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L'editoriale di TerzaRepubblica

Una speranza dal Canada

LA VITTORIA DEL LIBERALE CARNEY E RIACCENDE LE SPERANZE DI BATTERE IL POPULISMO IN CHIAVE TRUMPIANA (MESSAGGIO PER L’ITALIA)

di Enrico Cisnetto - 03 maggio 2025

Finalmente una buona notizia! Dal Canada arriva il primo vero altolà politico, di valore planetario, a Donald Trump e alla sua deriva autoritaria. La clamorosa vittoria del liberale Mark Carney sul conservatore Pierre Poilievre, di stampo semi-trumpiano, che nei pronostici fino a poche settimane prima del voto erano separati da oltre 20 punti percentuali a favore del secondo (che ha persino perduto il seggio che deteneva da vent’anni), rappresenta una chiara risposta alle ingerenze della Casa Bianca, che ha ripetutamente minacciato l’indipendenza di Ottawa esprimendo l’intenzione di annettere il Canada e farlo diventare il 51simo stato americano. Mire imperiali ribadite sui social anche a urne aperte, toccando livelli di interferenza nella sovranità altrui davvero inaccettabili per chi crede nella democrazia. Ma è proprio attraverso l’atto democratico per eccellenza, il voto, che i canadesi hanno risposto con un fortissimo “no pasaran”, ribaltando un esito che sembrava già scritto, scegliendo chi ha detto parole inequivocabili sulla politica di Trump, dai dazi alle minacce di annessione. Ed eleggendo – seppur con una maggioranza risicata che obbligherà i Liberali a trovare alleati in Parlamento – una figura sideralmente lontana dalla spocchia trumpiana. Carney, infatti, è l’anti-Trump per eccellenza: ex banchiere centrale, si è coraggiosamente messo in gioco candidandosi a guidare il suo Paese dopo le dimissioni di Justin Trudeau. Forte di un’esperienza e di una credibilità internazionale maturata prima alla guida della Banca del Canada e poi, caso unico nella storia, anche di un’altra banca centrale, quella d’Inghilterra – tra l’altro nel delicato periodo di transizione post Brexit – Carney ha vinto malgrado, o forse proprio per questo, un profilo che alcuni hanno descritto come “grigio”, molto lontano dal fascino glamour del suo predecessore. I canadesi hanno visto in lui la competenza adeguata e la determinazione adatta a domare Trump e fronteggiare la guerra commerciale, che vede il Canada tra i bersagli più duramente colpiti da Washington.  

Ma, quel che più conta, la vittoria di Carney va ben al di là della specifica vicenda canadese e il rapporto bilaterale con gli Stati Uniti, sia per gli effetti globali che è destinata ad avere sia per gli insegnamenti che offre, specie a noi italiani. Intanto, l’elezione dell’ex banchiere centrale, proprio perché basata sul consenso popolare – morale della favola: i banchieri centrali sono straordinarie riserve istituzionali qualora si rendano disponibili ad assumersi i rischi di scendere nell’agone politico mettendosi al servizio di un partito, e non giocando in proprio – rappresenta una straordinaria risposta alle forzature autocratiche del presidente americano, capace di sostanziare un’opposizione internazionale tutta interna al mondo occidentale nei confronti della politica imperiale della Casa Bianca. Essa è al tempo stesso il rafforzamento politico della “coalizione dei volenterosi” – con la creazione di una nuova modalità di cooperazione, a fianco di quella promossa da Gran Bretagna, Francia e Germania, che guarda al puntellamento dell’esistenza stessa dell’Occidente, minacciata da Trump nel momento in cui ha messo in discussione, anche in modo volgare, la quasi centenaria solidarietà euro-atlantica – e l’irrobustimento delle relazioni politiche, commerciali ed energetiche con l’Unione Europea. Non è un caso che le prime e più calde congratulazioni a Carney siano arrivate da Starmer, Macron e Merz così come da von der Leyen e Zelensky. E non va sottovalutato il fatto che il Canada fa parte della Corona Britannica (come è emerso nell’interessante War Room di mercoledì 30 aprile, qui il link), e questo consentirà a Carney di stabilire un asse di ferro con il premier inglese. Che è il leader che più si sta impegnando a formare – faticosamente ma con la necessaria determinazione – un nuovo Occidente, policentrico e privo di chi pretenda di comandare. E le elezioni canadesi rappresentano una formidabile spinta a questo progetto, anche perché il neo premier canadese aggiungerà un plus di competenza, coraggio e lungimiranza di cui si sente molto il bisogno in un passaggio così complicato della nostra storia. Qualità che io stesso gli avevo attribuito in tempi non sospetti, scrivendo di lui su TerzaRepubblica in due circostanze, in entrambi i casi nella sua veste di Governatore della Banca d’Inghilterra: nel 2015, quando si era spinto, pur non essendo certo un facinoroso ultrà ecologista, ad usare parole terribili a proposito dei mutamenti climatici, calcolando in termini di penalizzazione del pil globale le catastrofiche conseguenze dello scongelamento dei ghiacciai, della desertificazione di interi territori e dell’innalzamento dei livelli del mare; nel 2016, quando non esitò a definire un errore, e non solo per la Gran Bretagna, la scelta della Brexit. 

Di quanto sto dicendo se ne avrà un assaggio già a metà giugno, quando in Alberta si svolgerà il prossimo vertice del G7, la cui presidenza sarà nel frattempo passata in mano proprio al Canada di Carney. Come ha fatto notare l’ambasciatore Stefanini, nei dieci giorni successivi al G7 ci saranno anche il vertice Nato dell’Aja (24-25) e il Consiglio europeo: un trittico di incontri planetari che potrà mettere un punto fermo nella confusione ingenerata da Trump, sia sul fonte dei dazi (pochi giorni dopo, il 7 luglio, termineranno i 90 giorni di parziale sospensione delle nuove tariffe imposte dagli Usa), sia per quanto riguarda il conflitto russo- ucraino. Il presidente americano si troverà di fronte una presidenza del “governo mondiale” per nulla compiacente – nonostante la formale cordialità del rapporto, il leader canadese ha paragonato Trump al cattivo dei libri di Harry Potter: “I commenti ridicoli e offensivi del presidente Usa mi fanno pensare che farà la fine di Voldemort” – e sappiamo quanto tenga alla riverenza altrui e come facilmente scambi la fermezza nei suoi confronti come ostilità.

Inoltre, c’è da scommettere che The Donald patisca il fatto di dover avere a che fare con un illustre banchiere centrale che dispone di un orizzonte personale (60 anni Carney, Trump 79 anni il 14 giugno) e istituzionale (2029 contro 2028) più lungo, e che non gli lesinerà lezioni di economia (a proposito, la tesi per il suo dottorato di ricerca a Oxford, Carney la fece sul valore benefico della concorrenza, perché essa e non il protezionismo commerciale rende un’economia più competitiva). E questo proprio mentre Trump da fuoco alle polveri contro il suo governatore, Jerome Powell, uno dei pochi che rimanendo a capo della Federal Reserve nonostante le ripetute richieste di dimissioni accompagnate da improperi, ha dimostrato di essere in grado di resistere all’autoritarismo del Presidente.

Si dice che Trump, con le sue intemerate, abbia involontariamente messo a Carney la vittoria su un piatto d’argento. È vero, il voto canadese è stato una sorta di referendum contro Trump e il suo modo di trattare alleati e partner commerciali. Come, seppure in misura meno evidente, lo era stato il voto di febbraio in Germania (un mese dopo il ritorno del tycoon alla Casa Bianca), elezioni che si erano svolte solo una settimana dopo il violento discorso di Monaco del vicepresidente Vance contro l’Europa e che aveva visto le pesanti interferenze di Musk a favore dell’estrema destra di Afd. Ma questa giusta osservazione non sminuisce il valore dei risultati elettorali conseguiti dai liberali canadesi e dai popolari tedeschi (in entrambi i casi a fronte di una forte affluenza alle urne: il 68,5% in Canada, la più alta dal 1993, e addirittura dell’82,5% in Germania), semmai ci dice come abbia ragione il New York Times a scrivere che “la politica di Trump si rivela tossica per i conservatori di altri paesi, specie se questi ultimi vengono percepiti come troppo allineati al suo stile ideologico e retorico”.

Tra l’altro Carney non è un affabulatore trascinatore di folle, ma questo dimostra un’altra cosa importante: che potremmo trovarci di fronte (il condizionale è prudenza opportuna) all’inizio della fine della lunga e rovinosa stagione del populismo. Grazie al rialzarsi della testa della maggioranza (troppo) silenziosa che alberga in tutti i paesi autenticamente democratici, cioè di quell’insieme di cittadini pragmatici ma non per questo agnostici nei confronti dei precetti della democrazia, composto da un lato da moderati ma liberali e comunque non destrorsi, e dall’altro da riformisti che rifuggono da una sinistra ideologica e massimalista. Antonio Polito sul Corriere l’ha definito “il ritorno del centro”. Vero, nella misura in cui con ciò s’intenda non banalmente il luogo ove ci si rifugia per paura delle forzature estreme, ma quello di chi – riconoscendosi nelle storiche famiglie politiche del Novecento (liberaldemocratici, popolari, socialdemocratici) che non sono superate e consunte perché tali non si sentono – capisce che i cambiamenti epocali che stiamo vivendo richiedono le virtù del coraggio e della perizia, non il vizio della demagogia e dell’incompetenza. Per esempio, la risolutezza dimostrata da Cdu-Csu e Spd nel mettersi insieme, nel fare un governo sfornato in poche settimane (rispetto agli abituali tempi lunghissimi) e nel decidere due cose fondamentali come il cambiamento della Costituzione sul tema tabù del debito pubblico e la richiesta a Bruxelles di deroga ai vincoli del Patto di stabilità per avviare gli investimenti nell’imponente piano di riarmo del paese. 

La mossa di Berlino, prima capitale ad attivare per spese nella difesa la “clausola di salvaguardia” prevista dalla nuova governance Ue, che vale un’esenzione fino a un massimo di un punto e mezzo di pil all’anno per quattro anni, sta per essere replicata da diversi altri paesi europei (Polonia, Portogallo, Slovenia, Belgio, Bulgaria) ma non dall’Italia nonostante che nell’oro, incenso e mirra portati da Meloni a Washington ci fosse la garanzia che l’Italia avrebbe messo mano al portafoglio per investimenti militari. Un non pervenuto che non è il diniego della Spagna, che ha fatto sapere di non voler attivare la clausola perché ha un contro piano per finanziare il riarmo (creare il Med, cioè un “meccanismo europeo per la difesa” che prevede acquisti congiunti, con uso di debito comune, attraverso un veicolo creato da un accordo intergovernativo simile a quello del Mes). Semplicemente riflette la profonda spaccatura dentro la maggioranza di governo, con Salvini (spalleggiato da Giorgetti, preoccupato dei conti pubblici) che continua a sparare palle incatenate contro il ReArm definendolo una follia, peraltro senza spiegare come sia conciliabile questa posizione con il suo filo trumpismo (forse perché il suo filo putinismo è ancora più forte?), e Tajani che è su posizioni opposte. Quanto questa contraddizione, che ritroviamo in modo speculare nelle opposizioni e dentro il Pd, possa continuare semplicemente grazie all’ambiguità di Meloni e del suo partito che restano a metà strada tra i due fronti, continuando perennemente a dare un colpo al cerchio e un altro alla botte, credo sarà il tema politico italiano dei prossimi mesi. Nei quali la tanta “Carney al fuoco” del riassetto geopolitico mondiale imporrà di scegliere anche a chi preferisce svicolare e tirare a campare. Sarà un caso che i rallegramenti del governo al neo premier canadese, pur istituzionalmente impeccabili, sono sembrati politicamente miseri e decisamente poco convinti? Forse dalle parti di palazzo Chigi farebbe bene alla salute leggere l’editoriale di Edward Luce sul Financial Times in cui si dicono due verità sacrosante – “l’obbedienza ha un costo: non solo Trump disprezza i cortigiani, ma si dà da fare per umiliarli” e “Trump è dannoso per i trumpiani” – e si profetizza che “se Harris avesse scaricato Biden con la stessa prontezza con cui Carney ha fatto fuori Trudeau, forse avrebbe sconfitto Trump”. Già, il vento è cambiato, ora anche i non populisti possono vincere le elezioni. (e.cisnetto@terzarepubblica.it)

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