soprattutto per mettere mano alla macchina amministrativa che gestisce queste procedure, che nella pratica si traducono in attese indefinite, in pratiche che scompaiono, in archivi fatiscenti. Votare Sì, dunque, non risolve il problema dell’integrazione dei migranti, ma semplicemente da un segnale della direzione da seguire. Poco, ma meglio di niente.
In conclusione, siamo di fronte ad una consultazione il cui obiettivo è solo politico. Come dimostra il fatto che il duo Schlein-Landini, sapendo che difficilmente si supererà il quorum, ha ipotizzato di poter professar vittoria raggiungendo i 12,5 milioni di votanti, non a caso il numero che nel 2022 consentì la vittoria del centrodestra alle politiche. Ergo, chissenefrega se i Sì non vinceranno, l’importante è riuscire a dimostrare, da posizioni di sinistra radicale, di poter sconfiggere la Meloni al prossimo giro. Perché questi referendum, per dirla con le parole di Paolo Gentiloni, sono “una resa dei conti nell’album di famiglia”, con la sinistra massimalista che tenta di prendersi la rivincita nei confronti di quella riformista.
Ecco perché ho deciso di comportarmi così: andrò al seggio e ritirerò soltanto la scheda relativa al quesito sulla cittadinanza, per votare Sì, mentre non ritirerò – facendo mettere a verbale questa mia scelta, per evitare brogli – le quattro schede relative ai quesiti sul lavoro. Nel primo caso aiuterò il raggiungimento del quorum, negli altri quattro casi no, perché il calcolo si fa quesito per quesito. Si chiama “astensione consapevole e mirata”. E la considero non solo giuridicamente legittima, ma politicamente democratica. Non mi resta che augurarvi buon voto e buon non voto. (e.cisnetto@terzarepubblica.it)
L'EDITORIALE
DI TERZA REPUBBLICA
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