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L'editoriale di TerzaRepubblica

La grande malata d'Europa

DEBITO, RIFORME, PNRR, MES E DISSESTO IDROGEOLOGICO L’ITALIA CONTINUA AD ESSERE PECORA NERA

di Enrico Cisnetto - 27 maggio 2023

Ci risiamo. L’Italia torna ancora una volta a vivere lo psicodramma di ritrovarsi pecora nera d’Europa. I nodi stanno venendo al pettine, e presentano il conto – salato – a chi ha gestito il Paese negli ultimi anni, non solo a chi ne ha la responsabilità in questo momento. Perché se qualcuno (a sinistra) si sente il primo della classe e pensa che la severa bocciatura arrivata in queste ore dalla Commissione europea alla nostra politica economica e di bilancio sia rivolta solo al governo Meloni, si sbaglia di grosso. Così come è in errore, nella stessa misura, chi (a destra) gioca a fare la vittima credendo che quello di Bruxelles sia un atto politico deliberatamente ostile nei confronti di un esecutivo determinato a rompere gli equilibri (alleanza tra popolari e socialisti) su cui si regge il potere comunitario. La verità è che l’Italia è, da tempo, un problema. Di certo non l’unico in Europa, ma di sicuro il principale. Specie ora che la Grecia, 15 anni dopo la crisi sanguinosa che l’aveva costretta a subire il commissariamento della Ue, sta dimostrando come sia possibile contemperare crescita economica e riduzione del debito pubblico, anche se a costo di molti sacrifici. 

Noi, invece, da un lato siamo accusati di rimandare la ratifica del Mes, con ciò bloccandone il possibile uso a tutti gli altri. Una posizione che appare illogica, visto che nel firmare non contrarremmo nessuno obbligo a usarlo, isolata, considerato che siamo gli unici a non averlo fatto, e pretestuosa, perché a suo tempo ci eravamo impegnati in tal senso. Dall’altro lato, siamo sotto osservazione per troppo debito e troppo deficit. Non sanzionati, perché il Patto di stabilità che prevede la procedura d’infrazione è stato momentaneamente sospeso a seguito della crisi Covid e di quella energetica innescata dalla guerra scatenata dalla Russia nei confronti dell’Ucraina. Ma già preavvisati che accadrà il prossimo anno con la riattivazione delle regole di contenimento della finanza pubblica, se le nostre politiche dovessero rimanere invariate.

Nelle sue raccomandazioni di primavera, la Commissione Ue, al di là dei toni morbidi e dell’apprezzamento per alcuni passi avanti, sostiene che l’Italia presenta “squilibri macroeconomici eccessivi”, con debolezze come la bassa crescita della produttività che sono “di lunga data” (ecco perché ce n’è per tutti, visto che dal 2018 a oggi non c’è forza politica che non sia stata al governo, persino con l’aggiunta di tecnici). E alla fine sciorina tutte le nostre “vulnerabilità”: rientro dal debito marginale, di fatto lasciato al solo crescere del pil; livello di deficit eccessivo, tanto che il prossimo anno dovremo contenere la spesa primaria e ridurre i saldi di almeno lo 0,7%; riforme strutturali mancate (dalle concessioni balneari alla concorrenza e alle politiche attive del lavoro) o non incisive (da quella della giustizia a quella del catasto), cui si aggiungono quelle temute (l’autonomia differenziata, che rischia di avere “un impatto negativo sulla qualità delle finanze pubbliche e sulle disparità regionali”). Non mancano infine rilievi sulle nostre abituali criticità: dai disastri ambientali alla fragilità delle politiche per la transizione energetica, passando per l’eccesso di sussidi, di cui peraltro si mette in dubbio anche l’efficacia.

Ma come se tutto questo non bastasse, siamo nel mirino di Bruxelles anche per i ritardi che stiamo accumulando nell’attuazione del Pnrr, sia dal lato delle riforme che da quello della realizzazione delle opere e dei progetti su cui abbiamo preso impegni. Deficit progettuali ed esecutivi che Meloni ha certamente ereditato – e che spiegano la fretta con cui il suo predecessore ha inteso chiudere la sua esperienza di governo – ma che lei ha avuto il torto di non denunciare per tempo, mancando anche di proporre delle alternative. Adesso, tra l’altro, occorre fare in fretta anche per eventuali modifiche al Piano: entro giugno, altrimenti “il ritmo delle rate sarebbe a rischio”, ammonisce la Commissione. Che si mostra preoccupata – e come potrebbe non esserlo – della governance del Pnrr, tanto da invocare un “rafforzamento della capacità amministrativa” soprattutto a livello locale, laddove l’assurda quantità di piccoli e piccolissimi progetti in cui si è voluto spezzettare il Piano fa cortocircuitare il nostro elefantiaco e mediocre decentramento. In queste condizioni è altamente probabile che i rubinetti europei si chiudano, almeno parzialmente: ora, è vero che se ciò dovesse accadere i primi a rimetterci saremmo noi, ma è altrettanto vero che il nostro Pnrr cuba la gran parte delle risorse del Next Generation Ue, e dunque anche per l’Europa sarebbe un fallimento. Che ci sarebbe politicamente imputato, con quel che (di grave) ne seguirebbe.

 

Non contenti di tutto questo, abbiamo anche provato a fare i furbi, tentando di intavolare uno scambio, una sorta di baratto tra MES e nuovo Patto di Stabilità: noi vi approviamo il Meccanismo europeo di stabilità, voi rendete meno cogenti le regole sui conti pubblici. Peccato che a Bruxelles la cosa sia suonata come un ricatto, e di conseguenza sia stata respinta al mittente (su questo si veda la War Room di giovedì 25 maggio con Bini Smaghi, Fubini e Bruni, qui il link). Con il risultato che sul rinnovo del Patto di stabilità si chiuderanno tutti gli spazi di negoziazione – anche perché è difficile contestare il presupposto su cui si basa, e cioè che il debito italiano sia l’unico a correre un rischio di sostenibilità (“substantial fiscal sustainability challenge”) – e sul Mes l’Europa potrebbe procedere senza di noi, facendoci perdere la credibilità che stiamo faticosamente cercando di (ri)conquistare e inducendo i mercati ad agitare di nuovo la clava dello spread (il nostro è fermo a quota 180 ma quello greco è sceso a 140…). Insomma, ci ritroveremmo con un pugno di mosche in mano. Anzi, peggio, perché l’invito comunitario a “garantire una politica di bilancio prudente” mette il governo di fronte ad un bivio: assecondare la Ue, con ciò ritrovandosi nella condizione di non riuscire a mantenere le promesse fatte ai propri elettori (dalla flat tax al Ponte sullo Stretto, tanto per fare solo un paio di esempi) oppure sforare, e con ciò armare il plotone d’esecuzione di chi lo vuole abbattere. Tanto più che ciò accadrebbe proprio sotto elezioni, visto che l’anno prossimo si voterà per il parlamento europeo. Un voto con meccanismo proporzionale che indurrà ad un “tutti contro tutti” sanguinoso, che già sarebbe da solo sufficiente a moltiplicare gli effetti del contenzioso con l’Europa e a indurre le forze sovraniste a rispolverare i vecchi cavalli di battaglia frettolosamente nascosti, ma che potrebbe subito dopo la consultazione elettorale europea aprire una crisi politica interna che difficilmente avrebbe uno sbocco alternativo alle elezioni anticipate.

Sia chiaro, i raggi X la Commissione europea li fa ogni anno a tutti i 27 paesi membri. E in quelle che un po’ paternalisticamente chiama “raccomandazioni” quest’anno ha riservato all’Italia esortazioni che per merito e linguaggio, non sono diverse da quelle precedenti. Ma sarebbe un gravissimo errore non considerare sia l’effetto accumulo, per il quale la stessa osservazione ripetuta più volte rende l’ultima più grave della prima, sia l’effetto consunzione, visto che le strutture istituzionali, politiche, amministrative e civili del nostro paese mostrano evidenti crepe – quelle per le quali De Rita e il Censis negli ultimi anni hanno evidenziato la risposta “individualistica” ai problemi collettivi – che rendono sempre più faticosa, e quindi sempre meno probabile, la reazione. Si pensi, ma è solo per fare un esempio, a come le recenti inondazioni in Emilia-Romagna abbiano messo per l’ennesima volta in evidenza la filiera dei mali endemici italiani: avendo 20 mila chilometri di fiumi “tombati”, il 93% del territorio nazionale è a rischio di disastri di natura idrogeologica, ma per attuare la prevenzione – che notoriamente costa meno degli interventi riparatori, anche al netto della drammatica contabilità umana – sono stanziati solo 3 miliardi, di cui cantierati poco più di un terzo; il risultato lo abbiamo visto, e ancora volta parte la giostra degli aiuti, che saranno intensi fintanto che l’attenzione mediatica sarà alta, per poi affievolirsi e terminare quando il tema sarà uscito dal radar.

Lo sappiamo, agire quando non c’è un’emergenza non ha appeal elettorale, perché nessuno se ne accorge. Un fiume che non esonda non fa notizia e quindi non produce consenso politico. La conseguenza è che si grida contro il cambiamento climatico prefigurando scenari apocalittici, ma intanto si lascia tutto così com’è. Tanta ideologia ma niente pulizia dei fiumi, niente dighe, niente argini ai torrenti. Insomma, niente investimenti. Negli ultimi vent’anni degli oltre 26 miliardi stanziati per la lotta al dissesto idrogeologico, ne sono stati spesi solo 7. La struttura di missione creata nel 2014, che aveva aperto 1500 cantieri e speso 1,4 miliardi, nel 2018 è stata soppressa dal governo Conte 1. Perché? Probabilmente solo perché “Italia Sicura” era stata creata da Renzi. Ogni governo fa il suo piano, e si ricomincia sempre da zero. Poi è difficile attribuire al caso o alla sfortuna il fatto che ogni 7 frane che avvengono in tutta Europa, ben 6 sono di nostra pertinenza. Se c’è una ragione che non siano ignavia e negligenza, lo si vada a spiegare ai famigliari delle vittime. Per esempio, qualcuno spieghi perché laddove (gran parte del territorio emiliano) sono stati realizzati i bacini artificiali detti “casse di espansione” non è successo niente, mentre le esondazioni si sono verificate laddove quell’infrastruttura che serve ad accogliere l’eccesso di acqua dei fiumi è rimasta sulla carta nonostante la Regione avesse ricevuto, tra il 2015 e il 2022, 190 milioni per farne 23, ma soltanto 12 funzionano a pieno regime e 2 in parte, mentre 9 attendono la fine dei lavori e 2 sono ancora da finanziare (vero ex assessore Elly Schlein?).

L’Italia in Europa continua ad avere un ruolo di peso, non fosse altro per la resilienza mostrata dal sistema industriale. E lo conserva nonostante che a destra scappi spesso la frizione sovranista evocando un non meglio precisato “ruolo da protagonista” che ci spetterebbe di diritto e che si montino polemiche anti-europee del tutto autolesioniste, e a sinistra si giochi al “tanto peggio, tanto meglio” di antica memoria. Ma si sta tirando troppo la corda, da troppo tempo. E prima o poi si spezza.

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Terza Repubblica è il quotidiano online fondato e diretto da Enrico Cisnetto nato nel 2005 dall'esperienza di Società Aperta con l'obiettivo di creare uno spazio di commento indipendente e fuori dal coro sul contesto politico-economico del paese.