
Trump tifa Putin. E noi?
THE DONALD ABBANDONA KIEV E HA L’EUROPA COME NEMICO. ORA MELONI NON PUÒ PIÙ FARE IL DOPPIO GIOCO
di Enrico Cisnetto - 24 maggio 2025
Due espressioni vernacolari, la napoletana “cca' nisciuno è fesso” (“qui nessuno è stupido”) e la veneta “xe pèso el tacòn del buso” (“è peggio la toppa del buco”), meglio non potrebbero fotografare le vicende geopolitiche degli ultimi giorni su cui è assolutamente necessario fare chiarezza. La massima resa famosa da Totò è perfetta per descrivere la vera realtà del “dialogo” Putin-Trump alle spalle di Zelensky e dell’intera Europa. L’altra, che si usa quando qualcuno cerca di rimediare ad un errore peggiorando la situazione perché non vuole fare autocritica, calza a pennello per il tentativo della Meloni di “rientro”, via Vance, nella partita dei “volenterosi”, da cui si era assurdamente chiamata fuori. E, a ben pensarci, sono due facce della stessa medaglia.
Parliamoci chiaro: la cosiddetta trattativa di pace Russia-Usa-Ucraina è una gigantesca presa per i fondelli su scala planetaria. Lo è perché Putin non ha alcuna intenzione di fermare la guerra e fa solo finta di accondiscendere alla richiesta americana di porre fine al conflitto, ponendo condizioni inaccettabili e mettendo in atto tattiche dilatorie mentre continua a bombardare come e più di prima. Tanto da consentirsi di definire, per bocca del ministro degli Esteri Lavrov, “irrealistico” un incontro delle delegazioni russa e ucraina in Vaticano. Lo è perché a Trump dell’Ucraina frega meno di niente – e altrettanto dell’Europa – e perché è a dir poco scandalosa la sudditanza che il presidente americano mostra nei confronti dello Zar del Cremlino, cui non impone alcuna sanzione, anzi è incline a togliere quelle esistenti, neppure di fronte al diniego di concedere un minimo di cessate il fuoco. Tant’è vero che nelle due ore di telefonata sulla linea rossa Washington-Mosca, non solo non vi è stata alcuna pressione su Putin che Trump aveva lasciato intendere di voler esercitare, ma al contrario, il presidente americano ha dato la netta impressione di volersi tirare indietro dagli sforzi di pace, lasciando letteralmente allibiti i leader occidentali – a quanto è dato sapere, compresa la pur benevolente Meloni – che successivamente si sono collegati con la Casa Bianca. Sensazione rafforzata dalla scelta Usa, nel G7 dei ministri finanziari riuniti in Canada, di opporsi a ulteriori aiuti all’Ucraina. E, infine, è una presa in giro perché una trattativa di vera pace non potrà mai esserci, salvo un clamoroso calar di braghe al cospetto di Mosca, senza che ad essa partecipino a pieno titolo almeno l’Europa – quella di poco peso di Bruxelles o quella più pesante dell’asse franco-tedesco, importa relativamente – e la Gran Bretagna, se non anche gli altri paesi volenterosi extra continentali, Canada e Australia in primis.
Solo che mentre Putin gioca la sua partita – che solo gli stolti e i venduti non decrittano, perché è perfettamente leggibile – e mentre il fronte europeo-occidentale fa quel che può per arginare i russi nonostante la defaillanceamericana, il vero vulnus è quello rappresentato dal comportamento dell’inquilino della Casa Bianca. È evidente, infatti, che Trump vuole sfilarsi – della serie: è una questione europea, affari loro – lasciando ai belligeranti il compito di risolvere la questione. Una scelta che ha tre conseguenze, una peggiore dell’altra: legittima la Russia e il disegno putiniano di riedificazione dell’unione Sovietica; rischia di condannare a morte l’Ucraina, perché se è vero che fin qui abbiamo speso in aiuti militari più noi europei di quanto non abbiano fatto gli americani, togliere a Kiev quella parte di ombrello protettivo potrebbe rivelarsi letale; mette con le spalle al muro l’Europa, che sarà costretta a caricarsi sulle spalle un fardello pesante e dovrà prendere una posizione al limite della rottura con gli Usa dentro la Nato. Come ha scritto il Financial Times senza peli sulla penna “la tolleranza di Trump nei confronti di un leader russo che lo prende in giro da mesi rimane sconcertante. Ha ripetutamente minacciato di diventare duro, a meno che Putin non accetti un cessate il fuoco e non si presenti al tavolo dei negoziati, ma ogni volta si è tirato indietro. Così facendo, Trump gioca a favore di Mosca. Incoraggia Putin a continuare a combattere, proprio quando le forze russe hanno il sopravvento sul campo di battaglia”. Mi pare un giudizio più netto di quello del Washington Post, che ricordando una massima di Henry Kissinger intelligente ma inadatta al caso – “Il negoziatore che pensa di risolvere la disputa grazie alla sua posizione e personalità si ritroverà presto nel purgatorio speciale che la storia riserva a coloro che si misurano sulla base delle parole invece che sui fatti” – mostra di non comprendere che Trump ha già deciso di sfilarsi dalla partita, e lo fa per una precisa scelta di campo.
Il risultato di tutto questo è che mentre va in onda la sceneggiata dei colloqui di pace, Putin, come spiega bene Gianluca Di Feo su Repubblica, ha ordinato di creare una “zona cuscinetto” a protezione delle regioni russe di Kursk e Belgorod, il che significa occupare una fascia di territorio ucraino a ridosso delle città di Sumy e Kharkiv. Tanto che Kiev ha disposto l’evacuazione di 56 mila civili dalle località che rischiano di diventare campo di battaglia. Più in generale, la strategia putiniana è chiedere alle brigate di Mosca di scatenare ondate di piccoli assalti occupando nuove posizioni, grazie alla superiorità di uomini e droni. La pressione più massiccia è nel Donbass, dove i russi hanno rivendicato di avere raggiunto per la prima volta i limiti occidentali del Donetsk, ma il Cremlino non si fa scrupolo di mandare avanti il più possibile militari e mezzi senza curarsi delle perdite. Analisti ipotizzano che i russi abbiano risorse per proseguire almeno fino a settembre, mentre gli ucraini sono in condizioni decisamente peggiori. Altro che trattative di pace. Altro che la foto di Trump dal volto pieno di comprensione seduto davanti a Zelensky in Vaticano che sostituisce e cancella la vergogna delle immagini dell’imboscata alla Casa Bianca nei confronti del presidente ucraino. Almeno evitate di raccontarcela, questa storia, perché, appunto, “cca' nisciuno è fesso”.
Dunque, i paesi volenterosi, europei e non, devono partire dal presupposto che gli Stati Uniti si tireranno indietro. Se poi non accadrà tanto di guadagnato, ma quello che non si può fare è attendere gli eventi, perché i tempi di reazione non sono immediati e quello iato che intercorrerebbe tra l’effettiva constatazione del disimpegno americano e la contromossa europea potrebbe rivelarsi fatale per Zelensky e il suo martoriato paese. Questo significa, da un lato, agire da subito e rapidamente per predisporre e attuare piani che assicurino un flusso continuo di armi a Kyiv anche supplettivo di quello statunitense, ma significa anche finanziare l’espansione dell’industria militare ucraina e, se necessario, acquistare armi americane. E dall’altro, significa inasprire la stretta delle sanzioni sull’economia russa, a cominciare dal prezzo delle esportazioni di petrolio, che è la principale fonte di sostegno per l’economia di guerra, il cui tetto massimo va decisamente abbassato. E per rendere effettiva la misura, va definitivamente bloccata la flotta di petroliere “ombra” usate dai russi per aggirare le sanzioni. Naturalmente è sperabile che la Casa Bianca alla fine aderisca a questa linea di condotta, ma se come credo e temo così non sarà, è bene agire politicamente sui repubblicani del Senato americano che restano anti-Russia nonostante Trump – ce ne sono, ma hanno bisogno di una sponda – in modo che il Congresso agisca motu proprio se la presidenza sarà sfacciatamente filo Putin fino in fondo.
Ma se questi sono giorni cupi per l’Ucraina che si vede definitivamente tradita da Trump, sta agli altri suoi amici – nel Congresso Usa e nelle capitali occidentali – mantenere le promesse di sostegno a Kiev, evitandole la catastrofe. E qui si vedrà, senza più possibilità di infingimenti e doppi giochi, chi sta con chi. Sia nei confronti dell’Ucraina – verso la quale, almeno a parole non sembrano esserci defezioni – ma anche e soprattutto nei confronti degli Stati Uniti. Finora è stata l’Italia a giocare, ambiguamente, una partita doppia. Sopravvalutando le possibilità che Meloni potesse “governare” Trump inducendolo a più miti consigli, e sottovalutando la reazione delle cancellerie europee, Parigi e Berlino in testa, a questo gioco o non concordato o in parte stabilito d’intesa con la sola von der Leyen (che accetta perché si sente debole rispetto a Macron e Merz, tanto più ora che hanno l’inglese Starmer dalla loro). Poi Meloni si è accorta di aver commesso un grave errore a tenersi fuori, per sua scelta e non per ostracismo altrui, dal club dei volenterosi, e così ha cercato di rimediare facendosi riammettere su pressione americana (Vance e indirettamente Trump) in occasione dell’ultima consultazione telefonica euro-atlantica.
Ed è qui che viene alla mente l’adagio “xe pèso el tacòn del buso”. Perché da un lato questa conversione sulla via di Damasco è stata tentata senza un minimo di autocritica, che invece le avrebbe dato credibilità, e dall’altro perché ai partner la sponsorizzazione del duo della Casa Bianca è piaciuta quanto un dito negli occhi. In tutti i casi, l’ultima intemerata di Trump sui dazi è destinata a tagliare la testa al toro. Nonostante la retromarcia di qualche settimana fa – a conferma di quanto ho scritto qui la settimana scorsa (vedi link a TerzaRepubblica del 17 maggio) sull’inaffidabilità di The Donald anche e soprattutto quando cambia idea – ieri se n’è uscito annunciando dazi del 50% sull’Unione Europea a partire dal primo giugno perché a suo giudizio “le discussioni con l’Ue non stanno andando da nessuna parte". Scelta, o minaccia che sia, condita dalle solite gentilezze nei nostri confronti (“è molto difficile avere a che fare con l’Ue, formata con l’obiettivo di approfittarsi degli Stati Uniti sul commercio”), che ha subito fatto crollare le borse (solo in quelle europee bruciati 183 miliardi di capitalizzazione).
Ora sarà dura per chiunque continuare a praticare la doppiezza, palazzo Chigi ci rifletta bene. Anche perché i segnali pro europei che sono arrivati dalla scorsa domenica elettorale, rischiano di isolare ancora di più l’Italia. Come era già stato in Germania a febbraio, l’alta affluenza in Romania, Polonia e Portogallo si è confermata l’argine più sicuro all’avanzata in Europa delle forze sovraniste e populiste, specie di estrema destra. Il dato più significativo e confortante è quello giunto dalla Romania, dove con l’affluenza più alta degli ultimi trent’anni il sindaco di Bucarest, l’europeista Dan ha battuto l’ultranazionalista Simion (amico di Salvini e Meloni), ribaltando clamorosamente l’esito del primo turno, che aveva visto 2 milioni di votanti in meno. Una mobilitazione senza precedenti, quella di Bucarest, dopo l’annullamento del voto di novembre, annullato per sospetti di brogli ed ingerenze russe, che aveva visto prevalere l’estremista filo-putiniano Georgescu. Così il voto di domenica scorsa si è trasformato in un referendum sulla collocazione geopolitica della Romania, e dovendo scegliere tra Russia e Unione europea, la maggioranza dei rumeni non ha avuto dubbi a fare la scelta europeista.
L’altra buona notizia in chiave europea è arrivata dalla Polonia, dove al primo turno delle presidenziali il testa a testa tra il liberale filoeuropeo Trzaskowski, alleato dell’attuale premier Tusk, e il nazionalista Nawrocki, si è concluso con il primo in vantaggio, seppure minimo. Anche in questo caso l’affluenza è stata la più alta delle ultime elezioni, e vedremo se crescerà ancora al ballottaggio, che sarà decisivo per l’Europa, considerato che il governo centrista e filoeuropeo di Tusk ha accresciuto il peso di Varsavia sia a Bruxelles che all’interno della coalizione dei volenterosi.
Infine, il Portogallo. Anche qui le elezioni hanno registrato il dato di affluenza più alto degli ultimi anni, utile per sancire la vittoria del centrodestra del primo ministro uscente Montenegro, ancorato al Ppe. Per una manciata di seggi non ha ottenuto i numeri per essere maggioritario in Parlamento ma ha pur sempre arginato i populisti di destra di Chega, la versione portoghese della spagnola Vox. Un’affermazione importante in chiave europea, e che tanto più lo sarà se nel tentativo di trovare accordi con le forze di opposizione Montenegro si indirizzerà, come sembra, verso una soluzione alla tedesca alleandosi con i socialisti.
Insomma, la domenica elettorale ci ha regalato le affermazioni, trainate dall’affluenza, di forze e leadership europeiste, a conferma della resilienza dell’Europa che, nonostante i suoi limiti ed errori, mantiene una forte capacità di catturare le opinioni pubbliche continentali a dispetto della costante (e non disinteressata) opera di denigrazione che i suoi nemici interni ed esterni mettono massicciamente in atto. E a dimostrazione del cambiamento epocale nella composizione socio-politica dell’astensionismo, ormai svuotato della storica componente qualunquista – che ha trovato nei partiti populisti e nazionalisti una rappresentanza – oggi rimpiazzata da quelli che ho definito “astenuti consapevoli”, cioè quei cittadini che in assenza di proposte politiche all’altezza evitano di votare turandosi il naso, ma che di fronte al pericolo di una deriva autoritaria o di un allontanamento dall’Europa, tornano alle urne e diventano decisivi. È dunque questa la vera chiave per dire addio al sovranismo: ridare centralità agli elettori di sicura fede democratica e di chiara inclinazione europeista, che per delusione e non per disinteresse, nel recente passato hanno disertato le urne, spiegando loro con franchezza e coraggio i pericoli che i loro paesi e l’Europa corrono, tra le ambizioni neo-sovietiche di Putin e il tradimento della solidarietà euro-atlantica di Trump. Moderati e riformisti italiani di entrambe le sponde del nostro fallimentare bipolarismo, prego riflettere. (e.cisnetto@terzarepubblica.it)
L'EDITORIALE
DI TERZA REPUBBLICA
Terza Repubblica è il quotidiano online fondato e diretto da Enrico Cisnetto nato nel 2005 dall'esperienza di Società Aperta con l'obiettivo di creare uno spazio di commento indipendente e fuori dal coro sul contesto politico-economico del paese.