
Amministrative, è il sistema politico che non funziona
LA DESTRA SOTTOVALUTA, LA SINISTRA SOPRAVVALUTA. CONTINUIAMO A CREARE COALIZIONI A DIR POCO ETEROGENEE
di Enrico Cisnetto - 31 maggio 2025
Sopravvalutare e sottovalutare. Come al solito, in Italia, vincenti e perdenti di qualsiasi turno elettorale commettono rispettivamente questi due errori. Sia chiaro, le elezioni di domenica scorsa non fanno eccezione alla regola che le amministrative, tanto più se comunali, si giocano principalmente su equilibri politici e questioni locali, e quindi occorre usare molta prudenza nel trarre valutazioni politiche nazionali. In questo caso, poi, 126 comuni, di cui 4 capoluoghi (Genova, Ravenna, Taranto e Matera), e 2 milioni di persone, sono un campione troppo piccolo per arrivare a conclusioni di carattere generale. Tuttavia, la somma algebrica dei risultati pende nettamente a sinistra, e a ben vedere sembra scorgersi una chiave di lettura comune tanto dei successi del centrosinistra, o campo largo che dir si voglia, quanto delle sconfitte del centrodestra. E non si tratta, in entrambi i casi, di ciò che viene raccontato agli italiani e preso per buono dalla gran parte dei media, con l’eccezione di quelli non schierati (che, ahimè, sono ormai un’infima minoranza).
Partiamo dalle forze di governo. È un grave errore, per Giorgia Meloni e la sua maggioranza, non ascoltare i sinistri scricchiolii che arrivano dai risultati del test amministrativo. Ad di là delle problematiche locali e della storica carenza di classe dirigente, è probabile che abbiano pesato – direi meglio, cominciato a pesare, perché potrebbe essere solo l’inizio – tre percezioni. La prima riguarda la fragilità della presidente del Consiglio nel suo tentativo di giocare un ruolo nella partita planetaria della geopolitica, all’insegna di un mortificante – per lei, ma anche e soprattutto per l’Italia – “vorrei ma non riesco”. La seconda attiene alla sua scelta di schierarsi in modo acritico a favore di Trump, che certo non riscuote il favore della maggioranza degli italiani, e in particolare spaventa i moderati. La terza è quasi certamente quella che pesa di più: la palese mancanza di coesione della coalizione di governo su questioni chiave come la politica estera. Percezione rafforzata anche da alcune scelte divisive al momento del voto, come quella fatta a Taranto, dove la Lega si è sganciata da Fratelli d’Italia e Forza Italia appoggiando, pur senza il simbolo del partito, un candidato civico, che tra l’altro è arrivato al ballottaggio con il candidato del centrosinistra scalzando quello del centrodestra. Si tratta di contraddizioni di cui soffre analogamente anche l’altro fronte, ma, si sa, errori e antinomie sono ben più visibili quando si è al potere, e si è costretti a pagare lo scotto che comporta il governare. Far finta di niente, minimizzare, prendere in giro i cittadini raccontando loro che Cristo è morto di freddo, è, tra le tante, la reazione meno opportuna.
Viceversa, è altamente consigliabile la lettura, dalle parti di palazzo Chigi, della relazione annuale del governatore della Banca d’Italia, tenuta ieri. Pur con un linguaggio assertivo, Fabio Panetta – con il quale Meloni vanta consuetudine – ha detto tre cose fondamentali di cui sarebbe bene fare tesoro: a) la guerra commerciale scatenata da Trump, così come ogni forma di protezionismo, è tossica non solo perché mortifica la cooperazione e la crescita e rinfocola l’inflazione, ma anche perché genera instabilità geopolitica ed è ragione di conflitti che mettono a rischio la pace; b) l’Europa – che resta un baluardo dello Stato di diritto, della convivenza democratica e dell’apertura agli scambi e alle relazioni internazionali – segna forti ritardi e ha da ripensare il suo modello di sviluppo, badando a conquistare l’autonomia strategica, ma per farlo deve accantonare ogni spinta sovranista a favore della piena integrazione politica ed economico-finanziaria, cui il nostro Paese ha tutto da guadagnare; c) l’Italia negli ultimi cinque anni (dunque già prima di questo governo) ha fatto qualche passo avanti, sia dal punto di vista produttivo che della gestione della finanza pubblica, ma molto resta da fare ed è indispensabile impegnarsi in un vasto programma di riforme strutturali. Più chiaro di così…
Ma è la vittoria elettorale quella che induce alle peggiori tentazioni. Infatti, da quel lato è ripartito il solito mantra “uniti si vince”, che rischia di far commettere gravi errori di valutazione politica. Intanto partiamo da un dato di fatto: dove la vittoria è arrivata al primo turno, Genova e Ravenna, i candidati eletti sono figure riformiste dal profilo tutt’altro che massimalista. Silvia Salis, neo sindaco di Genova, è una “civica” non iscritta ad alcun partito, mentre il nuovo primo cittadino di Ravenna, Alessandro Barattoni, ha stravinto nel solco del predecessore Michele De Pascale, divenuto nel frattempo presidente dell’Emilia-Romagna, uno che con il radicalismo di Elly Schlein non ha nulla a che spartire. Questo per dire che al di là di come erano composte le coalizioni che li hanno sostenuti – in entrambi i casi erano presenti liste unitarie senza simboli di partito di Renzi, Calenda e PiùEuropa, ma non sono andati al di là del 2 e rotti per cento – i due candidati che hanno evitato l’onere del ballottaggio (cosa che è invece successa a Taranto e Matera) hanno raccolto voti di cittadini moderati perché non praticano il verbo populista e politicamente guardano al centro. Cosa che se non fa a pugni, di certo non coincide con la linea della segreteria del Pd.
A queste considerazioni specifiche se ne aggiunga una di carattere più generale: una cosa è costruire un’alleanza di tutti i progressisti negli enti locali, altro è farlo in sede nazionale per conquistare il governo del Paese, dove inevitabilmente le ambizioni di Schlein e di Conte finiscono per scontrarsi e dove finiranno per riproporsi i veti nei confronti delle forze centriste che eventualmente volessero pascolare nel “campo largo”. E questo ragionando solo in termini numerici. Perché se poi si passa alla politica, le distanze tra le due anime del centrosinistra – giusto per voler ridurre le distinzioni solo a riformisti e populisti-massimalisti – diventano abissali. E ricomponibili solo al prezzo di mettere da parte la politica, cosa che poi si sconta – ammesso e non concesso che questo chiudere gli occhi e turarsi il naso sia sufficiente per battere il centrodestra – una volta arrivati alla meta. Tanto più se, come si è visto, le diversità non sono nuance e riguardano questioni cruciali come la politica estera e la collocazione internazionale dell’Italia in un contesto di profondi rivolgimenti geopolitici che arrivano a mettere in discussione la solidarietà euro-atlantica.
Dunque, sono d’accordo con Francesco Cundari quando scrive nella sua newsletter “La Linea” – ma lo ha detto anche nella War Room di martedì 27 maggio in compagnia di Massimo Adinolfi e Agnese Pini, qui il link) – che “il mantra dell’unità non basterà a salvare la sinistra da se stessa” perché non sono i personalismi di chi la abita ma le loro insanabili differenze politico-culturali a inficiare l’unità (quando non la si raggiunge o, peggio, quando la si forza mettendo la testa sotto la sabbia per poi vanificarla). Temo, invece, di dover marcare una differenza di vedute rispetto al mio amico Giorgio La Malfa quando, sposando la tesi espressa da Goffredo Bettini (sic!) sul Foglio, sostiene che nei partiti dell’attuale opposizione vi sia “una comune lealtà repubblicana che fornisce una base politica su cui costruire uno schieramento vincente nelle prossime elezioni”. Capisco, e condivido, la ragione per cui La Malfa si spinge su questo terreno: il primo obiettivo ha da essere quello di battere la destra al governo, specie ora che si è avvinghiata – non dico come l’edera, perché farei un grave torto alla comune tradizione, di Giorgio e mia – al duo Trump-Vance e alla loro deriva antidemocratica, follie pericolose comprese. Ma, da un lato, dubito che questo “fronte repubblicano”, ammesso che si riesca a mettere insieme, sia in grado di vincere, nonostante i difetti del centrodestra, non fosse altro perché nascerebbe con il baricentro spostato a sinistra (Schlein e AVS) con forti concessioni massimaliste (vedi Landini e la sua malaugurata idea di immaginare i referendum sui temi del lavoro come il D-Day dei progressisti, mentre sarà la loro Caporetto) e populiste con venature putiniane (i 5stelle di Conte). E, dall’altro, sono convinto che se anche accadesse il sorpasso, con queste premesse il sinistra-centro procurerebbe al Paese non meno guai – di diversa natura, ma altrettanti – di quelli che gli sta procurando l’attuale maggioranza.
Sarebbe ora di disintossicarci dalla pratica perniciosa di subordinare il merito alla priorità della presa del potere. In un sistema sano, vincere, e dunque aggregare forze, è soltanto una delle precondizioni del governare, ma nel nostro scombiccherato sistema politico è stata ridotta al solo presupposto. L’unica cosa che conta è avere un voto in più degli avversari (pardon, nemici), dai quali si fa moralisticamente appello al Paese di salvarsi, e pazienza se l’unico collante è quello di essere “anti”. Peccato che così facendo tutte le coalizioni che vincono – con sempre meno voti, ma per questo si è trovato il rimedio del premio di maggioranza, un frutto quanto mai velenoso per la salute della democrazia – cascano alla prova del governo, o sfarinandosi o, peggio, rimanendo in piedi forzosamente per non perdere i privilegi che ne derivano. Sono ormai oltre trent’anni che lo sperimentiamo, tanto a destra come a sinistra, fino ad esserci autoconvinti che il bipolarismo forzoso sia nel nostro dna collettivo. Finché non ci libereremo di questo mostro, avremo sempre governi deboli e classi politiche di infima qualità. Non è che gli italiani non l’abbiano capito, ma hanno sperimentato due rimedi altrettanto fallimentari: taluni si sono illusi di supplire cercando l’uomo (o la donna) forte, ma oltre a non essere consigliabile, finora questa scorciatoia non ha portato da nessuna parte perché il baco del sistema è più grande di qualsiasi decisionismo, vero o presunto; altri hanno scelto la via dell’astensionismo consapevole, ma alla fine è un modo come un altro per arrendersi.
Si dice: finché non ci sarà una legge elettorale proporzionale non ci libereremo del mostro. Giusto. Sempre che sia autentica, però, perché quella di cui si sta (stra)parlando che assegnerebbe il 55% dei seggi alla forza o alla coalizione che arrivasse all’X% (si discute di quanto debba essere questa X), è tutto meno che proporzionale. Ma un sistema sano di voto non lo porta la Befana, occorre creare le condizioni politiche per poterlo avere. Come? Cercando convergenze trasversali rispetto alle due sponde del bipolarismo. Ne ha scritto in modo convincente l’ex segretario della Cisl, Raffaele Bonanni, che sul Riformista ha proposto “un patto tra riformisti, liberali e centristi” che hanno nei valori dell’Europa il loro minimo comun denominatore. Solo che occorre la scintilla, l’innesco che faccia partire il processo. E qui casca l’asino: i riformisti del Pd, tranne qualche lodevole ma isolata eccezione, soffrono di afasia persino dentro il loro partito, figurarsi a varcare il Rubicone; i liberali di Forza Italia mancano all’appello da troppo tempo; mentre i centristi si dividono per definizione, per cui se Renzi guarda a sinistra Calenda si strofina a destra, e viceversa.
Probabilmente serve qualche soggetto terzo – una forza culturale, un media – che faccia da aggregatore. Io ci ho provato, nel passato, e non ci sono riuscito. Ho appena compiuto 70 anni, ci vogliono energie più giovani (ma resto a disposizione). In mancanza, cioè fermo restando il sistema che abbiamo, ha ragione La Malfa: ben venga l’alternativa. Ma avrei detto la stessa cosa se al governo ci fosse la sinistra, sia chiaro. (e.cisnetto@terzarepubblica.it)
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