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L'editoriale di TerzaRepubblica

Fermi nel bipolarismo paralizzato

IL RISVEGLIO DELLE COSCIENZE PUÒ BATTERE LA DITTATURA DELLA MEDIOCRITÀ E DEL MORALISMO

di Enrico Cisnetto - 13 gennaio 2024

Ben ritrovati. Sollecitato da amici e lettori, in questi giorni di stop per le festività natalizie mi sono sinceramente impegnato a cercare di individuare nel buio del nostro panorama politico qualche luce, anche flebile, che potesse tener viva la speranza di un cambiamento. Purtroppo, i miei sforzi sono risultati vani. Anzi. Non solo la stagione che viviamo non è la Terza Repubblica come qualche ebbro neofita del potere si è spinto a dire, ma sempre più appare come l’ennesima fase del trentennale decadimento del nostro sistema politico-istituzionale, iniziato nel 1994 con quella che fu abusivamente chiamata Seconda Repubblica, e che altro non è stata se non la progressiva superfetazione delle ragioni del declino della Prima Repubblica. Fase, questa, che potremmo definire del “bipolarismo paralizzato”, cioè basato su due coalizioni che vivono nella paralisi prodotta dalle loro contraddizioni interne, a loro volta generate da quella che potremmo chiamare “la dittatura della mediocrità e del moralismo emotivo” per cui, paradossalmente, occorre invocare un valore in sé negativo, l’incoerenza, e deprecare il suo contrario, la non più positiva coerenza. Cerco di spiegarmi.

Come ha ben spiegato Stefano Folli in un articolo di fine anno su Repubblica, le due coalizioni del nostro anomalo bipolarismo sono allo stesso modo mal assortite e inamovibili, nelle quali finisce per prevalere il “PTP”, partito trasversale populista. E per questo stesso motivo garanzia di “non governo”, per usare una vecchia ma sempre attuale espressione di Ugo La Malfa. Il centrodestra è schiavo della guerra senza esclusione di colpi tra Meloni e Salvini – e ho usato volutamente i nomi dei due leader e non dei loro partiti, perché in realtà si tratta di una guerra personale nella quale FdI e Lega hanno semplicemente un ruolo di amebe – con Tajani che non riesce ad essere né antagonista né pacificatore (vedi la patetica astensione nel voto parlamentare sul Mes). Essa produce una linea di frattura che si estende dalle mille ripicche inutili agli scontri fisiologici (come le candidature alle prossime regionali) ma soprattutto tocca questioni cruciali, come il ruolo dell’Italia in Europa. Lo si è visto con la mancata sottoscrizione del Mes, un fatto gravissimo, privo di giustificazioni, che ha generato una macchia di inaffidabilità che non sarà facile riassorbire e che produrrà una nostra pericolosa emarginazione, più di quanto già non sia, negli equilibri comunitari, come si è visto nelle dinamiche di approvazione del nuovo patto di stabilità, deciso da Francia e Germania sulla nostra testa. Meloni intendeva evitare questa scelleratezza – azionando una (positiva) incoerenza rispetto a quanto da lei sostenuto nel passato, sul tema specifico e più in generale quando dava fiato alla retorica anti europea e anti euro – se non fosse che Salvini abbia posto sul tavolo il ricatto della tenuta della maggioranza, inducendola a piegare la testa (alla faccia della sua caratteriale tendenza a comandare e del soprannome di “Ducetta” che gli è stato appioppato). Una scelta deplorevole sulla quale va registrata la convergenza di Lega e 5stelle – forse non era un caso che avessero fatto un governo insieme – principali componenti, ma non unici, del sunnominato PTP. Che ha imposto al centrodestra di pagare il prezzo salato della radicalizzazione, con conseguente immobilismo, pur di (ri)trovare la sua unità (peraltro momentanea).

Ma la stessa scena la vediamo se voltiamo la testa dalla parte opposta. Il centro-sinistra sul Mes si è spaccato, dimostrando che se anche avesse vinto le elezioni e fosse al governo, l’Italia sarebbe in egual misura un partner inaffidabile per i maggiori paesi europei e per Bruxelles. Cosa che è emersa ancor più in sede di voto parlamentare sul rinnovo degli aiuti militari all’Ucraina, nel quale Elly Schlein ha sciaguratamente – ma mi sorprendo di chi si sorprende – posizionato il Pd su una linea ambigua tanto da indurre una pattuglia di riformisti (meritevole, ma troppo piccola) a distinguersi apertamente. Una scelta, quella della segretaria democrat, culturalmente figlia del “moralismo pacifista” imperante a sinistra, ma che politicamente si spiega con la volontà di tenere in piedi il “campo largo”, un simulacro che la spinge a piegare la testa nei confronti di Conte, con la conseguente radicalizzazione anche di quest’altro polo del nostro farlocco bipolarismo. Non v’è chi non veda, infatti, il pendant con Meloni-Salvini, e il prevalere anche qui dell’occulto ma presentissimo PTP. Che rende palese il paradosso della politica italiana: al governo c’è Meloni, che è sicuramente una professionista della politica (e non è cosa da poco, visto il dilettantismo dilagante) ma porta il fardello del suo passato sovranista che la costringe all’incoerenza se vuole far bene, di una classe dirigente inadeguata e di un alleato inaffidabile; all’opposizione c’è un partito che avrebbe l’esperienza e l’abitudine all’amministrazione, ma che si è inopinatamente messo nelle mani di chi, Schlein, la pratica di governo non sa neppure dove stia di casa e che per di più è succube di un alleato (si fa per dire) che è privo del dilemma “coerenza-incoerenza” perché ha detto e fatto tutto e il contrario di tutto. E le due, Giorgia ed Elly, possono fare tutti i confronti (du-elly) televisivi che vogliono, ma non possono sfuggire a questa semplice domanda: si possono costruire coalizioni di governo tra chi ha idee opposte sull’Europa, su Putin e l’Ucraina e magari su Israele (non è ancora emerso, ma sono pronto a scommettere che presto verrà fuori)?

Ora, ditemi voi, se su queste basi è possibile governare un paese già di per sé complicato come l’Italia, e per di più in un contesto internazionale che ha sbrinato la “guerra fredda” facendola diventare caldissima. Non è questione di pessimismo, ma di (indispensabile) realismo. Dopo aver sperimentato di tutto, gli italiani – ma sarebbe meglio dire quella minoranza risultante dalla maggioranza della metà o poco più di chi esercita il diritto di voto – si sono affidati alla Meloni. Ma lo hanno fatto sperando che fosse coerente con la sua storia politica e con le promesse elettorali (Dio ce ne scampi) o immaginando una sua evoluzione in senso modernamente liberal-conservatore (magari)? Lei per certi versi è parsa andare in questa seconda direzione – vedi l’atlantismo, in cui è compresa una aperta simpatia per Biden e un eloquente silenzio su Trump, la difesa senza ambiguità dell’Ucraina e delle ragioni di Israele nella tragedia mediorientale, la stessa questione dell’immigrazione, che affronta con sano pragmatismo – salvo rinculare sul Mes o con i rumorosi silenzi sul raduno neofascista di Acca Larentia. Ma la vera questione non è se prevalga l’una o l’altra delle due facce della presidente del Consiglio, ma questa: possiamo affidarci alla speranza che in chi vince le elezioni raccontando fregnacce e vellicando i peggiori istinti popolari poi prevalgono quelle che ho definito “positive contraddizioni”? E se anche fosse, quanta strada può fare uno che è costretto a cambiare idea, per di più stando attento a non farsene accorgere da chi l’ha votato, rispetto a chi le idee l’ha sempre avute e coltivate? È sano un sistema politico che deve affidarsi al rovesciamento tra quanto si dice in campagna elettorale e quanto si fa al governo, che è cosa ben diversa dal sano pragmatismo che si deve sempre avere in politica? Per esempio, è pensabile che un paese ultra indebitato possa dividersi non su come ridurre il proprio squilibrio finanziario o comunque su come aumentare il proprio pil, come sarebbe logico, ma solo ed esclusivamente su quante risorse distribuire, come e a chi? Ed è maturo un elettorato che vota chi ha più decibel e capacità di attingere alla retorica pescando nello stagno del nazional-populismo e dell’anti-politica, e che ha saputo trovare come unico antidoto a questa cattiva abitudine il “bruciare” con sempre maggiore velocità e frequenza le leadership dei pifferai magici cui si è inopinatamente affidato? Il fatto è che è proprio la contrapposizione bipolare – tanto più da quando è diventata bipopulista – che ha creato l’approccio “opportunistico” alla politica: alleanze pur di vincere e poi passare il tempo – che è un bene prezioso visto l’incalzare dei problemi e il moltiplicarsi della loro complessità – a mediare tra promesse e buon senso, oltre che tra alleati distanti mille miglia tra loro.

Si tratta di una modalità di rapporto tra cittadini e politica che procura un enorme danno strutturale, di cui pochi vedono la portata e le conseguenze.

Uno dei pochi è l’amico Giovanni Orsina, che non casualmente ospito spesso nella mia War Room. In un interessante articolo sulla Stampa del 4 gennaio, Orsina ha definito l’epoca che viviamo come “profondamente impregnata di emotività e moralismo”, che sono diventati gli strumenti sostitutivi delle ideologie e delle (più sane) culture politiche novecentesche con cui gestire il rapporto tra cittadini e rappresentanza politica. Sono pienamente d’accordo. Solo che in una società atomizzata e “sonnambula”, secondo l’azzeccata definizione del Censis, l’opinione pubblica si mobilita e aggrega solo per fiammate emotive, indotte dalla cronaca, che per definizione sono momentanee ed eterogenee, e generano invocazioni moralistiche tendenzialmente “estremiste” (vedi le degenerazioni del “politicamente corretto”) così come lo sono le controreazioni che producono (il becerismo del “politicamente scorretto”). Sul piano politico, tre sono le conseguenze più significative: 1) a guidare il processo politico non è più l’offerta (idee, programmi, valori), ma la domanda (vince chi dice di più e meglio agli elettori quello che vogliono sentirsi dire); 2) le istanze emotive e moralistiche producono parole d’ordine vacue, destinate a cambiare con il susseguirsi delle “emergenze” e delle “priorità assolute”, dissolvendosi in un “presentismo” che impedisce ogni progettualità riformatrice; 3) il carattere pressoché apocalittico delle emergenze emotive richiede risposte palingenetiche, per cui ogni risposta politica data risulterà del tutto insufficiente. Il combinato disposto di questi fenomeni è la crisi verticale assoluta, della politica, che non a caso in termini di leadership si affida con velocità crescente a chi sembra disporre di tratti carismatici adeguati a questo contesto, e in termini di sistema, ha generato questo maledetto “bipolarismo paralizzato” di cui siamo prigionieri.

Uscirne è difficile, ma non impossibile. Ci sono due strade. Una, virtuosa, passa attraverso il risveglio delle coscienze di chi immagina un’Italia moderna, lontana dai populismi, incardinata in un’Europa che vuole pienamente federale, e si decide ad uscire dal proprio particulare per assumere una dimensione e delle responsabilità pubbliche, generando una nuova classe dirigente. L’altra, costrittiva, passa da un qualche “vincolo esterno” che ci imponga le scelte che da soli non sappiamo e non vogliamo fare. Io, ovviamente, tifo per la prima, ma non mi strapperei i capelli (anche perché ne ho pochi) se dovessimo ritrovarci nella seconda situazione. Sempre meglio che morire di “bipolarismo paralizzato”.

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