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L'editoriale di TerzaRepubblica

Una nuova casa per i riformisti PD

IL MUTAMENTO GENETICO DEL PD FORMATO SCHLEIN IMPONE AI RIFORMISTI TRASLOCARE ALTROVE

di Enrico Cisnetto - 07 ottobre 2023

Se Atene piange, Sparta non ride. Anzi, se Atene piange è anche perché Sparta non ride. Laddove la prima delle due città dell’antica Grecia è il governo Meloni e la seconda è il Pd di Schlein e il fronte delle opposizioni. È infatti opinione diffusa – ed anche la mia – che la vera ragione di forza di Meloni e della maggioranza che la sostiene (si fa per dire) stia proprio nella debolezza del Pd e nella conseguente mancanza di alternative. Sono passati duecento giorni dalla elezione di Schlein alla segreteria, ed è chiaro come il sole che non ci sia la ben che minima condizione perché le opposizioni possano ambire al governo del Paese. Tralascio, per eleganza, il folklore, tipo l’armocromia o la copertina di Vogue, e vado al sodo, prendendola sul serio.

Il consuntivo di questi mesi di segreteria ha i seguenti titoli: spostamento del baricentro politico del Pd a sinistra, nel tentativo di raccogliere tutto quello che, a sinistra, è sempre stato fuori o è fuoriuscito dal partito; alleanza strutturale con i 5stelle, con addirittura più convinzione di quanta non ne manifesti Conte, ma nello stesso tempo tenta di rosicchiargli un po’ di elettorato; estraneità ai temi del dibattito politico e mediatico, anche a costo di apparire aliena, a favore di alcune proposte e parole d’ordine che ritiene la mettano in sintonia sia con la parte più disagiata e meno protetta della società, sia con le più diverse minoranze, dal popolo Lgbtqi+ a quelli che ritengono il lavoro un disvalore. Vediamo più specificatamente cosa significano e quali conseguenze generano.

La scelta politica di fondo tende a fare del Pd il partito unico della sinistra, senza porsi l’obiettivo di costruire il centro-sinistra in un’ottica bipolare – ma senza per questo criticare il bipolarismo e chiederne il superamento – e dunque non indicando un percorso per arrivare al governo, al di là del semplicistico slogan, usato per chiamare una grande mobilitazione l’11 novembre prossimo, “in piazza chi è contro la destra”. Anche il rapporto con i 5stelle non è in una logica di “campo largo” con chi ci sta, stile Ulivo del 1996 e Unione del 2006, cioè i due momenti in cui il centro-sinistra ha vinto, seppure per il rotto della cuffia e con coalizioni accozzaglia che si sono sgretolate strada facendo. No, si tratta di pura e semplice aggregazione della sinistra, partendo dal presupposto – totalmente sbagliato – che il grillismo prima e quel che ne rimane oggi, siano di sinistra, e non populismo e anti-politica in purezza, cui Conte ha aggiunto una massiccia dose di opportunismo e meridionalismo clientelare.

Non mi piacciono i sondaggi, né tantomeno le valutazioni politiche basate su di essi, ma ce n’è uno – che pare stia particolarmente a cuore a Schlein – dal quale emerge una cosa interessante: nei quasi sette mesi di segreteria Elly, il Pd avrebbe guadagnato 6,6 punti percentuali di consenso in più, pescando a sinistra, e avrebbe perso 4,8 punti di elettori moderati. Ora il saldo è positivo, ma solo di 1,8 punti, che portano il Pd 20,8%, sopra i 5stelle (15,4%) soltanto di 5,4 punti. E questo perché dalle file degli elettori grillini si sarebbe staccato per approdare al Pd un misero 0,7% (il resto viene da Verdi-Sinistra ma soprattutto dall’astensione). Ciò significa che questo voler essere “più di sinistra” consente di recuperare consenso dal bacino di elettori che negli ultimi anni avevano lasciato il Pd considerandolo troppo moderato e governista, ma lo fa perdere sul versante opposto, peraltro quasi tutto a favore dell’astensione. Peccato però che il bacino elettorale a sinistra del Pd sia enormemente più piccolo di quello riformista e moderato, per cui a lungo andare il risultato sarà un Pd dimensionato sotto il 25% e con un orizzonte di alleanze ristretto ai soli pentastellati, che in un contesto bipolare significa partire battuti in partenza. Anche perchè una linea più di sinistra impedisce alle forze più centrali dello schieramento politico di avvicinarsi al Pd, e spinge le componenti interne ai Democratici più riformiste a uscire (come è già iniziato ad accadere, e come succederà dopo spaccature come quella che si è verificata nei giorni scorsi al Parlamento europeo, dove Schlein ha fatto votare a favore di un emendamento che invitava la Commissione Ue a introdurre una patrimoniale, mentre l’ala riformista ha votato no).

D’altra parte, se si esaminano quei pochi contenuti che la segretaria ha messo sul tavolo, si capisce come voglia parlare solo a minoranze. Vale per la proposta del salario minimo a 9 euro, che certo non riguarda la grande massa dei salariati, così come quella dei 4 giorni lavorativi a parità di retribuzione, che non solo titilla chi ama più il tempo libero del lavoro e mina la già bassa produttività, ma – come ha efficacemente notato Ugo Magri sull’HuffPost, fa ribollire il sangue al vasto mondo degli “h24 per 365 giorni l’anno” (imprenditori, professionisti, lavoratori autonomi, ma anche dipendenti fortemente integrati, come ci sono in tante piccole e medie aziende). Aggiungete l’avversione al Jobs Act, introdotto dal Pd renziano (ma pur sempre era Pd), e una strizzata d’occhio alla suggestiva tesi della “decrescita felice”, che i Napolitano della sinistra seria hanno sempre giudicato “infelice”, e il quadro è completo. E contradditorio, perchè se il lavoro è valore secondario se non negativo, tanto meno può essere l’epicentro dello scontro di classe, marxianamente inteso. Cosa che non impedisce a Schlein di fare da cassa di risonanza alla Cgil di Landini – una volta era il contrario, i padri della sinistra si rigireranno nella tomba! – nella speranza che la piazza perduta le venga restituita dal sindacato.

Non molto diverso è il discorso dei diritti civili. Perché Schlein lo rappresenta non alla maniera dei radicali, vecchi e nuovi – eguaglianza di diritti per tutti – ma in modo radical chic, tendendo all’equazione “diversità = superiorità”, con ciò targando di serie B la normalità. Potete immaginare con quale successo tra i ceti popolari, che non a caso negli ultimi anni si sono massicciamente rivolti prima a Salvini e poi a Meloni. Già, perché è chiaro l’identikit dell’elettore Pd targato Schlein: giovane, precario per necessità ma anche e soprattutto per scelta, che preferisce il reddito di cittadinanza al lavoro, che non coltiva ambizioni professionali, anzi spera che l’automazione dei processi, lo smart working e la nuova frontiera dell’intelligenza artificiale gli consentano di vivere in modo profondamente diverso da padri e nonni, che è dedito “all’io” (ma un individualismo intimista, non in chiave liberale e libertaria) e non gliene frega niente del “noi”.

È dunque evidente che un Pd siffatto sia destinato ad un ruolo di testimonianza o poco più, baloccandosi nell’idea autogratificante di aver riunito la sinistra vera, non quella che guarda al centro, sotto un unico tetto. Meloni l’ha capito, ne è contenta – sbagliando, perché alla lunga non si regge per mancanza di avversari – ed è per questo che difende Schlein collocandola, come la presidente del Consiglio stessa, tra le vittime delle trame oscure dei poteri forti, così tanto evocate in queste ore. Ma la vera risposta ora deve venire dalle componenti moderate e di governo dei Democratici. Qualcuno dice che i furbastri che hanno spianato la strada a Elly con primarie aperte al voto di chiunque (alla faccia degli iscritti) abbiano capito che la loro presunzione di poterla eterodirigere si sia rivelata una pia illusione, e che di conseguenza siano intenzionati a toglierle la sedia segretariale da sotto le terga. Ma ammesso e non concesso che sia possibile, e non che la segretaria sia diventata un Frankenstein incontrollabile, pare vogliano tentare il blitz dopo le elezioni europee, quando potrebbe davvero essere troppo tardi. E poi, così orchestrata, l’operazione avrebbe tutti i crismi delle guerre intestine, che per definizione repellono, a maggior ragione con una politica così screditata come quella odierna. Valga per tutti un articolo di un giornalista di sinistra ma meditato come Alessandro De Angelis, dal titolo evocativo “Piuttosto del Correntone, sempre meglio Schlein con l’eskimo”.

No, non è con una manovra di palazzo che chi ha fatto il danno può rimediare. Chi mi segue da queste colonne sa che le ho più volte sollecitate a rompere gli indugi, uscendo dal Pd per costruire una nuova forza riformista a tre anime (liberal-socialista, repubblicana e popolare), naturalmente accompagnata dall’idea di seppellire nella cantina dei disastri politici il bipolarismo (oggi bipopulismo) fin qui sperimentato. Con ciò aiutando anche il centro-destra a mettere in atto quei chiarimenti politici che consentano di separare il grano liberal-garantista dal loglio nazional-populista e giustizialista. Certo lo spettacolo inguardabile messo in scena da Calenda e Renzi non aiuta, ma è anche vero che ciò avviene in assenza di interlocuzioni serie. Mentre un processo di costruzione di un partito vero e non personale finirebbe col mettere spalle al muro i due galletti nel piccolo pollaio di un centro finora solo evocato.

E, senza rimpianti, si lasci che il Pd di Elly finisca di compiere in via definitiva la sua mutazione genetica da partito a movimento (con o senza i grillini, se la vedano tra loro). Amen.

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