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L'editoriale di TerzaRpeubblica

Questione lavoro

AI LAVORATORI NON SERVONO NÉ I BONUS LAVORO (ALTRI SOLDI MAL SPESI) NÉ I MASSIMALISMI SINDACALI

di Enrico Cisnetto - 04 maggio 2024

Errare humanum est, perseverare autem diabolicum. Sono mesi che si attribuiscono tutte le disgrazie della nostra malconcia finanza pubblica al superbonus edilizio 110%, con quasi tutte le forze politiche che fanno finta di non averlo unanimemente votato e reiterato nel tempo, ed ecco che magicamente dal cilindro del governo escono altri bonus, tra cui un altro superbonus, questa volta per le imprese che assumono: addirittura del 120% per tutte le assunzioni a tempo indeterminato e al 130% per chi ingaggia lavoratori “svantaggiati” (giovani ammessi agli incentivi dell’occupazione giovanile, donne di qualsiasi età con almeno due figli minorenni, vittime di violenza o disoccupate da almeno 6 mesi, ecc.). E questo, peraltro, in un momento in cui le aziende faticano a trovare manodopera e dunque non hanno alcun bisogno di essere incentivate. Tant’è vero che gli ultimi dati sull’occupazione ci dicono che scende la quota di lavoro a tempo determinato e sale quello a tempo indeterminato, ma tant’è. Ecco un altro bonus lavoro, per le assunzioni senza scadenza di giovani, donne e al Sud. Poi ci sono i bonus per aziende in crisi, gli incentivi all’autoimprenditorialità, fondi da 30 a 50 mila euro per l’acquisto di beni per l’avvio di attività. E poi, via, vogliamo dare qualcosa anche ai dipendenti? Certo, siamo alla viglia delle elezioni europee, non si dica che siamo micragnosi: ecco il cosiddetto bonus tredicesima (100 euro una tantum destinate a che ha un reddito di lavoro dipendente non superiore a 28.000 euro, con coniuge e/o almeno un figlio a carico), ribattezzato bonus Befana perché arriverà a gennaio in modo da gravare sul bilancio 2025. Il tutto approvato dal Consiglio dei ministri nella simbolica giornata del primo maggio, così da celebrarlo per bene.

Insomma, invece di fare ammenda per aver portato alla incredibile cifra di 620 il numero dei tipi di bonus esistenti (nel 2016 erano 400) – pari all’esorbitante costo di 150 miliardi, di cui 80 per le sole detrazioni dall’Irpef, che nel 2023 sono aumentate di quasi un quinto rispetto all’anno precedente – ecco una pioggia di nuovi piccoli e grandi vantaggi, a conferma che l’unica linea di politica economica che conosciamo è quella della spesa pubblica senza limiti. E questo proprio mentre si fanno i conti di quanto ci costerà (circa 13 miliardi all’anno per sette anni) la manovra di rientro da deficit e debito eccessivo che inevitabilmente Bruxelles ci imporrà di fare, alla luce dell’entrata in vigore del nuovo patto di stabilità Ue che il governo ha approvato una settimana dopo che al Parlamento europeo i partiti della maggioranza si erano astenuti con il conforto del Pd, certificando l’inaffidabilità dell’Italia alla vigilia della formazione dei vertici delle istituzioni comunitarie. E proprio mentre ci si domanda dove trovare le risorse (20 miliardi) per confermare anche l’anno prossimo i vantaggi fiscali concessi quest’anno (vedi la War Room di giovedì 2 maggio con Bruni, De Romanis e Messori, qui il link). 

Tra l’altro, la cosa che più fa girar le scatole di questa “perseveranza diabolica” è che nel praticarla non solo non c’è un briciolo di lungimiranza, ma neppure alcuna furbizia, perché i bonus non assicurano la rendita politica che muove la magnanimità degli elargitori. Infatti, se l’intento è, come pare evidente anche agli orbi, di acquisire quel bene sempre più scarso che è il consenso elettorale, le sconfitte di tutti coloro che hanno messo mano al portafoglio pubblico, a cominciare da Renzi con i suoi 80 euro netti in busta paga, che pure in questi dieci anni (era il maggio 2014 quando li introdusse) hanno fatto (cattiva) scuola, dovrebbero insegnare che, come ha scritto efficacemente Davide Giacalone, la gratitudine elettorale va a chi ne promette degli altri, non a chi li assegna. Anche perché nel frattempo gli italiani si sono accorti che sotto il titolo roboante del più soldi o più sgravi per tutti, emergono talmente tante limitazioni (solo lavoratori dipendenti, con coniuge e figli a carico, che abitano nelle zone depresse, e così via) – necessarie per evitare che il costo finale sia esagerato anche per bilanci dello Stato abituati al rosso che più rosso non si può – da restringere assai la platea dei beneficiati. Con ciò creando discriminazioni sociali profonde, visto che tra gli esclusi c’è sicuramente chi è più bisognoso di molti dei gaudenti.

Se poi la (tossica) dipendenza da bonus la si guarda inforcando gli occhiali dell’analisi politica, provoca scoramento sia il fatto che nella maggioranza non si levi una voce che sia una a sollevare anche solo che un dubbio, sia che l’opposizione, parlamentare e sindacale, sbraiti perché i bonus non sono mai abbastanza, non perché sventrano i conti pubblici.

Guardate in che clima si è celebrato il primo maggio: da un lato Giorgia Meloni che per il secondo anno consecutivo emana un “decreto lavoro” con l’evidente obiettivo di rivendicare a sé il mondo produttivo, in una logica di disintermediazione delle parti sociali che di fatto mortifica l’apertura della Cisl, unica confederazione sindacale a non avere prevenzione ideologica verso il centro-destra, ad un nuovo patto sociale; dall’altro i sindacati formalmente uniti per il rito celebrativo ma sostanzialmente divisi su tutto, con Cgil e Uil che accusano il governo di aver dato una mancetta elettorale e lanciano i referendum sul lavoro per tornare indietro rispetto ad una delle poche norme efficaci degli ultimi anni, il Jobs Act, trascinando la fragile segreteria del Pd in una battaglia di retroguardia.

A rendere anacronistica questa contrapposizione incrociata, c’è il fatto che si trascura, nel migliore dei casi, o si nega, nel peggiore, un dato incontrovertibile, e cioè che il numero degli occupati totali e il numero dei contratti a tempo indeterminato hanno raggiunto il valore massimo da quando esistono le statistiche in Italia. E se il sindacato è impegnato a tentare di dimostrare che l’occupazione è precaria, ignorando che tutta la crescita occupazionale post pandemia è dovuta al tempo pieno, e che il mercato del lavoro non funziona perché manca l’articolo 18 (che si vuole ripristinare), resta poco spazio per affrontare i veri nodi. Il primo dei quali riguarda il livello troppo basso delle retribuzioni, che negli ultimi 4 anni per l’effetto corrosivo dell’inflazione hanno perso il 9,3% se si considera la busta paga contrattuale e il 7,2% se si guarda ai cosiddetti “salari di fatto” che incorporano anche tutti gli altri elementi del salario, dagli straordinari agli scatti di anzianità, dalle progressioni di carriera ai bonus erogati a livello individuale. Certo non si manca di urlarlo nei comizi che le buste paga piangono, ma lo si fa puntando esclusivamente al “salario minimo” stabilito per legge, dimenticando che a fronte degli incrementi salariali occorre aumentare la produttività, che è inesorabilmente ferma da anni. La seconda questione è il mancato rinnovo di molti (troppi) contratti, fronte sul quale, però, fatica a passare (Cisl a parte) il concetto che i veri spazi per far star meglio i lavoratori si conquistano con la contrattazione decentrata nelle imprese e nelle filiere. Ma occorre non sottovalutare la formazione continua per tenere il passo con la velocissima innovazione tecnologica, la regolazione di un sano smart working evitando gli eccessi sia per eccesso che per difetto, la strutturazione di percorsi di carriera che salvaguardino i livelli retributivi dei giovani e non mortifichino la seniority professionale dei più anziani. Se poi si vuole affrontare anche la questione fiscale delle retribuzioni, sarebbe utile leggere quanto ha scritto su LaVoce.info il professor Marco Leonardi, già consigliere economico di Paolo Gentiloni quando era presidente del Consiglio. Le disparità di trattamento fiscale tra lavoratori autonomi e dipendenti, fa sì che sopra i 40 mila euro lordi convenga sia all’azienda sia al lavoratore strutturare un nuovo rapporto di lavoro, o trasformare uno esistente, facendo ricorso alla partita Iva, creando una giungla, unica in Europa, che sarebbe facile e utile evitare.

Senza contare che all’intero sistema politico e a due confederazioni sindacali su tre – ma anche Confindustria e le altre organizzazioni datoriali fanno male a chiamarsi fuori – non passa neanche per l’anticamera del cervello di porsi il problema di dare finalmente piena attuazione all’articolo 46 della Costituzione, quello che i padri costituenti vollero per accentuare rafforzare il protagonismo dei lavoratori nella vita economica del Paese, andando nella direzione, sul modello tedesco, della partecipazione alle decisioni, agli utili e all’organizzazione delle imprese. Gli unici che si sono posti meritoriamente questo obiettivo sono gli amici della Cisl con una raccolta di firme a sostegno di una proposta di legge di iniziativa popolare, e con un manifesto, “Insieme per la Partecipazione”, che mi sono onorato di sottoscrivere insieme a molti altri. Certo la Cisl si è storicamente battuta per un modello di sviluppo fondato sulla corresponsabilità sociale, su una più forte democrazia economica, sulla centralità delle relazioni industriali e contrattuali nel governo della crescita economica. Ma è grave che sia lasciata sola su questa frontiera di assoluta modernità. Non mi stupisco che lo faccia la Cgil di Landini, che ha un approccio tutto ideologico e che ha attestato il sindacato su una frontiera politica che punta ad esercitare l’egemonia nella sinistra. Mi duole invece che la Uil abbia scelto il ruolo di comprimario della Cgil, seppellendo così tutto il suo glorioso passato riformista. Mi cascano le braccia a vedere il Pd plagiato dal massimalismo di Landini, ma soprattutto a dover continuare ad ascoltare il silenzio assordante delle sue componenti più riformiste e moderate. E, infine, non mi capacito che nessuno nel centro-destra, ad eccezione di una qualche timida attenzione di taluni esponenti più liberal di Forza Italia, e nessuno nel governo, che ne avrebbe un gran guadagno, si ponga minimamente il problema di offrire una sponda politica alla Cisl nel suo essere voce fuori dal coro che non piega le proprie convinzioni al tabù dell’unità sindacale a tutti i costi (su questo si veda la War Room del 24 aprile con il segretario nazionale della Cisl, Luigi Sbarra, e Dario Di Vico, qui il link).). Sì, è vero, la commissione Lavoro della Camera ha adottato il testo base della Cisl in materia di partecipazione dei lavoratori al capitale, alla gestione e ai risultati dell'impresa. Ma è più un omaggio, che un fatto basato sulla convinzione politica.

L’Italia ha bisogno di abbandonare le narrazioni favolistiche e le contrapposizioni ideologiche, e finalmente dedicarsi con pragmatismo ai problemi veri guardando in faccia la realtà. Che significa analizzare le ragioni del proprio declino, e la “bonus economy” è una di queste, e decidere di puntare sui propri punti di forza scommettendo sull’innovazione e la modernizzazione. Per farlo c’è bisogno di un nuovo patto sociale, che metta a fattor comune l’energia di tutte le forze vive della società. Senza riesumare la vecchia e obsoleta concertazione, ma senza nemmeno illudersi che solo disintermediando tutto e stabilendo un rapporto (apparentemente) diretto la leadership politica e i cittadini si trovi la chiave per unire ciò che oggi non solo è diviso, ma addirittura atomizzato.

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Terza Repubblica è il quotidiano online fondato e diretto da Enrico Cisnetto nato nel 2005 dall'esperienza di Società Aperta con l'obiettivo di creare uno spazio di commento indipendente e fuori dal coro sul contesto politico-economico del paese.