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L'editoriale di TerzaRepubblica

Manovra, idee senza coraggio

QUALCHE SEGNALE POSITIVO MA RESTA IL NODO DEL DEBITO E DELLA POVERTÀ STRATEGICA DEGLI INVESTIMENTI DEL PNRR

di Enrico Cisnetto - 25 novembre 2023

La manovra di bilancio italiana è stata promossa dalla Commissione europea. Con riserva, visto che alcuni numeri del Documento programmatico non corrispondono alle raccomandazioni di Bruxelles, ma pur sempre accettata, al contrario di quella francese che è stata sonoramente bocciata. Sempre la Commissione Ue ha approvato la maxi revisione del Pnrr – ben 144 modifiche rispetto al piano Draghi – proposta dal governo Meloni e ha avviato l’iter per il pagamento della quarta rata da 16,5 miliardi del Piano di ripresa e resilienza. Nelle stesse ore in cui avveniva tutto questo, Giorgia Meloni era a Berlino per firmare un Piano d’azione Italia-Germania in cinque punti e per strappare a Olaf Scholz un’apertura sulle richieste italiane per arrivare – anche in cambio della firma del Mes, che provocatoriamente stiamo procrastinando da mesi – ad un nuovo Patto di stabilità che sia condiviso tanto dalle “formiche” quanto dalle “cicale” europee. Intanto, dopo la scelta di Moody’s di non penalizzare il nostro rating – se lo avesse fatto, l’Italia non sarebbe stata più “investment grade” e il nostro debito sarebbe diventato letteralmente “spazzatura” – ma anzi, di migliorare le aspettative congiunturali (l’outlook è passato da “negativo” a “stabile”), lo spread si è attestato intorno ai 175 punti, il 17% in meno da inizio anno, allentando la pressione sui titoli del Tesoro.

Ora, cosa vogliono dire tutte queste circostanze? Forse che l’Italia è messa meglio di quanto non si pensi? Sicuramente le sue condizioni sono meno peggiori delle descrizioni forzate che la propaganda d’opposizione fa circolare. Ma possono anche voler dire che l’Europa non è per nulla matrigna, come invece gran parte dell’attuale maggioranza di governo l’ha sempre dipinta e continua sottovoce a definirla (la presidente del Consiglio fa male a non ricordare di aver detto che bisognava uscire dall’euro, sarebbe molto più credibile se dicesse di aver cambiato idea e spiegasse perché). E, a ben vedere, i due giudizi possono perfettamente convivere e sommarsi. Ciò che invece questa serie di elementi positivi non vogliono dire è che siamo sulla buona strada e che le uniche decisioni da prendere sono di carattere redistributivo. Come purtroppo pensa la politica, che non a caso si divide rumorosamente sui provvedimenti di spesa – si veda la penosa contro manovra abbozzata da Elly Schlein e Giuseppe Conte, che fa apparire i provvedimenti governativi come un male minore rispetto al rischio di far saltare i conti – e si unisce silente nell’ignorare le scelte strutturali, a cominciare da quella sul debito pubblico, di cui il Paese ha disperatamente bisogno.

Basterebbe avere onestà intellettuale e andare a vedere anche l’altra faccia della medaglia delle circostanze favorevoli che ho elencato. Sulla finanziaria, a Bruxelles hanno criticato i 14 miliardi di manovra fiscale tutta in deficit, e per di più una tantum, e la mancata riduzione dello stock di debito, mentre hanno ridotto le nostre aspettative di crescita per il 2024 a solo +0,9% (la media Ue è prevista a +1,3%) e per il 2025 a +1,2% (ultimi in classifica), il che potrebbe addirittura far salire il rapporto debito-pil. Ma soprattutto, la Commissione si è riservata di decidere, la prossima primavera, se avviare una “procedura d’infrazione” per deficit eccessivo, visto che siamo abbandonatamente e scientemente sopra il tetto del 3%, e di conseguenza chiederci una manovra correttiva. Sul Pnrr, un conto è tirare un sospiro di sollievo sul fatto che il ministro Fitto sia riuscito a metterci una pezza – e gliene va dato merito – e un altro è credere che tutte le risorse europee che riusciremo a spendere determineranno quelle trasformazioni strategiche, specie in senso digitale e nel campo delle infrastrutture, che ci servono per compiere il salto verso la modernità. Nel loro saggio “La grande abbuffata” dedicato al Pnrr (uscito per Feltrinelli), Tito Boeri e Roberto Perotti dimostrano come appunto la retorica sul Pnrr sia totalmente cambiata, trasformandosi da “grande opportunità e occasione irripetibile” a “obbligo cui non ci si può sottrarre”. Un vero incubo per chi è al governo, visto che anche nella nuova versione il Piano è da far tremare le vene ai polsi: ha un valore di 194,4 miliardi (122,6 in prestiti e 71,8 di sovvenzioni), copre 66 riforme, sette in più rispetto al piano originale, e 150 investimenti. Inoltre, se si sommano 45 miliardi di altri fondi, italiani ed europei, si arriva a oltre 239 miliardi che vanno spesi entro il 2026, una cifra enorme in tempi strettissimi. Ma la vera domanda, che nessuno pone, è: gli investimenti finanziati da queste risorse, e le riforme di sistema connesse, aumenteranno in modo strutturale il tasso di crescita dell’economia italiana? Temo, al pari di Boeri e Perotti, che la risposta non sia positiva. Intanto perché per realizzare un piano di investimenti pubblici di queste dimensioni e senza precedenti, occorreva creare le precondizioni in termini normativi e organizzativi, e ciò non è avvenuto perché le forze politiche hanno preferito passare oltre un anno rimpallarsi responsabilità anziché unire le forze e prendere decisioni. Poi perché molte sono le riforme non fatte e altrettante quelle messe nero su bianco ma parziali o lasciate inattuate. Ma soprattutto perché mancava la chiarezza di idee sul disegno strategico che doveva sottendere il Piano, e cioè che Italia dei prossimi decenni s’intendeva costruire.

Quanto al patto Roma-Berlino, è evidente che esso dipende totalmente dalle mutate condizioni di salute e conseguenti necessità dei tedeschi, ed è troppo presto e azzardato vederci i prodromi della costruzione di un asse Francia-Germania-Italia da cui l’Europa trarrebbe enorme giovamento. Così come è inutile farsi illusioni sui giudizi delle società di rating e sul ribasso dello spread: se non ci fossero due guerre in corso il cui scopo è anche se non soprattutto quello di minare gli equilibri su cui si regge l’Occidente e di conseguenza il mondo, Moody’s e le altre, e i mercati, ci avrebbero riservato ben altro trattamento. Ma siamo geopoliticamente strategici, avendo i piedi nel Mediterraneo e la testa proiettata verso il fronte ucraino, e non conviene a nessuno far saltare in aria un paese così, peraltro della categoria “too big to fail”. E che ha dimostrato su entrambi i fronti bellici di stare dalla parte giusta, senza tentennamenti (e di questo va dato merito alla Meloni). Il problema, semmai, è vedere se siamo capaci di approfittare di queste circostanze e del tempo che ci offrono. E qui il dubbio – che riguarda l’intera classe politica, mica solo le attuali forze di governo – è forte, anzi fortissimo. Non fosse altro perché in altre situazioni simili – penso, per esempio, alla lunga stagione dei tassi a zero – la cicala Italia è rimasta imperturbabilmente tale.

E infine il Patto di stabilità Ue, cartina di tornasole del nostro modo di stare in Europa. Che se ne faccia uno nuovo con il nostro consenso, o che si riapplichi quello vecchio, una cosa rimane certa: se non produrremo un cambio di passo deciso e credibile sul debito, è fin d’ora facile pronosticare che l’anno prossimo ci racconteremo tutt’altra storia, tirando in ballo non la nostra responsabilità ma la consolante storiella del rigore ottuso dell’Europa. Che sarà anche stolta a pretendere che chi ha più debito e interessi da pagare debba eseguire le manovre più depressive, ma ciò non toglie che sia interesse dell’Italia intervenire in modo strutturale sul proprio debito, a prescindere che glielo chieda/imponga l’Europa.

Come? Basterebbe rispolverare la proposta che a più riprese e da tempo immemore mi ero permesso di lanciare, riprendendo un vecchio progetto del compianto professor Guarino, e sulla quale si erano registrate le convergenze di molte forze intellettualmente libere: trasferire in una società veicolo da quotare in Borsa tutto il patrimonio pubblico che si può alienare, mobiliare e immobiliare, e chiamare la ricchezza privata a concorrere alla riuscita dell’operazione con acquisti, obbligatori ma vantaggiosi in termini di rendimenti, dei titoli della quotanda società (al posto dell’Imu e a scanso di patrimoniali secche). Una mega-operazione di smobilizzo del patrimonio statale e degli enti locali, che nel giro di un paio di anni potrebbe generare risorse da un minimo di 400-500 miliardi ad un massimo di 800-1000. Con ciò si potrebbe portare il debito se non a pari del pil (circa 1800 miliardi), certamente renderlo prossimo al 100% della ricchezza nazionale, dal 140% di oggi. A due condizioni: che il patrimonio non sia venduto tutto e subito, correndo così il rischio di essere svenduto, ma venga utilizzato solo dopo essere stato valorizzato e messo sul mercato a singoli pezzi; che il ricavato sia anche utilizzato per fare investimenti produttivi che aiutino lo sviluppo, con ciò raggiungendo il sempre agognato e mai centrato obiettivo di rendere compatibili rigore di bilancio e politiche di crescita, considerato che è vero che nel rapporto debito-pil occorre ridurre il numeratore, ma è altrettanto vero che è non meno necessario aumentare il denominatore.

Mario Monti, arrivato a palazzo Chigi nel 2011, aveva annunciato di voler predisporre “veicoli, fondi mobiliari e immobiliari, attraverso i quali convogliare, in vista di cessioni, attività del settore pubblico, prevalentemente a livello regionale e comunale”. Non era proprio la stessa cosa di quanto suggerito – non fosse altro perché mirava al contenimento del deficit e non all’abbattimento del debito – ma comunque non se n’è fatto più niente.  Eppure, oggi, con l’esplosione dei debiti pubblici a seguito delle politiche di contenimento degli effetti socio-economici del Covid, non è solo l’Italia che avrebbe bisogno di alleggerire il fardello debitorio. Già dieci anni fa l’Economist, rivelando che i 34 paesi Ocse (i più sviluppati tra le economie di mercato del mondo, tra cui l’Italia) avevano accumulato complessivamente 45 mila miliardi di dollari di debito pubblico, pari al 94% dei loro pil, un livello senza precedenti in tempo di pace raggiunto per via degli impegni assunti per far fronte alla crisi finanziaria mondiale del 2008 e seguenti, indicava come via d’uscita l’uso dei loro patrimoni pubblici, misurato in 35 trilioni di dollari tra beni immobili, partecipazioni finanziarie e società pubbliche. Ma ora il debito pubblico mondiale è arrivato a 307 mila miliardi di dollari, ed è indispensabile, se si vogliono evitare default a catena, trovare il modo di contenerlo e ridurlo.

L’Italia, invece che fare il ricattino “Mes contro Patto di stabilità light”, rifletta su questa vera emergenza e provi a porre il tema all’Europa, in modo serio e costruttivo. Magari dando prova di lavorarci sul piano nazionale. Troppo difficile? Io trovo che sia più facile sposare un’idea su cui non si è mai profferita parola, piuttosto che rimangiarsi le parole spese su idee sbagliate.

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Terza Repubblica è il quotidiano online fondato e diretto da Enrico Cisnetto nato nel 2005 dall'esperienza di Società Aperta con l'obiettivo di creare uno spazio di commento indipendente e fuori dal coro sul contesto politico-economico del paese.