
Il mondo affida le speranze a Leone XIV
INDIA-PAKISTAN, GAZA, PUTIN&XI I PERICOLI SI MOLTIPLICANO MENTRE IL CONCLAVE ELEGGE IL PRIMO PAPA AMERICANO (NON TRUMPIANO)
di Enrico Cisnetto - 10 maggio 2025
Mentre alle latitudini italiane l’autolesionismo continua a farla da padrone, il mondo intero teme, più di ieri, la “terza guerra mondiale”, e affida le proprie speranze di pace ad un “americano a Roma”, che non è Trump bensì il nuovo Papa, Leone XIV.
Ovunque, si guarda attoniti al nascere di un potenziale conflitto tra India e Pakistan, ingaggiati in una faida antica di decenni per la contesa di un angolo di paradiso in Terra, il Kashmir. Lo scontro, per ora, è limitato e sta nel perimetro delle armi convenzionali, ma il timore è che degeneri in una guerra nucleare, visto che entrambi i paesi detengono armi atomiche. Senza contare che anche la Cina ha una frontiera su quel territorio, e che le relazioni tra Nuova Delhi e Pechino fin dall’annessione del Tibet da parte cinese nel 1950 e dalla successiva guerra sino-indiana del 1962, non sono tanto migliori, nonostante qualche momento di distensione e cooperazione, di quelle che intercorrono tra il paese guidato da Modi e la repubblica islamica con capitale Islamabad.
Poi, nel mondo ci si preoccupa per gli sviluppi dell’intervento israeliano a Gaza e alla minaccia di Tel Aviv di replicarlo in Iran. E questo proprio mentre Trump – alla vigilia del suo viaggio nei paesi del Golfo con l’intento di spegnere, per puro interesse economico sia chiaro, i focolai che incendiano quell’area – sembra voler attenuare la copertura americana alla politica di Netanyahu. Il quale intende distruggere Hamas una volta per tutte, ben sapendo che non trattandosi di un’organizzazione militare ma di una milizia che si confonde tra la popolazione palestinese usandola come carne da macello, per farlo occorre andare ben al di là dei 50mila morti e della devastazione di un territorio già praticamente raso al suolo. Ci si attacca alla speranza suscitata dai moti di ribellione verso Hamas della popolazione ormai ridotta alla carestia, che hanno indotto persino il vecchio e fin qui colpevolmente silente Abu Mazen, presidente dell’Autorità nazionale palestinese, ad attaccare i terroristi definendoli “figli di cani” e intimando loro di lasciare Gaza e liberare gli ostaggi israeliani (quei pochi ancora vivi). Ma è speranza flebile, come è emerso nella War Room di giovedì 8 maggio (qui il link), e ahimè lascia inevasa la domanda: è possibile sconfiggere Hamas, come è giusto che sia, senza aggravare ulteriormente le già drammatiche condizioni del popolo palestinese? Quesito reso ancora più inquietante dal giudizio, che io condivido totalmente, dello storico israeliano Benny Morris, che dice: “Netanyahu è un disastro, è il peggior primo ministro di Israele di sempre, ma su due cose ha ragione, Hamas e il nucleare iraniano”.
E ancora il mondo s’interroga – forse non abbastanza – su quanto “dangereuse” per le democrazie occidentali sia quella “liaison” tra Putin e Xi Jinping plasticamente vista nella Piazza Rossa di Mosca in occasione delle celebrazioni dell’80mo anniversario della vittoria sovietica contro le armate naziste, a suggellare “un’amicizia d’acciaio che ha superato cento prove del fuoco” (secondo la definizione del leader cinese). Un’occasione per Putin di mostrare in mondovisione che c’è una parte del pianeta, quella delle autocrazie, che sta con la Russia, anche se si permette persino di violare l’inutile tregua di 72 ore indetta unilateralmente proprio dal Cremlino, continuando ad attaccare spudoratamente l’Ucraina. E un’occasione per Xi per mandare un messaggio alla Casa Bianca del tipo “è inutile che provi a separarci, Cina e Russia hanno un rapporto privilegiato inscalfibile”.
Al tempo stesso, il mondo confida di poter affidare il suo destino, mai così incerto, al primo Pontefice statunitense della storia, ma non in odore di trumpismo. È presto per esprimere un giudizio compiuto sull’indirizzo politico di Leone XIV e il peso che avrà nelle dinamiche planetarie. Tuttavia, la sua storia personale, l’affiliazione a Sant’Agostino e le prime parole che ha pronunciato inducono a pensare che – sempre sul piano politico, non è questa la sede per valutazioni relative alla dimensione teologica e pastorale – che si tratti di un uomo colto e cultore della complessità, quindi per nulla incline, diversamente dal suo predecessore, al populismo e alla semplificazione banalizzante. La pace universale è e resta la stella polare, ma perseguirla concretamente richiede la consapevolezza che non basta invocarla, perché ci sono politiche – anche militari – che vanno in quella direzione e altre, magari finto-pacifiste, che percorrono la strada opposta. Per capirci, è sperabile che Leone, al contrario di Francesco, non chieda a un popolo invaso e minacciato nella sua sovranità, come quello ucraino, di “alzare bandiera bianca”. E se così sarà, il suo contributo ad una “pace giusta” e non purchessia, si rivelerà prezioso. E avrà ragione chi ha accolto la sua elezione dicendo che “Prevost sta a Trump e Putin come Wojtyła stava al Cremlino” (sulla dimensione geopolitica di Leone XIV si veda la War Room di ieri, venerdì 9 maggio, qui il link).
Insomma, questioni epocali. Al cospetto delle quali, ci sono buone ragioni per relegare nella soffitta delle cose inutili i piccoli mal di pancia della politica italiota. Dalle ambizioni geopolitiche più grandi di lei della presidente del Consiglio ai pruriti sovranisti e bancari di Salvini, dal tentativo di “landinizzare” il Pd via referendum, con la conseguenza di inchiodare alla definitiva marginalità la sinistra, al disperato tentativo di Conte di mantenere in vita il populismo in salsa pentastellata, mettendolo al servizio del putinismo, proprio mentre in Occidente per fortuna il vento è cambiato, come dimostrano le straordinarie vittorie elettorali di Carney in Canada e di Albanese in Australia. Figlie, queste come le elezioni tedesche di febbraio che hanno fermato l’ascesa al potere dei neonazisti di Afd, di una grande affluenza alle urne. Segno di un felice sussulto della coscienza democratica di tanti cittadini.
Ecco, in Italia, dove si sono raggiunti livelli minimi di affluenza al voto davvero preoccupanti non fosse altro per la bassa legittimazione politica (quella giuridica non è in discussione) di chi è eletto, se si pensa di riconquistare alla partecipazione gli astenuti con quanto sta passando il convento, ci si sbaglia di grosso. Da un lato si criminalizza moralmente chi decide di esprimere il suo dissenso alle ragioni dei referendum astenendosi, mentre è cosa del tutto legittima per come sono regolate le consultazioni popolari – basso il numero delle firme di convocazione, alto il quorum da raggiungere – e che anzi io consiglio di praticare (nelle prossime settimane ne parlerò più approfonditamente, ma fin d’ora non ho remore a dire che personalmente ai referendum dell’8 e 9 giugno voterò Sì al quesito sulla cittadinanza e non ritirerò le schede per i quattro quesiti sui temi del lavoro, considerando l’astensione il modo più efficace per esprimere il mio No). Dall’altro lato, s’intende proporre, come sembra voglia fare il governo o comunque Fratelli d’Italia, una legge elettorale che si definisce proporzionale ma poi introduce un premio di maggioranza per la coalizione che raggiunge il 40% dei consensi, che le consente di ottenere il 55% dei seggi. Ebbene, potete stare certi che con questi sistemi si otterrà l’effetto esattamente opposto a quello auspicato, inducendo un numero sempre maggiore di elettori (ormai siamo a oltre la metà) a restare a casa.
L’impressione è che da noi – ed è cosa che non riguarda solo la politica – ci sia uno stacco netto tra la percezione della realtà che ci circonda, che dovrebbe indurci a riflessioni profonde e orientarci a scelte coraggiose, e gli orientamenti che si manifestano. Prendiamo le reazioni – stupide – che ha suscitato il fatto che in Germania il nuovo cancelliere Merz abbia inaugurato il suo mandato con una vistosa macchia sul vestito, quella di essere stato eletto solo alla seconda votazione perché impallinato nella prima da un manipolo di franchi tiratori, anzi di “Franz tiratori”, come nelle sceneggiature italiote. Una cosa senza precedenti in Germania, che ha fatto godere molti in Italia, all’insegna del “mal comune” o, peggio, del “mors tua vita mea”. Come se quel che accade a Berlino fosse cosa che non ci riguarda o addirittura che ha a che fare con un paese nemico. Un sentimento scioccamente provinciale sempre, ma che per molti versi diventa autolesionista nella specifica circostanza. Intanto, perché fa passare in secondo piano il fatto che il nuovo cancelliere abbia prontamente smacchiato la patacca con un fulmineo viaggio a Parigi come primo atto del suo mandato, che gli ha consentito di rianimare il vecchio asse franco-tedesco, assolutamente decisivo per l’Europa in una fase in cui gli Stati Uniti di Trump mettono in discussione le fondamenta della solidarietà euro-atlantica.
Noi, da un lato, dovremmo tifare e gioire per la sintonia tra Parigi e Berlino, e dall’altro sarebbe logico che riflettessimo sull’opportunità di agganciare Roma a quell’asse, premessa per acquisire credibilità in Europa e un ruolo primario nella “coalizione dei volenterosi”, anziché inseguire la chimera della “very special relationship” con l’America di Trump, del tutto effimera oltre che controproducente. Invece, per un verso coltiviamo un’avversione che risparmia ben pochi (io tra questi) verso Macron, manco fosse uno Zidane che ci attacca a testa bassa, fino ad arrivare alle puerili gelosie per il ruolo che il presidente francese si è conquistato nelle dinamiche geopolitiche. E per l’altro verso, ci ritroviamo a darci di gomito per l’inciampo di Merz, senza comprendere che tutto ciò che danneggia la credibilità tedesca è un danno per l’intera Unione europea, e dunque anche per noi. Arriviamo a compiacerci della crisi economica che mina le fondamenta del modello di sviluppo plasmato da Angela Merkel, fatto di alti surplus commerciali ed energia a basso costo reperita soprattutto dalla Russia – un modello che prima Putin con la guerra in Ucraina e la Cina con la concorrenza sull’automotive, e ora i dazi di Trump, hanno messo irrimediabilmente in discussione – senza cogliere il nesso che c’è tra lo sforzo che la Germania deve compiere e il nostro interesse di paese che più di ogni altro è dotato delle filiere che si collegano alle industrie tedesche.
Dovremmo compiacerci che Merz, seppur da cancelliere in pectore, abbia avviato scelte di portata storica, come la modifica costituzionale che ha posto la parola fine al mito tedesco dell’austerità, stabilendo la deroga al tetto per l’indebitamento per le spese militari e di difesa, e il piano da quasi mille miliardi (tutti a debito) per il riarmo e le infrastrutture. Decisioni prese senza colpo ferire, da parte sia della politica che dei media e della pubblica opinione, nonostante l’evidente forzatura di far votare il vecchio Bundestag (l’unico con cui raggiungere la maggioranza di due-terzi indispensabile per le riforme costituzionali) due giorni prima del suo scioglimento. Invece, sottovalutiamo o addirittura critichiamo questo decisionismo, preferendogli subdolamente la fragilità manifestata dal voto dei “Franz tiratori” (vedi la War Room di mercoledì 7 maggio, qui il link).
La verità è che ci manca quello che Davide Giacalone ha felicemente chiamato “il senso del pericolo”. Non guardiamo, né tantomeno studiamo, quel che accade intorno a noi, e la conseguenza è che non cogliamo la discontinuità rispetto alle certezze di un tempo, belle o brutte che fossero, cui la storia ci sta sottoponendo. È venuto il tempo di aprire gli occhi, e il cervello. Prima che sia troppo tardi. (e.cisnetto@terzarepubblica.it)
L'EDITORIALE
DI TERZA REPUBBLICA
Terza Repubblica è il quotidiano online fondato e diretto da Enrico Cisnetto nato nel 2005 dall'esperienza di Società Aperta con l'obiettivo di creare uno spazio di commento indipendente e fuori dal coro sul contesto politico-economico del paese.