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L'editoriale di Terza Repubblica

Giustizia, mandato pieno a Nordio

MELONI LASCI STARE IL COMPLOTTO E DIA A NORDIO IL MANDATO PER UNA CORAGGIOSA RIFORMA DELLA GIUSTIZIA

di Enrico Cisnetto - 15 luglio 2023

L’Italia ha bisogno, ormai da trent’anni, di una organica riforma della giustizia, che da un lato serva a farla funzionare in tempi civili e in modi equi, e che dall’altro ripristini l’equilibrio perduto tra il potere giudiziario e quello politico, esecutivo e legislativo. A torto o a ragione (io direi entrambe le cose), finora era stata la figura di Silvio Berlusconi ad impedire che ciò avvenisse. Intorno a lui, infatti, si era scatenata quella che senza esagerazione è stata definita la “guerra dei 30 anni” che ha contrapposto non soltanto politica e magistratura, ma anche le diverse fazioni dell’una e dell’altra. Guerra che ha impedito, per l’intollerabile opposizione della magistratura organizzata e per la non meno accettabile incapacità della politica, di andare oltre qualche interventino riformatore qua e là, senza mai incidere davvero sui tanti fronti della malagiustizia. Con il più classico gioco delle parti in commedia che si è ripetuto per tre decenni: chi sta al governo calato nel ruolo del garantista che tutela la presunzione di innocenza, magari chiudendo gli occhi anche davanti all’evidenza di talune responsabilità (se non penali, dell’opportunità politica); chi sta all’opposizione giustizialista dannatamente forcaiolo, che fa strali della Costituzione pur di lucrare elettoralmente sui peccati (e pazienza se presunti) altrui. Salvo poi scambiarsi i ruoli al cambiare delle maggioranze parlamentari.

In realtà, in questi anni la politica (drammaticamente con la p minuscola) si è sottomessa, per ignavia e pavidità, al potere giudiziario – e in particolare allo strapotere delle organizzazioni correntizie dei magistrati – che in alleanza incestuosa con l’informazione ha manomesso lo stato di diritto. C’è chi lo ha fatto aderendo ideologicamente al sovvertimento dell’equilibrio dei poteri, chi è stato giustizialista con i nemici e garantista con gli amici, chi ha predicato bene e razzolato male e infine chi, pur essendo sinceramente desideroso di rimettere le cose al loro posto, non ha avuto la capacità, la lucidità e la forza di fare quella riforma radicale di cui pure ci sarebbe un enorme bisogno. 

Dunque, si poteva legittimamente sperare che l’uscita di scena del Cavaliere potesse chiudere la sanguinosa stagione dello scontro e del rimpallo delle responsabilità. Invece, ecco che torna la sempiterna inclinazione a usare le indagini contro gli avversari e a invocare il complotto della magistratura come giustificazione dei propri limiti nell’azione di governo: 5stelle e Pd attaccano sui “casi” Santanché, La Russa e Delmastro (ma viceversa sulla commissione di inchiesta sul Covid, visto che sotto accusa ci sono Conte e Speranza, parlano di “plotone di esecuzione” e di “giustizia politica”), con l’intento di mandarli a casa a mezzo linciaggio, non per fare giustizia ma per marcare un punto nella campagna elettorale permanente che di qui ad un anno ci porterà al voto europeo; i governativi rispondono tacciando la magistratura, o meglio alcuni suoi pezzi, di essere la vera opposizione (ma non se ne erano accorti quando stavano all’opposizione?) con intenti eversivi. Guarda caso, tutto ciò accade allorquando il ministro Nordio, dopo mesi di silenzio seguito a iniziali dichiarazioni d’intenti riformatori, pare pronto a varare una legge che affronti almeno alcune ragioni della malagiustizia, a cominciare dalla condanna in conto anticipo ottenuta per via mediatica in barba all’articolo 111 della Costituzione e dall’abolizione dell’abuso d’ufficio (con il plauso dei sindaci Pd), dove i rovesciamenti di fronte tra giustizialisti e garantisti è quotidiano. Per poi, chissà, arrivare persino a toccare il tabù dei tabù, la separazione delle carriere.

Il problema però è che lo scontro non avviene su un testo di riforma, ma sulle intenzioni. E in un clima dove il tentativo, assai goffo, del governo Meloni di precostituirsi un alibi a giustificazione dei propri errori, ritardi e mancanze evocando l’assedio della magistratura, rende tutto più difficile. Così, agli occhi del cittadino, sembrano vere due circostanze in entrambi i casi false: che la riforma della giustizia la si voglia fare per difendere i politici sotto accusa e che, se il governo incespica, non è per debolezza intrinseca ma perché un nemico improprio gli mette i bastoni tra le ruote. Non siamo al 1992-93, non c’è (ancora) una crisi di governo dietro l’angolo né tantomeno un clima da fine regime, ma ancora una volta il Paese respira quell’aria inquinata che il cortocircuito giustizia-politica produce. Con l’aggravante che ne abbiamo già i polmoni pieni.

Così, quella che si profila davanti a noi è l’ennesima battaglia della guerra infinita, con Giorgia Meloni – suo malgrado – nei panni che fin qui sono stati del fondatore di Forza Italia. La presidente del Consiglio, invero, ha tentato di divincolarsi, mandando un messaggio forte e chiaro: chi pensa che si torni alla stagione berlusconiana, si sbaglia. Ma sono i tanti casi sorti in questi giorni (dei quali il più grave è sicuramente quello riguardante il presidente del Senato, la cui funzione di seconda carica dello Stato rende difficile tollerare le sue sgrammaticature istituzionali) a mettere Meloni di fronte alla scelta ineludibile di quale ruolo interpretare, se quello della garantista, che pure stride con la storia manettara della sua destra; o quello della debole al cospetto della forza della magistratura, anche a costo di abbandonare i suoi finiti nel mirino dei pm. La cosa più probabile è che pratichi la via di mezzo che è stata tipica di questi decenni, Berlusconi in primis: garantista con i suoi, giustizialista con i nemici, antagonista della magistratura ma prudente se non reticente nel fare le riforme davvero urticanti per i magistrati.

La risposta l’avremo quando Nordio presenterà il testo della sua riforma. Se sarà a tutto campo e dotata del necessario coraggio, che non vuol dire avventatezza ma risolutezza, allora si potrà davvero dire che la politica si sarà riappropriata della sovranità perduta – è dai tempi della lotta al terrorismo, e poi alla mafia e alla corruzione, che ha abdicato a favore del potere giudiziario – e che l’era berlusconiana si sarà felicemente avviata alla conclusione. Viceversa, se ancora una volta saremo di fronte ad un intervento parziale, e quindi fatalmente esposto alla critica di voler incidere solo su alcune questioni in modo strumentale – vi ricordate l’estenuante tira e molla sulla prescrizione ai tempi in cui il Cavaliere bramava salvarsi dai procedimenti in cui era coinvolto? – allora la guerra dei 30 anni entrerà nel quarto decennio, inchiodando il Paese al declino permanente. Ha fatto bene Marcello Sorgi a ricordare, sulla Stampa, che in materia l’ultima riforma sistematica risale al 1988 (codice di procedura penale, ad opera del ministro Vassalli e del professor Pisapia, padre dell’ex sindaco di Milano). Da allora, solo interventi estemporanei, compreso l’ultimo, la cosiddetta riforma Cartabia, i cui limiti sono ormai evidenti. 

Ora però c’è un fattore esogeno in campo, uno di quei “vincoli esterni” che fin qui sono stati determinanti nell’indurci a virtù che da soli non abbiamo, o che comunque non pratichiamo. Parlo del fatto che l’Italia sia sotto osservazione europea perché la riforma della giustizia è un requisito per l’erogazione dei fondi del Pnrr. Bruxelles sa che c’è bisogno di una seria e completa riforma della giustizia, proposta in modo sereno all’attenzione degli italiani. Cioè esattamente quella che Berlusconi non ha saputo (e voluto) realizzare pur predicandola, e che la sinistra ha considerato superflua (con l’eccezione di qualche suo esponente, ma solo dopo essere stato vittima di un’inchiesta giudiziaria). Una riforma che non può e non deve essere fatta né contro la magistratura né con l’ausilio di essa, visto che è (dovrebbe essere) oggetto, non soggetto che si permette di “giudicare” le leggi, persino quando sono ancora in itinere, invece di limitarsi ad applicarle.

Meloni, rispetto ai predecessori che si sono trovati nelle sue stesse condizioni, ha uno svantaggio e due vantaggi. Il “contro” è dato dalla cultura giustizialista di cui è permeata la destra che rappresenta. Dalla quale sembra essersi in qualche modo emancipata, più che compensata, però, dalla paura di perdere il consenso che le procura l’idea di recidere il cordone ombelicale con la cultura identitaria (senza capire che in compenso c’è un bacino enormemente più vasto cui può attingere). I due pro sono il fatto che, al contrario di Berlusconi e Renzi, non è toccata personalmente dalle inchieste, e l’avere nella sua squadra di governo un ministro competente e di limpida cultura liberale come Nordio. Con il 2 a 1 di solito si vince. Ma guai ad abbandonarsi al “complesso di Calimero” (Ferruccio De Bortoli dixit) ed evocare il complotto. Non c’è leader politico e di governo che, praticandolo, ne sia uscito vivo.

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