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L'editoriale di TerzaRepubblica

L'eredità politica del Cavaliere

SI SCRIVE EREDITÀ POLITICA DI BERLUSCONI, SI LEGGE SCOMMESSA (AD ALTO RISCHIO) SUL FUTURO DELLA MELONI

di Enrico Cisnetto - 24 giugno 2023

In Italia lo sport nazionale per eccellenza è il dibattito su questioni marginali o addirittura inesistenti. L’ultimo esempio è l’articolata discussione sulla cosiddetta “eredità politica” di Silvio Berlusconi. Peccato che, se non nella sua versione “elettorale”, sia solo un lascito immaginario. Non esiste, infatti, la successione al Cavaliere in Forza Italia, essendo quest’ultima nata e vissuta esclusivamente a immagine e somiglianza del suo fondatore. E non esiste un erede politico dell’inventore della Seconda Repubblica, per il semplice motivo che – come ho scritto la settimana scorsa – Berlusconi ha permeato l’intero sistema politico italiano dal 1994 al 2011, per poi lasciarcene le scorie dopo averne consumato il fallimento.

Poi uno, se ha tempo da perdere e una certa inclinazione verso la necrofilia, può mettersi a seguire le cronache ricche di gossip sulla presidenza Tajani, sui destini della signorina Marta Fascina, sui movimenti tattici della corrente dei “ronzulliani”, sulla “discesa in campo” di un altro Berlusconi, che sia il fratello Paolo o il figlio Luigi. Tutta roba inutile. D’altra parte, lo stesso Cavaliere non ha mai seriamente pensato ad un successore, un po’ perché si è sempre ritenuto eterno, e un po’ perché ha sempre avuto una visione padronale del “partito-azienda”, destinato per forza di cose a finire con lui. Ergo, Forza Italia rimarrà in vita fintanto che la famiglia del fondatore, e in particolare la figlia Marina, avrà interesse, nel senso che ne assicurerà il finanziamento, a cominciare dal mantenimento delle fidejussioni sul centinaio di milioni di debiti accumulati. Cosa che dipenderà esclusivamente dall’andamento e dalle prospettive del gruppo Mediaset e dintorni. Per ora – ma sarebbe davvero troppo presto per qualunque altro tipo di scelta – si va avanti, con Gianni Letta a fare da garante in nome e per conto di Marina Berlusconi, che peraltro ha già stretto un rapporto solido con Giorgia Meloni. Poi si vedrà se fare un partito unico con Fratelli d’Italia – la Lega, finché ci sarà Salvini a capo e fino a quando rimarrà nel gruppo parlamentare europeo “Identità e Democrazia” con la Le Pen, non è praticabile – o se provare a restare indipendenti. Tutto dipenderà dai sondaggi in vista della prossima verifica elettorale, le elezioni europee di giugno 2024. Adesso l’effetto emozionale della morte di Berlusconi ha prodotto un paio di punti in aggiunta all’8% cui Forza Italia si era attestata alle politiche di settembre scorso, ma ben presto la commozione svanirà e lascerà il posto alla sensazione di vuoto.

Dunque, il tema vero è: come si orienteranno gli elettori berlusconiani? Fermo restando che non troveranno più in Forza Italia ciò che cercavano nel passato, per rispondere a questa domanda occorre farsene preventivamente un’altra: nel frattempo, dove sono andati a finire i voti che fino al 2013 (allora come Pdl) si attestavano intorno al 30%? Sarebbe facile dire che sono andati al partito di Giorgia Meloni, ma in realtà già nel 2018 Forza Italia era arretrata al 14%, quando Fratelli d’Italia era ancora ferma a poco più del 4%. Ciò significa che una parte del tradizionale bottino elettorale berlusconiano era andato ai 5stelle, contribuendo al suo successo, una parte aveva virato verso la Lega consentendole il sorpasso (arrivò al 17%), e una parte non piccola, quella dei delusi, aveva preso la strada dell’astensionismo. L’anno scorso una fetta consistente di chi aveva votato Salvini o i grillini ha preferito la Meloni, mentre la quota aggiuntiva di ex consensi berlusconiani ha scelto il partito di gran lunga maggioritario, quelli che restano a casa perché non trovano più sulla scheda elettorale nulla che minimamente li soddisfi.

Sulla base di questi precedenti, chi di quell’8% residuale che non voterà più Forza Italia perché non c’è più Berlusconi, farà la scelta Meloni? Ovvio, molto dipenderà da come la presidente del Consiglio e il suo governo si comporteranno, ma fin d’ora si può ragionevolmente dire che le uniche alternative a Meloni che quegli elettori avranno davanti saranno il Terzo Polo (ma Calenda e Renzi fanno di tutto perché ciò non avvenga) e l’astensione. Non più i grillini, a maggior ragione in versione Conte, e la Lega salviniana, né tantomeno opteranno per il Pd (non tanto per il vecchio riflesso anti-comunista, ormai dissolto, quanto per l’indigeribilità della Schlein).

Dunque, la vera domanda non è se esista o meno un’eredità politica di Berlusconi, ma diventa: Meloni, che già gode di un consenso non dissimile da quello del Cavaliere dei tempi d’oro, è in grado di assicurare a se stessa la continuità e il ruolo che furono del fondatore di Forza Italia? A dircelo saranno proprio le elezioni europee. Intanto perché essendo di tipo proporzionale, consentono di pesare ciascuna forza politica con maggiore precisione. Ma soprattutto, perché è in Europa che si potrà verificare se la Meloni avrà compiuto, e in quale misura, il suo percorso politico, culturale e programmatico verso il centro, che è appunto il luogo dove – Berlusconi insegna, ma prima di lui la Dc – si domina e si va al governo. Tanto più perché è in atto una manovra di avvicinamento tra il gruppo meloniano ECR-Conservatori e Riformisti Europei e i Popolari (dove c’è Forza Italia). Qui i problemi per la leader di FdI sono due. Uno è di tipo tattico: se rispetto alla cosiddetta “maggioranza Ursula” che oggi regge le sorti della Commissione Ue, Meloni vorrà sostituire il suo gruppo a quello socialista nell’asse con i Popolari, difficilmente l’operazione riuscirà, sia perché molto probabilmente le mancheranno i numeri, sia per le resistenze di quella parte dei Popolari che non è allineata al tedesco Weber, mostratosi prudentemente possibilista; se, invece, il tentativo sarà quello di allargare la maggioranza senza escludere la sinistra, allora qualche chances in più la Meloni ce l’avrà. 

Il secondo problema è di natura strettamente politica, e attiene a tre questioni tra loro interconnesse. Una è la “fermezza europeista” di FdI: c’è apprezzamento per aver sotterrato le vecchie parole d’ordine sovraniste ed euroscettiche, e per l’ancoraggio saldamente atlantista che Meloni ha mostrato nella vicenda russo-ucraina, ma i dubbi restano perché il cambiamento rispetto al passato non è maturato attraverso un dibattito aperto e convincente e quindi si teme che le attuali posizioni siano strumentali. L’altra questione riguarda i rapporti con i mondi del post-fascismo che l’Unione Europea detesta – dagli spagnoli di Vox ai polacchi del primo ministro Morawiecki, fino agli ungheresi del filo-putiniano Orban – che la nostra presidente del Consiglio fatica non dico a recidere, ma persino ad affievolire: l’impressione è che in mancanza di un gesto netto e risolutivo, gli ostracismi resteranno. Così come permarranno, e siamo alla terza questione, se non sarà completato il distacco dal cordone ombelicale che tiene legato FdI, e in particolare il nucleo fondante, al passato missino quando non fascista. Basterebbe togliere la vecchia “fiamma” dal simbolo per dare questa rassicurazione? Probabilmente no, ma di certo sarebbe un segnale gradito.

Tuttavia, la vera partita Meloni la gioca attraverso le sue scelte di governo. Questo intestardirsi a non firmare il Mes, per esempio, tanto più tentando di barattare l’adesione formale con dei cambiamenti da apportare alle regole del nuovo patto di stabilità europeo, non fa che alimentare i sospetti e le riserve. Altro punto decisivo sarà il grado di attuazione del Pnrr, perché se dovesse confermarsi il mezzo fallimento che oggi si profila, il grado di autorevolezza della Meloni in Europa – per quanto le responsabilità non sarebbero solo del suo governo – verrebbe diminuito pesantemente. Per questo sarebbe opportuno che Meloni costruisse in tempi brevi una seconda “svolta”, dopo quella di Fiuggi con cui Gianfranco Fini buttò a mare il Msi e tutti i suoi riferimenti ideologici, attraverso la quale operare un ricambio profondo di classe dirigente (della cui esigenza lei stessa pare convinta, a giudicare dall’insofferenza crescente che riserva ai suoi, nel governo e nel partito).

Infine, c’è il tema del rapporto con Salvini: lei lo soffre maledettamente – è a seguito di un loro alterco che l’altro giorno è nata l’esigenza di rinviare il Consiglio dei ministri per “ragioni personali” – senza capire che più lui porta la Lega su posizioni estreme, a maggior ragione sulle questioni internazionali, più lei può a buona ragione affermare che in Italia e in Europa la destra impresentabile non si chiama Meloni. Ma qui usciamo dal recinto della politica per entrare in una dimensione, quella della tenuta psico-fisica, che richiede il lettino dello psicanalista. Io avrei anche una certa inclinazione a quella professione, ma non mi azzardo oltre.

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Terza Repubblica è il quotidiano online fondato e diretto da Enrico Cisnetto nato nel 2005 dall'esperienza di Società Aperta con l'obiettivo di creare uno spazio di commento indipendente e fuori dal coro sul contesto politico-economico del paese.