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L'editoriale di TerzaRepubblica

Il premierato non è la soluzione

CAMBIARE È NECESSARIO MA IL PREMERIATO NON È (PER MERITO E METODO) LO STRUMENTO GIUSTO

di Enrico Cisnetto - 11 novembre 2023

La politica italiana è profondamente malata. Lo è la sua capacità di rappresentanza, lo sono i suoi meccanismi di (non) funzionamento. Il sistema istituzionale è arrugginito, quando non disfunzionante. La produzione legislativa è lenta e pletorica, spesso inessenziale. Il processo decisionale è rallentato, involuto, ma soprattutto incapace di produrre effetti reali e incisivi. Pur schematico, questo referto è più che sufficiente per trarre la conclusione che intervenire sul sistema politico-istituzionale, anche attraverso modifiche costituzionali, non solo è legittimo, ma indispensabile. Necessità, poi, che diventa urgenza se si considera che occorre decidersi una buona volta a sanare gli effetti distorsivi prodotti dal passaggio, costituzionalmente anomalo, tra la Prima e la cosiddetta Seconda Repubblica, che tale non è stata proprio per la mancanza di una certificazione costituzionale delle prassi surrettiziamente introdotte in questi ultimi trent’anni.

Tutto questo sgombra il campo dalle obiezioni pregiudiziali – all’insegna dello slogan “la Costituzione italiana è la più bella del mondo, e non si tocca” – con cui un’opposizione priva di capacità di proposta, ha accolto la proposta di riforma predisposta dal governo Meloni e che va sotto il nome di “premierato”. Questo significa che quella proposta è cosa buona e giusta? No, anzi. Ma merita di essere valutata senza pregiudizi ideologici, evitando toni apocalittici tipo “la destra vuole il potere assoluto”, che non aiutano i cittadini a entrare nel merito ma li spingono a militare nelle fazioni contrapposte o, peggio, a disinteressarsene.

Dunque, entriamo nel merito. Prima di tutto sollevo un’obiezione di fondo, di tipo metodologico. Come dimostrano i fallimenti passati – sia quelli relativi a riforme realizzate, come quella che ha stravolto il titolo V della Carta, sia quelli riguardanti le proposte rimaste lettera morta in parlamento (vedi le varie bicamerali che si sono svolte) o bocciate in sede di referendum – è altamente sconsigliabile sia affrontare i temi costituzionali a spizzichi e bocconi, sia farlo a colpi di maggioranza. Certo, l’articolo 138 della Costituzione consente leggi di revisione (che devono essere “adottate da ciascuna Camera con due successive deliberazioni ad intervallo non minore di tre mesi” e “approvate a maggioranza assoluta dei componenti di ciascuna Camera nella seconda votazione”). Ma meglio, molto meglio, tenere separata l’ordinaria attività parlamentare – che risente inevitabilmente della contingenza politica – da quella di riscrittura della Carta, che peraltro necessita di competenze qualificate. Insomma, è indispensabile che la materia venga sottratta agli interessi particolari e momentanei dei partiti e alla dinamica conflittuale tra Governo e Parlamento. Allora, i casi sono due: o ci si accontenta di interventi minimi, che non necessitano di revisioni costituzionali, oppure la strada maestra è quella della convocazione di una Assemblea Costituente, o se si vuole di una meno impegnativa Commissione Costituente (l’idea è di Marcello Pera), dove organicamente si fanno gli interventi necessari, tanto nella prima parte (dove, per esempio, non compare l’Europa) come nella seconda.

Per riscrivere le regole del gioco, occorre ricreare il clima cooperativo, recuperare il livello qualitativo e riconquistare la saggezza istituzionale che furono propri dell’Assemblea Costituente del 1946. A farsene carico non può essere né il Governo, che già fatica a tener testa ai problemi congiunturali, né il Parlamento, negli anni depauperato in qualità e ultimamente anche in quantità. Dunque, c’è bisogno di un soggetto costituente, istituito fuori dal Parlamento, che deve essere dotato di poteri sia redigenti che deliberativi, i cui componenti (un centinaio è il numero giusto) siano eletti dai cittadini con una procedura elettorale proporzionale pura a collegio unico nazionale (vanno esclusi i parlamentari in carica e va lasciata una quota di saggi scelti dal Capo dello Stato) e abbiano un anno di tempo per concludere i lavori. Lì si discuterà se è il presidenzialismo – e quale, tra l’elezione diretta del Capo dello Stato o quella del Presidente del Consiglio, quello pieno o il sistema semipresidenziale – che può assicurare maggiore governabilità, o seppure, come io penso, imboccare quella strada avrebbe lo stesso effetto illusorio che trent’anni fa ebbe il grande afflato verso il maggioritario, consacrato dal referendum Segni, poi rivelatosi un boomerang. Lì si discuterà se il Paese ha bisogno di un federalismo regionale o se, come io penso, ha invece necessità di riportare le competenze sanitarie e di mantenere quelle scolastiche in sede nazionale, archiviando l’esperienza delle Regioni e semplificando il decentramento amministrativo. E così via.

Ma ora veniamo a quanto prevede, nello specifico, il progetto di legge presentato dal ministro Casellati e che Meloni ha definito “ottimo”. L’idea centrale è che la figura del presidente del Consiglio – che, come recita l’articolo 3 della proposta, rimane tale, cioè rispetto ai ministri resta un primus inter pares e non diventa un primus solus, cioè dotato del potere di nomina e revoca dei ministri, come si conviene a un vero primo ministro – venga eletta direttamente dai cittadini. Nella convinzione che ciò piaccia agli italiani perché avrebbero la sensazione di contare davvero. E a supporto di questa tesi si citano le elezioni dirette dei sindaci e dei governatori regionali. Ora, a parte che le due cose non sono paragonabili perché sono ben diversi i poteri, ma io contesto che sia sano un sistema istituzionale in cui il potere esecutivo si basa sul rapporto diretto e disintermediato tra leader e cittadino. Mi pare piuttosto un frutto avvelenato della cultura dell’antipolitica: provate a pensare chi sarebbe finito a palazzo Chigi in questi anni se ci fosse stato il premierato, perché era in cima alla classifica delle simpatie popolari. Oppure, a quanto sarebbe durato quel consenso, vista la velocità di innamoramento e disinnamoramento degli italiani. La politica è, o dovrebbe essere, una cosa seria e complessa, e perciò stessa sottratta alle facili popolarità.

E qui viene il secondo obiettivo della proposta: farlo durare, il capo del governo eletto a suffragio universale. Gli strumenti sono due: assicurargli una maggioranza certa attraverso un premio che porti la sua coalizione al 55% dei seggi parlamentari; dargli continuità, essendo possibile sostituirlo una sola volta, prima di andare ad elezioni anticipate, con un esponente della medesima coalizione che non potrà cambiare neppure una virgola dell’originario programma di governo. Nel primo caso la chiamano stabilità, nel secondo, norma anti-ribaltone e anti-tecnici. Ora, il premio di maggioranza è non solo un’aberrazione – per evitare la frammentazione basta e avanza la soglia di sbarramento, come succede in tutti i paesi civili – ma anche una contraddizione in termini visto che si vuole il capo del governo eletto dal popolo, ma poi quando questo popolo non assegna sufficiente consenso, lo si genera artificialmente. Se in più si considera che nel testo licenziato dal governo non è neppure indicata una soglia minima oltre la quale scatterebbe il premio, siamo addirittura nella fattispecie del (pericoloso) dilettantismo, e sicuramente cozza contro i paletti fissati dalla Corte costituzionale. Quanto all’astruso meccanismo del secondo presidente, va notato che: a) il successore non sarebbe eletto direttamente, ma avrebbe più poteri del predecessore perché dopo di lui ci sarebbero inevitabilmente le urne; b) il parlamento non avrebbe più nessuna funzione nella scelta dell’esecutivo; c) ammesso e non concesso che abbia senso che il programma di governo debba restare inalterato (qualcuno aveva forse previsto la guerra di Putin all’Ucraina o l’attacco di Hamas a Israele, piuttosto che il ritorno dell’inflazione, tanto per fare degli esempi), chi verifica e con quali poteri sanzionatori che tale programma sia rispettato, visto che è condizione vincolante pena il ritorno alle urne?; d) i governi tecnici sono una iperbole giornalistica, visto che tutti i governi, a prescindere da chi li presiede, devono avere la fiducia del Parlamento; dunque, visto che il premier di riserva è espressamente previsto sia un parlamentare per escludere un “tecnico”, perché escludere sempre e comunque la possibilità di attingere a personalità della società civile?; e) ad aggravare il tutto, c’è poi l’articolo 4 a prevedere che, anche in caso di mancata fiducia iniziale, il presidente della Repubblica debba reincaricare il premier eletto e che debba (non possa) sciogliere le camere se il premier reincaricato non ottiene la fiducia nemmeno la seconda volta. 

Insomma, il ruolo del Capo dello Stato, essenziale nella funzione di equilibrio del sistema e di arbitro imparziale, ne esce ridimensionato e mortificato, con “il rischio che si instauri una diarchia istituzionale e politica o un bi-presidenzialismo, fonte di tensioni e attriti” (sono parole di Marcello Pera). Così come è svilito il Parlamento, e dunque la politica stessa, cui è sottratta la libertà di scelta. In un regime parlamentare se le camere possono sfiduciare il governo, anche quest’ultimo deve poter mandare a casa il Parlamento. Sono due armi puntate che, assieme, fanno deterrenza contro le crisi facili e i cambi di casacca. Ma al di là di questo, non si capisce perché si sia voluto forzare la mano con il suffragio universale, quando sarebbe stato ben più importante affidare al presidente del Consiglio il potere di scelta e di revoca dei ministri – che, forse per compiacere Mattarella, restano in capo al Quirinale – e introdurre la “sfiducia costruttiva”, che prevede che per sfiduciare un governo occorra averne un altro pronto altrimenti si torna alle urne. (su tutti questi temi si veda la War Room di giovedì 9 novembre con Salvatore Bragantini, Stefano Ceccanti e Francesco Clementi, qui il link).

Se poi, come in molti sospettano, nel tentare di avere risposta alla domanda “non sarebbe stato più semplice e inclusivo lavorare sullo sperimentato modello tedesco del cancellierato?”, si scopre che dietro la proposta del premierato c’è solo il calcolo politico di rafforzare l’identità di destra e nello stesso tempo di mettere in difficoltà la sinistra, più di quanto già ci si sia messa da sola, Meloni commetterebbe tre errori capitali. Il primo: la presidente del Consiglio, se vuole durare, di tutto ha bisogno meno che di accentuare i suoi tratti identitari. Seppur tra molte incertezze e contraddizioni, è sembrata voler imboccare la strada della sua trasformazione da leader sovranista di destra a leader conservatore di centro-destra: perché cambiare? Sicura che il profilo di leader cui somigliare è quello di Orban? Il secondo: credere che accentuare le difficoltà esistenziali del Pd farebbe il suo gioco. No, finirebbe per spingerlo definitivamente nelle braccia di Conte, mortificando così ogni possibile convergenza sulle grandi questioni del Paese, come quelle relative alla riscrittura delle regole. E avere un’opposizione del genere non farebbe affatto bene alla salute del governo Meloni. Il terzo, infine, sarebbe un errore di presunzione: ben sapendo che in questo parlamento la maggioranza qualificata richiesta dall’articolo 138 non c’è, credere di poter superare l’ostacolo del referendum, o vincendolo o facendo finta di niente se dovesse perderlo. Certo, la consultazione popolare sarebbe molto in là nel tempo (2025), e fin da subito Meloni ha provato a negare l’identificazione con la riforma costituzionale, slegando la vita del governo dal suo esito. Tuttavia, già fin d’ora è stata evocata l’infelice esperienza di Matteo Renzi del 2016, e sarebbe comunque assai difficile sottrarsi alla sua medesima sorte. Viceversa, nel breve gestire tutto questo come operazione di marketing politico finalizzata ad assicurare, per esempio, un buon risultato alle elezioni europee di giugno prossimo, politicamente molto importanti e sicuramente decisive per le sorti del governo, potrebbe dare un discreto risultato, specie se Elly Schlein dovesse cascare nella trappola e alimentasse il muro contro muro. Ma sarebbe comunque un calcolo miope per sé, e disastroso per il Paese, e autorizza la domanda che intellettuali certo non ostili come Paolo Armaroli e Luca Ricolfi le hanno rivolto: “Giorgia, ma chi te lo fa fare?”. 

L’Italia ha un disperato bisogno, insieme, di stabilità politica e di governabilità. Ma mentre la seconda assicura anche la prima, non è la stessa cosa viceversa. Ed entrambe non si ottengono per legge, mettendo le mutande alla politica e offrendo ai cittadini illusorie scorciatoie, come è già stato per il maggioritario e il bipolarismo. E guai se per perseguirle si perde di vista il meccanismo dei pesi e contrappesi, decisivo per assicurare alla democrazia liberale una vita sana e duratura. Il Paese ha bisogno di uscire dall’impasse. È un’impresa difficile, ma che diventa impossibile se, per un motivo o per l’altro, si lasciasse briglia sciolta all’illusione delle scorciatoie costituzionali e alla non meno populista contrapposizione a suon di retorica e vuota di proposte alternative.

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