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L'editoriale di TerzaRepubblica

Pnrr a rischio fallimento

LE CONSEGUENZE PER L'ECONOMIA SAREBBERO DEVASTANTI E NOI STIAMO A LITIGARE SULLA CORTE DEI CONTI

di Enrico Cisnetto - 09 giugno 2023

Alt, fermi tutti. Smettiamola di giocare la partita del Pnrr sulla pelle del Paese, è troppo pericoloso. In ballo non ci sono solo (sic!) le risorse europee da spendere – oltre 300 miliardi se ai 222 del Recovery si aggiungono altri fondi strutturali Ue – ma lo stato di salute più complessivo dell’economia e l’ammodernamento del Paese. Gran parte della crescita del pil prevista per i prossimi anni, infatti, è legata alla totale esecuzione del Piano – è lo stesso governo a dirlo, prevedendo da adesso al 2026 una crescita cumulata del 4,9%, perno intorno al quale ruotano tutte le componenti della finanza pubblica e dunque guai a ridurlo, di cui però i due terzi (3,2%) dipendono dal Recovery – e dunque mancarla significherebbe ripiombare nella stagnazione della stagione degli “zero virgola” o addirittura finire in zona recessione, con ciò tornando ad esporre il debito pubblico (nel frattempo aumentato per via del Covid e della crisi energetica) al rischio di una ridotta sostenibilità, tra l’altro in una fase in cui costa molto più di prima per via dell’inflazione. E poi passa dalla piena attuazione del Recovery la nostra (residua) capacità di fare le riforme strutturali e realizzare le infrastrutture materiali e immateriali che il Paese attende da decenni. Questioni cruciali, troppo importanti per essere lasciate ad una dinamica politica misera, fatta di inutili contrapposizioni ideologiche (vedi la querelle sulla Corte dei Conti), sotto le quali si nasconde il vuoto di contenuti programmatici. Una politica seria e matura, infatti, avrebbe dovuto considerare fin dall’inizio i fondi derivanti dal Next Generation Ue – sia nella determinazione della loro entità, sia nella definizione degli obiettivi di spesa – come una straordinaria opportunità che, anche per la durata, andava condivisa tra tutte le forze politiche, a prescindere dai ruoli di maggioranza e di opposizione (che nell’arco di un tempo superiore ad una legislatura sono destinati a cambiare).

Invece, il governo Conte ne ha fatto una bandiera facendo leva solo sulla quantità delle risorse, arraffate senza tener conto della cattiva performance italiana nella capacità di spendere i fondi europei (a fine 2022, secondo l’Agenzia della Coesione territoriale, avevamo speso solo il 62% del totale, cioè meno di 58 miliardi su quasi 94 pianificati), e non avendo la ben che minima idea di come impiegarli. Ma d’altra parte, per i populisti pentastellati l’unica cosa che importava era sfruttare mediaticamente il risultato, che indubbiamente c’è stato, di aver convinto i paesi europei più riottosi a far partire il Recovery, il resto erano faticose questioni che richiedevano competenze. Il governo Draghi – che pure aveva il vantaggio di godere di una larga maggioranza e quindi essere per definizione più inclusivo – ha avuto il merito di scrivere per tempo il Piano e di istituire una cabina di regia, ma il torto di aver assemblato qualcosa come 171 mila progetti e progettini senza rendersi conto che occorreva un piano strategico e non un semplice elenco di voci di spesa da sostenere. Inoltre, sempre epoca Draghi, le riforme richieste dall’Europa come conditio sine qua non per erogare i finanziamenti sono state fatte, ma in modo parziale e poco coraggioso e come tali destinate a rimanere sulla carta. Quanto al governo in carica, forse perché dominato dall’idea che il Pnrr fosse più un obbligo che non un’opportunità, ha commesso l’errore di non mettere al primo posto della sua agenda, fin dal momento dell’insediamento, la revisione del Pnrr, e quando l’ha fatto (tardivamente) è stato più per questionare con Bruxelles – fino al ridicolo tentativo di barattare l’approvazione del Mes con la riscrittura in modo meno cogente delle regole del nuovo Patto di stabilità, compreso la modifica strutturale del Next Generation Ue e i suoi tempi – che per riqualificare il Pnrr nell’ambito delle nostre responsabilità.

La verità è che a nessuno, neppure ai famosi tecnici, è venuto in mente che la scrittura e l’attuazione del Pnrr richiedevano un metodo e una prassi da “unità nazionale”, per evitare che sull’altare della competizione politica – che in Italia è continua, vivendo in una campagna elettorale permanente, e per di più aggravata dal virus letale del populismo – venisse sacrificata la continuità dei progetti e la velocità del loro avanzamento. Così come non è stata sollevata da nessuno – tranne che dal governo Meloni, ma troppo timidamente – la questione culturale che in Italia sottende la realizzazione delle infrastrutture di ogni tipo. Parlo, da un lato, del “no” per principio a qualunque opera, che a sua volta si articola in un “no sempre e comunque” a cura di una minoranza rumorosa che non trova un adeguato controcanto (dove sono finiti i comitati pro Tav che pure per un momento hanno trovato il coraggio di scendere in piazza?), e in un “ok, ma non nel mio giardino”, che è invece ad appannaggio di una vastissima fetta di opinione pubblica. E parlo, dall’altro lato, di un diffuso pregiudizio ideologico secondo il quale in ogni appalto si annida una sicura fonte di corruzione, che va preventivamente stroncata se non proprio impedendo la costruzione dell’opera in assoluto, di certo alzando l’asticella degli ostacoli che si frappongono sul suo iter, finendo per allungarne a dismisura i tempi e i costi di realizzazione.

Ed è all’interno di questa “tara culturale” che va inquadrata la vicenda della Corte dei Conti, organo di rilievo costituzionale con funzioni di controllo e giurisdizionali sulle amministrazioni dello Stato. Premesso che proprio perché si tratta di una “magistratura”, nel prendere certe decisioni, per quanto giuste, andrebbe usata prudenza e adoperato un certo “tatto istituzionale” – come ha inutilmente cercato di predicare il sottosegretario alla presidenza del Consiglio, Alfredo Mantovano – ma premesso anche che nel corso degli ultimi decenni, quelli della politica debole e screditata e del debito pubblico alle stelle, questo organismo non ha certo brillato per tempestività ed efficacia ma piuttosto per burocratica autoreferenzialità e zelo formalistico, resta il fatto che sospendere momentaneamente e solo in materia di Pnrr il cosiddetto “controllo concomitante” della Corte dei Conti non solo non lede alcun principio costituzionale ma tenta legittimamente di rimuovere uno degli ostacoli che rendono difficile per non dire impossibile la realizzazione delle infrastrutture causa eccessivi controlli e una deriva panpenalista che blocca l’azione amministrativa, peraltro senza aver per nulla debellato la quota patologica di illegalità presente nel sistema. Si badi bene che non è stato sottratto alla “magistratura contabile” il controllo in assoluto, ma solo quello esercitato “di pari passo”, che non solo allunga i tempi a dismisura, ma crea una pericolosa commistione. Ha infatti ragione da vendere il mio amico Paolo Pombeni quando scrive che “consentire all’inquisitore di cogestire con l’ipotetico inquisito un certo percorso non è che disegni un sistema bilanciato di controlli, ma piuttosto un pasticcio di ruoli che dovrebbero rimanere distinti”.

Ma pur essendo la norma sospensiva stata introdotta dal governo Conte 2 e prorogata da quello Draghi – senza obiezioni da parte di alcuno – e quindi semplicemente reiterata dall’esecutivo Meloni, questa volta è successo il finimondo, fino ad evocare una deriva autoritaria di stampo ungherese. Per carità, è vero che Giorgia Meloni e i suoi fanno di tutto – sbagliando – per apparire vittime di congiure che, per reazione, coltivano una idiosincrasia verso i controlli e (soprattutto) i giudizi. Ma ciò non toglie che Pd, 5stelle e il solito milieu cultural-mediatico della sinistra irragionevole, abbiano inscenato una polemica fuori misura, dimenticandosi della comune responsabilità di portare a compimento il Pnrr. Lo stesso stanno cercando di fare con i ritardi – ormai conclamati, ahinoi – del Piano, facendo finta di ignorare che i torti sono generalizzati, sia sul piano politico che istituzionale (si pensi alle Regioni e ai Comuni). Un vero e proprio “concorso di colpa” da cui nessuno si può chiamare fuori, e che proprio per questo innesca un penoso quanto paralizzante scaricabarile.

La china che sta prendendo l’attuazione del Pnrr è da codice rosso. Non è un caso che Bruxelles tenga in sospeso la terza rata dei finanziamenti, che avremmo dovuto incassare già a febbraio, e che sulla quarta, quella di giugno, non ci sia nulla all’orizzonte. E più passa il tempo, più l’attuazione del Recovery si complica. Considerato che i nostri ritardi sono cronici e hanno radici profonde, che si sovrappongono ai problemi strutturali del sistema-paese. Il governo ammette ora, dopo averlo negato, che esistano “numerosi ostacoli” alla realizzazione del Pnrr, ma accusa – tardivamente – l’esecutivo precedente di averli procurati, e con altrettanto ritardo promette di presentare a Bruxelles entro il 31 agosto una proposta di modifica del Piano. Vedremo cosa sarà, ma temo non sia quello che il presidente di Confindustria, Carlo Bonomi, chiede giustamente: un “business plan” da far realizzare al sistema industriale.

Insomma, siamo di fronte ad un gioco di corto respiro, mentre al cospetto del possibile fallimento del Recovery Plan, o comunque ad uno suo radicale ridimensionamento sia per quantità di risorse usate sia per la strategicità delle cose realizzate, occorrerebbe un sussulto di orgoglio e di responsabilità nazionali. Le voci più autorevoli (quelle poche rimaste) dovrebbero levarsi per spingere il Paese intero ad acquisire la consapevolezza che il Pnrr è il “piano Marshall” dei nostri tempi, che avere alcune centinaia di miliardi di euro a condizioni incredibilmente vantaggiose per cambiare l’Italia non è una medicina amara, né tantomeno un veleno, che l’Europa ci costringe a trangugiare. E spiegare che tutti (maggioranze, opposizioni, burocrazie, magistrature, parti sociali) devono impegnarsi al massimo per non sprecare questa straordinaria opportunità. I nostri meccanismi decisionali non aiutano, anzi, ma la gestione di alcune emergenze ha dimostrato che, volendo, si può fare.

Se invece prevarrà la tentazione della polemica fine a se stessa, il rimpallo delle responsabilità, la speculazione elettorale (peraltro presunta, visto che ormai prevalgono gli astenuti), il desiderio di imbarcarsi in guerre di religione, allora è tanto facile quanto amaro pronosticare un disastro che non solo azzererà la nostra credibilità verso i mercati (do you remember lo spread?) e verso l’Europa, ma potrebbe anche compromettere il processo di integrazione continentale, visto che il fallimento del Pnrr sarebbe il fallimento del Next Generation Ue e con esso la fine dei tentativi di costruire un debito comune. Pensateci bene. Anche perché dal 2020, quando in piena pandemia è partito il piano europeo di sostegno e rilancio, a oggi si sono alternati alla guida dell’Italia tutti i partiti, con tutte le maggioranze e le combinazioni di governo possibili (e anche impossibili), per cui mandare a ramengo il Pnrr sarebbe un fallimento collettivo, da cui nessuno potrebbe chiamarsi fuori.

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