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L'editoriale di TerzaRepubblica

Italiani sonnambuli

IL CENSIS CI RACCONTA CIECHI, SFIDUCIATI, CON LA PAURA DEL FUTURO. E CI TOGLIE L’ALIBI CHE LA COLPA SIA SOLO DELLA POLITICA

di Enrico Cisnetto - 07 dicembre 2023

Un salutare pugno nello stomaco. Dopo che per anni la nostra sociologia ha raffigurato la realtà mettendo gli italiani dalla parte dei buoni e la classe politica da quella dei cattivi, contribuendo, da un lato, a diffondere la deresponsabilizzazione individuale e collettiva, e dall’altro a favorire la crescita del populismo come forma di rappresentanza politica delle paure, del malcontento e della semplificazione qualunquistica dei problemi, finalmente qualcuno si è incaricato di rimettere le cose a posto, dando a ciascuno  le colpe del nostro declino. Mi riferisco al Censis, che nel suo 57esimo Rapporto annuale definisce gli italiani come dei sonnambuli, non tanto perché ciechi di fronte ai presagi, ma perché caduti in uno sonno profondo, incapaci di reagire a tutti i pericoli che si fanno progressivamente più incombenti. Vivono qualunque cosa come un’emergenza immersa in una sorta di dissenso latente, ma senza conflitto, senza che l’allarme suoni (o se suona, non sveglia nessuno). E siccome dove tutto è emergenza, nulla è emergenza, questa incapacità di distinguere rende impossibile stabilire delle priorità. D’altra parte, gli italiani sono convinti di contare poco e niente nella società, e questo genera sfiducia e frustrazione, sentimenti che a loro volta si traducono in immobilismo. Né li aiuta il disarmo identitario e politico degli ultimi anni, che li ha privati degli strumenti per interpretare e leggere la realtà, fossero anche occhiali ideologici deformanti. Così se prima c’era una “cecità vedente” imposta dalle grandi culture di massa del Novecento, le ideologie immanenti, oggi prevale una “cecità non vedente”, figlia di quel fenomeno che io da anni definisco “dittatura della mediocrità”.

Ci siamo dunque inabissati in quella che il Censis chiama una “ipertrofia emotiva” dove le argomentazioni ragionevoli vengono travolte da “paure amplificate, fughe millenaristiche, spasmi apocalittici, l’improbabile e il verosimile”. Da qui il terrore degli immigrati, senza capire che ci sono indispensabili. La paura dei processi di globalizzazione, senza riflettere sul fatto che un paese esportatore li dovrebbe promuovere, oltre che dominare. La diffidenza verso il sapere scientifico, che genera i mostri negazionisti, e verso l’Europa, che si crede abbia a suo fondamento un complotto finanziario di presunti poteri forti.

Questo non significa che manchi la consapevolezza dei problemi, ma per lo più la loro percezione assume i tratti della paura, che immobilizza e rende impotenti. Come dimostrano le rilevazioni dello stesso centro studi fondato da Giuseppe De Rita: l’84% degli italiani è impaurito dal clima impazzito; il 73% crede che stia per arrivare una crisi economica gravissima; il 66% teme un conflitto mondiale che ci coinvolga tutti; il 74% pensa che il sistema pensionistico non reggerà e il 69% che la sanità non riuscirà a garantire prestazioni a tutti. Questioni vere, sia chiaro, ma elevate a emergenze del tutto ingovernabili. E così, invece di affrontarle, le emergenze così come gli altri nodi che la modernità impone di sciogliere – questo il Censis non lo dice, ma io sono convinto che la paura immobilizzante riguardi anche le opportunità, a cominciare dai rivoluzionari cambiamenti tecnologici – gli italiani si rifugiano in piccoli piaceri consolatori, privati e individuali, ma soprattutto concentrati nel presente, perché il futuro appare come minimo incerto, se non addirittura terrorizzante. Ecco perché il Censis stima che nel 2040 le coppie con figli saranno solo un quarto del totale, e che nel 2050, tra neppure trent’anni, saremo 5 milioni in meno, come fossero sparite tre grandi città come Roma, Milano e Napoli, e saremo ulteriormente invecchiati da avere quasi 8 milioni di persone in età lavorativa in meno. Un declino demografico che, da un lato, è conseguenza del “sonnambulismo”, e dall’altro, causa di ulteriori problemi che affliggono il sistema Italia, dalla crescente mancanza di forza lavoro, per numero e per competenze, alla precaria tenuta del sistema previdenziale. E che pone (o dovrebbe porre) il tema dell’immigrazione sotto una luce ben diversa da quella abitualmente maneggiata.

Ma come è emerso nella War Room di mercoledì 6 dicembre con Mauro Magatti, Giovanni Orsina e il direttore del Censis Massimiliano Valerii (qui il link), la verità è che siamo – e non solo in Italia, ma in Europa e per molti versi in tutto l’Occidente – nel pieno di una transizione da un ciclo storico ad un altro. E come in tutte le fasi di passaggio, lo sbandamento sociale è inevitabile. Sono in tanti a considerare conclusa la stagione della crescita infinita, demografica ed economica, e della globalizzazione. Chi con rimpianto e chi con sollievo, ma tutti egualmente concordi che il combinato disposto dell’emergenza ambientale, delle ripetute crisi economico-finanziarie e dei riflessi negativi che prima la pandemia e poi le guerre in atto hanno prodotto sui sistemi produttivi e le catene internazionali del valore, ci costringerà a rivedere i nostri sistemi di vita sotto tutti i profili. Personalmente, credo che le cose stiano in modo un po’ diverso. Non nego certo l’esistenza di tutti questi problemi, anzi ne posso aggiungere altri meno evidenziati nel dibattito, a cominciare dai debiti accumulati a livello planetario che hanno raggiunto la cifra astronomica di 307 mila miliardi di dollari, pari al 300% della ricchezza prodotta nel mondo. Ma rifuggo dall’idea di applicare a queste grandi questioni l’automatismo on/off, per cui fino a ieri c’era la globalizzazione selvaggia e oggi siamo tornati alle economie nazionali difese dai protezionismi. Farà piacere ai catastrofisti e ai sovranisti pensarla così, ma io credo al gradualismo e ai meccanismi di aggiustamento dei fenomeni. Anche perché, a fianco alla lista dei problemi, c’è quella non meno lunga delle opportunità che le grandi trasformazioni e innovazioni in atto, a cominciare da quelle tecnologiche ci stanno offrendo. E ciascuna di queste chances è in grado di compensare gli effetti delle grandi difficoltà, se non addirittura di combatterle e sconfiggerle. 

Certo, questo richiede fiducia, convinzione, ambizione, decisione. Fiducia nella scienza, per esempio, non per fideismo ma perché discende dalla constatazione di come l’uomo sia stato capace di realizzare progressi straordinari (si pensi in quanto poco tempo si è trovato l’antidoto ad un virus letale e sconosciuto come il Covid). Convinzione nei valori del mondo libero, che con tutti i suoi difetti ci ha assicurato decenni di libertà e benessere. Ambizione di voler rimettere in moto l’ascensore sociale, dopo una fin troppo lunga fase di malfunzionamento e di blocco, e di dare centralità al merito. Decisione nel rimboccarsi le maniche e tornare a “spingere”, aprendo una grande stagione anche dei “doveri” dopo aver attraversato quella solo dei “diritti”, come è stato negli anni del boom dopo la seconda guerra mondiale.

Ora, tutti questi impegni riguardano gli uomini e le donne dell’intero Occidente, che in una certa misura sembrano aver perso la consapevolezza di sé, come dimostra l’ampia mancanza di comprensione dei pericoli che derivano dal disordine mondiale, e in particolare la troppo faticosa messa a fuoco del fatto che l’invasione dell’Ucraina da parte della Russia di Putin, prima, e l’attacco di Hamas a Israele, poi, sono tasselli di un disegno che mira a sovvertire gli equilibri planetari e a sconfiggere le democrazie occidentali. E gli italiani non fanno eccezione, anzi da noi sembra più diffusa che altrove la miope mentalità del “non mi riguarda”. Ma non solo. All’interno di questo quadro di comune disorientamento, ecco anche i tratti socio-somatici degli italiani descritti dal Censis, che costituiscono una specificità non certo lusinghiera. Penso, in particolare, a tre peculiarità. La prima riguarda l’elevato tasso di conservatorismo, o se si vuole culto delle abitudini, degli italiani. Che si traduce in una formidabile avversione alla vera modernità, quella che investe nel progresso scientifico e nelle grandi trasformazioni. Una condizione tipica di chi ha la pancia piena, specie se non ha dovuto fare troppa fatica a riempirla. E qui esce fuori la seconda tipicità italica, l’abitudine a descrivere la propria condizione in modo peggiorativo rispetto alla realtà. Un piangere miseria che in parte cerca di celare l’ampia ricchezza sommersa, di patrimonio accumulato e di flussi di reddito, che ci ha reso un paese povero abitato da gente ricca, ma che per altri versi è figlia di un “lamentismo” direttamente iscritto nel dna italiano.

Un difetto di autorappresentazione che ha finito con il generare e alimentare la terza peculiarità negativa, quella racchiusa nella formula “il paese reale è meglio del paese legale” che ha cominciato a diffondersi all’inizio degli anni Novanta e che ha portato al disastro delle grandi illusioni: che fosse la magistratura a ripulire la classe politica, filtrando la selezione democratica attraverso le sue maglie; che fosse il sistema maggioritario a regalarci una democrazia compiuta; che fosse “il nuovo che avanza” la soluzione dei nostri problemi; che chi sa far funzionare un’azienda avesse automaticamente altrettanta capacità a guidare lo Stato; che il dilettantismo politico, all’insegna del “uno vale uno”, fosse meglio del professionismo. Al crescente disimpegno – politico, sindacale, culturale, persino elettorale visto l’altissimo livello di astensionismo – è così corrisposta una propensione alla delega in bianco a chiunque ricercasse il consenso sulla base di una formula tanto semplice quanto mistificatoria: “basta con i sacrifici, adesso vi restituiamo il maltolto”. È quello che il Censis chiama “sonno profondo del calcolo raziocinante”. 

In conclusione, non si tratta di guardare a noi stessi facendo prevalere il pessimismo, ma riconquistando la perduta giusta dose di sano realismo. L’Italia contiene molte e diverse qualità – basti osservare il meraviglioso mondo del volontariato, il fenomeno dell’imprenditoria diffusa e delle capacità artigianali, i successi di ogni tipo che hanno molti dei 5 milioni di italiani che vivono all’estero – ma sono tutte di carattere individuale, e come tali non fanno sistema. Ma la crescente povertà delle classi dirigenti e il sonnambulismo diffuso nella “maggioranza silenziosa” degli italiani, da un lato narcortizzano le qualità, costringendoci ad un presente privo di ambizioni, e dall’altro rischiano di farci mancare l’appuntamento con le tante potenzialità che il futuro ci può riservare. Un ciclo storico nuovo si sta per aprire, se vogliamo contribuire a scriverlo dobbiamo “svegliarci”.

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Terza Repubblica è il quotidiano online fondato e diretto da Enrico Cisnetto nato nel 2005 dall'esperienza di Società Aperta con l'obiettivo di creare uno spazio di commento indipendente e fuori dal coro sul contesto politico-economico del paese.