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L'editoriale di TerzaRepubblica

Berlusconi e il declino trentennale dell'Italia

NÉ STATISTA NÉ MARIUOLO, BERLUSCONI (IN CONCORSO DI COLPA CON LA SINISTRA) CI LASCIA UNA DEMOCRAZIA MALATA

di Enrico Cisnetto - 19 giugno 2023

È sempre difficile, in certe circostanze, sfuggire ai canoni della retorica, esaltatrice o denigratrice che sia. Tanto più lo è al cospetto della scomparsa di Silvio Berlusconi, uomo divisivo come mai altri pur avendo nutrito per tutta la vita l’ambizione di piacere a tutti. Penso – spero – di potermi sottrarre a questa difficoltà, visto che non solo non ho mai militato né sul fronte berlusconiano né su quello anti-berlusconiano, ma anzi da sempre ho denunciato con forza la deriva cui ci avrebbe portato – e ci ha portato – quella maledetta, inconcludente contrapposizione che dal 1994 in poi abbiamo chiamato, del tutto impropriamente, bipolarismo. E ora che l’ondata di emotività, non di rado fasulla, si va affievolendo, è il momento più propizio per provare a fare una riflessione serena, scevra dagli eccessi e dalle fastidiose ipocrisie delle opposte tifoserie, sulla figura del Cavaliere e sul ruolo che ha giocato in Italia, prima nella società e nel capitalismo, poi nella politica. Dico subito che, come per qualunque mortale, si tratta di un consuntivo fatto di luci ed ombre, un mix che s’incarica di archiviare come fanatiche forzature sia la sua celebrazione carica di aggettivi altisonanti come imprenditore illuminato e rivoluzionario statista al servizio della nazione, sia la sua demonizzazione, non meno aggettivata, come delinquente al centro di ogni trama, nel business e nella vita politica. Giudizi diametralmente opposti che sono riassunti nella sua contraddittoria antropologia: ingegnosità, vitalismo e seduttività, da un lato, egocentrismo e insincerità, dall’altro.

Fino al 1993 Berlusconi era stato un geniale uomo di marketing, con un orecchio particolarmente sensibile nell’ascoltare “la pancia” dei consumatori (tanto da saperla condizionare), che era diventato imprenditore di successo inventando nuovi business – a cominciare dalla televisione commerciale – ma mostrandosi molto meno efficace nella gestione, laddove la complessità di un gruppo diventato articolato avrebbe richiesto qualità manageriali che non aveva e che non cercava nei suoi collaboratori, preferendo altre doti, come la complicità e la fedeltà. Per questo, a ben vedere, Berlusconi non ha mai svolto alcuna funzione sistemica nel capitalismo: fuori dal “salotto buono” dei Cuccia e degli Agnelli, marginale in Confindustria, privo di tratti rivoluzionari alla Adriano Olivetti, appariva più un parvenu che l’architetto di un nuovo sistema di alleanze o il precursore di un diverso modo di fare impresa. Si era fatto ricco, sì, ma ancor più si era indebitato, tanto da dover essere salvato dall’intervento provvidenziale di una banca (Banca di Roma, poi Capitalia) e dalla quotazione in Borsa delle sue televisioni (Mediaset, nata da una costola di Fininvest). È dunque per puro stato di necessità, che 30 anni fa Berlusconi s’inventa la famosa “discesa in campo”: non per puntare a palazzo Chigi (non ci pensava nemmeno) ma per difendere i suoi interessi in modo diverso da quello che aveva usato fino allo scoppio di Tangentopoli, cosa resa necessaria dalla falcidie giudiziaria degli interlocutori (Craxi, ma non solo) che fino a quel momento erano stati il suo baluardo. “Ci facciamo un drappello di parlamentari”, aveva detto ai suoi fedelissimi preoccupati sia di rimanere “scoperti” sia che il suo “discendere in politica” (mai verbo fu più sbagliato ma allo stesso tempo rivelatore) potesse portare più guai che vantaggi. Poi le cose sono andate diversamente: il Cav (nomignolo usato per ragioni di spazio nella titolazione dei giornali) vince inaspettatamente le elezioni del 1994 e si trasforma da imbonitore a uomo di governo, credendo davvero di essere un leader politico e perfino uno statista. In ciò straordinariamente favorito da avversari che nei suoi confronti, trattandolo come nemico da abbattere, hanno commesso due errori esiziali. Primo: per poterlo dileggiare come politico lo hanno consacrato l’imprenditore illuminato che non era. Secondo: lo hanno demonizzato come non meritava, finendo per regalargli l’aureola del martire e per costringere se stessi ad esistere solo ed esclusivamente in quanto suoi nemici.

Si dice che Berlusconi abbia cambiato l’Italia e gli italiani, in meglio o in peggio a seconda dell’appartenenza a una delle due tifoserie. In realtà la sua epoca è stata “un’autobiografia della nazione” (per parafrasare Piero Gobetti sul fascismo) che ha lasciato il Paese e i suoi cittadini così come li aveva trovati (tesi sostenuta anche da Giacalone, Galli e Galli Della Loggia nella War Room di martedì 13 giugno, qui il link). Gli italiani sono sempre gli stessi, con i loro pregi e i loro difetti, ma sembrano diversi perchè per trent’anni nessuno ha indicato loro la strada che occorreva percorrere – anche a costo di scelte impopolari – mentre tutti, imitando Berlusconi che in questo è stato maestro, hanno cercato di vellicare i loro istinti e ascoltare i loro desideri per poi riproporli confezionati sotto forma di altisonanti promesse elettorali. L’Italia è rimasta ferma, omettendo di attuare le grandi riforme strutturali e di realizzare le infrastrutture materiali e immateriali che le avrebbero consentito la piena modernizzazione, con ciò mancando l’appuntamento con le grandi opportunità di fine e inizio secolo, dalla globalizzazione ai diversi step della rivoluzione tecnologica. La curva del pil, tanto più se incrociata con quella del debito pubblico, certifica incontrovertibilmente il declino del Paese in questi tre decenni, sia nel confronto con se stesso che, cosa ancor più grave in un mondo globale, rispetto ai competitor. Non è l’unico indicatore, ma di certo è il più significativo.

Invece, per mano di Berlusconi è certamente cambiata la politica. E sfido chiunque a sostenere che sia cambiata in meglio, sia sotto il profilo della qualità della classe politica sia sotto quello del funzionamento del sistema politico e delle istituzioni. Lo so, in molti ci hanno creduto, pensando che il Re Mida della televisione e del calcio (il Milan stellare dei suoi tempi è sicuramente la cosa gli è riuscita meglio nella vita) avrebbe tramutato in oro anche quella “emme” che era la politica. Ma non è andata così, perchè in fondo l’obiettivo non era la rivoluzione liberale e la modernizzazione del Paese, ma la sopravvivenza, prima, e l’affermazione dell’ego, poi, del Cavaliere medesimo. Si dice che il fondatore di Forza Italia abbia comunque avuto due grandi meriti. Primo: aver creato un partito liberale di massa, e con esso fermato la sinistra ancora comunista nonostante la caduta del muro di Berlino e la fine dell’Urss, e nello stesso tempo aver sdoganato la destra fino a quel momento emarginata. Secondo: aver archiviato la Prima Repubblica inventando un sistema in cui la sera del voto si potevano conoscere senza infingimenti i vincitori e i vinti. Affermazioni vere e false allo stesso tempo, in entrambi i casi. È vero che la nascita (nel 1993) e l’affermazione (nel 1994) di Forza Italia – che di massa è stato solo per quantità di suffragi ottenuti, ma non è mai stato un vero partito e tantomeno liberale – abbia da un lato sbarrato la strada alla “gioiosa macchina da guerra” dell’ex Pci guidato da Achille Occhetto, e dall’altro consentito a Gianfranco Fini di rottamare il vecchio Msi, trasformandolo nella destra moderna (almeno un po’) di Alleanza Nazionale. Due passaggi positivi per la nostra democrazia, in quel momento uscita triturata dalla vicenda – ancora tutta da scrivere, e a cui peraltro i media berlusconiani diedero un aiuto non secondario – di Tangentopoli. Ma il prezzo pagato si è rivelato molto alto: la nascita di un bipolarismo malato, frutto di un sistema elettorale maggioritario che è stato la “grande illusione” che tutti, il Cavaliere e i suoi avversari-nemici, hanno propinato agli italiani. Ed è sotto gli occhi di tutti quale danno abbia procurato al Paese avere una destra e una sinistra la cui contrapposizione non era basata sulla cultura politica e sui programmi, bensì sulla figura di una persona che da un lato aggregava una coalizione “pro” unita al momento del voto ma destinata inevitabilmente a dividersi una volta arrivata al governo, e dall’altro produceva un’armata brancaleone di forze tenute insieme solamente dal collante dell’essere “contro”. Questo è stata la Seconda Repubblica, un bipolarismo strabico, preda delle ali a scapito dei “centri”, basato su due poli pensati per vincere le elezioni e realizzare l’agognata alternanza ma strutturalmente impossibilitati a produrre capacità di governo. Le cui tossine prodotte si chiamano anti-politica, populismo, leaderismo esasperato, sondaggismo, trasformazione dei partiti da anelli di congiunzione tra società civile e istituzioni in cartelli elettorali gestiti con logiche privatistiche, delegittimazione del Parlamento, preminenza della narrazione mediatica sulle scelte reali, disintermediazione dei corpi sociali. Un fallimento riassumibile nel fatto che al termine di quell’esperienza quasi ventennale – terminata nel 2011 con la caduta dell’ultimo governo Berlusconi, rimasto sotto le macerie dello spread – l’Italia si è ritrovata sul piano inclinato di un declino inarrestabile che l’ha fatta arretrare sotto tutti i punti di vista, a cominciare da quello morale nonostante fosse nata proprio per mettere fine alla corruzione politica. E con una democrazia gravemente malata.

Naturalmente, sarebbe ingeneroso, oltre che sbagliato, attribuire la responsabilità di tutto questo solo a Berlusconi. Per esempio, sarebbe bastato che la sinistra non lo avesse scimmiottato piegandosi ai canoni della spettacolarizzazione della politica, non gli avesse offerto l’alibi del martirio, regalandogli un mucchio di voti, non avesse ridotto la cultura progressista a fastidioso moralismo. Ma, soprattutto, i suoi avversari avrebbero dovuto comprendere ciò che il Cavaliere ha sempre disconosciuto, e cioè che per governare il consenso è condizione necessaria ma non sufficiente, e che le scorciatoie elettorali fatte di premi di maggioranza e listini bloccati possono anche portarti (legittimamente) a palazzo Chigi, ma poi ti impediscono di esprimere vera cultura di governo. E se le coalizioni che hai messo in piedi avevano come unico obiettivo quello di battere l’altra parte nelle urne, poi i grandi processi tipici di una società complessa inevitabilmente ti sfuggono di mano.

Inoltre, è vero che il fondatore di Forza Italia, negli anni, è stato oggetto di una intollerabile forma di persecuzione da parte di una magistratura militante, e che dunque gli va dato atto di aver dovuto pensare a difendersi, oltre che a governare. Non c’è nessuna forzatura in questa narrazione, e il fatto che il Cavaliere sia stato abile a costruire e vendere politicamente la sua immagine di perseguitato, nulla toglie al fondamento dell’esistenza di un disegno eversivo nei suoi confronti. Il problema, però, è che proprio sul fronte della giustizia Berlusconi ha mostrato di essere più un uomo di lotta che di governo. Perché ha sì indicato nel giustizialismo dilagante uno dei mali più gravi della Repubblica, ma per difendere se stesso, non per far crescere nella società una coscienza garantista e per imporre nella legislazione gli strumenti della giustizia giusta. Da un lato ha cercato di scendere a patti con la magistratura che gli era avversa – basti ricordare la sua offerta a Di Pietro di diventare ministro della Giustizia in un suo governo – e dall’altro non ha portato a casa una riforma dell’ordinamento giudiziario degna di questo nome, mostrandosi fin da quando nel luglio 1994 fece ritirare il decreto Biondi (ribattezzato “salvaladri” dalla canea giustizialista) attento solo a provvedimenti che lo mettessero al riparo dai processi che incombevano su di lui.

Insomma, oggi la politica – mediatizzata, dilettantesca, fatta di battute sui social, in perenne campagna elettorale – è interamente berlusconizzata, nonostante che negli ultimi 12 anni lui abbia vissuto un lungo autunno caratterizzato solo da un’infinita riproposizione di sé a dispetto dei tempi. Sono tutti figli suoi, i politici di oggi, grillini compresi. Eppure, non lascia eredi, perché non tramanda né una politica, né una cultura, né un partito vero. Il Cavaliere doveva essere l’uomo che avrebbe svecchiato e semplificato la politica, mentre non solo non è riuscito in un intento che ha solamente evocato, ma paradossalmente ha finito per complicarla maggiormente perché ha prodotto nel Paese una tale lacerazione – non solo per colpa sua, s’intende, la sinistra giustizialista ha dato un contributo altrettanto determinante – che ha finito con l’allontanare ancora di più la società civile dalle istituzioni. Il risultato, come ha ricordato l’amico Giacalone nella War Room già evocata, è che l’unica cosa che è cresciuta in questi anni è l’astensione dal voto. Con la differenza che un tempo a casa rimanevano i qualunquisti, oggi ci restano gli italiani per bene stanchi di dover scegliere nel menù elettorale piatti immangiabili.

Ed è alla luce di tutto questo che va vista sanguinosa la partita che si è aperta ad esequie ancora in corso sulla presunta eredità politica di Berlusconi. Ma di questo, per non tediarvi troppo, cari lettori, parliamo la settimana prossima.

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