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L'editoriale di TerzaRepubblica

Meloni e la scommessa politica del 2023

RACCONTANDO LA CRISI CHE NON C’ERA MELONI HA VINTO LE ELEZIONI, ORA CON LA CRISI CHE CI SARÀ E' CHIAMATA ALLA PROVA DEL GOVERNO

di Enrico Cisnetto - 23 dicembre 2022

Il 2022 sta per chiudersi e lasciare il testimone al nuovo anno. È dunque tempo di bilanci e previsioni. Non mi sottraggo.

Drammaticamente questo è stato, e come tale passerà alla storia, l’anno della guerra alle porte dell’Europa: Vladimir Putin ha invaso l’Ucraina, avendo in mente non solo di annetterla alla Russia – al costo di migliaia di morti e feriti e di una feroce devastazione – ma anche coltivando il folle disegno di sovvertire l’ordine geopolitico del mondo. A dieci mesi dall’invasione, nonostante il conflitto sia ancora in corso, tutto sommato possiamo dire che gli è andata male. Nel frattempo però il sanguinario presidente russo, al di là degli orrori, ci ha fatto pagare un prezzo altissimo: energia a costi insostenibili, materie prime introvabili, inflazione a due cifre. Con la prospettiva che il 2023 riservi a mezzo mondo la recessione. Se così fosse, gli anni Venti di questo secolo metterebbero a segno un non invidiabile trittico di eventi tragici – pandemia, guerra, recessione – da far impallidire il 2001 (torri gemelle), il 2008 (crisi finanziaria globale) e il 2011 (crisi dei debiti sovrani europei). Ma se questo è il rischio, la speranza è che il 2023 sia invece l’anno in cui il Covid sarà derubricato da pandemico a endemico; che la guerra volga al termine, e non per gli auspici di un pacifismo spesso peloso, ma perché saranno riconosciute le ragioni di Kiev e fermata la mano di Putin; che l’inflazione abbia già toccato il suo apice e sia dunque destinata a calare, riducendo a semplice frenata la conseguenza della crisi economica che inevitabilmente ci sarà. E ci sono sufficienti ragioni che militano a favore del fatto che tutte e tre queste speranze si avverino.

In questo quadro l’Italia – nonostante il populismo sempre in agguato – ha tenuto una postura tutto sommato dignitosa: ha portato a termine una campagna vaccinale efficace, sconfiggendo la minoranza rumorosa dei no-vax; è stata senza riserve con Kiev, facendo la sua parte in Europa; ha proseguito la crescita iniziata l’anno scorso così da recuperare nel biennio oltre i 10 punti di pil e chiudere il buco creatosi nel 2020 per colpa del Covid. Tutto questo lo ha fatto grazie a Mario Draghi, che però ha lasciato la scena troppo presto, riconsegnando le chiavi di palazzo Chigi alla politica democraticamente uscita dalle urne. Bene, se non fosse che questa è, e continua ad essere, malata e affetta da patologie antiche che hanno finito per minare le stesse istituzioni. Gli italiani, delusi e melanconici – come li dipinge il Censis – hanno cercato rimedio ai guai consacrando una nuova leadership, per la prima volta al femminile.

Non c’è dubbio che il 2022 si sia chiuso e il 2023 si sia aperto all’insegna di Giorgia Meloni. Per merito suo, prima di tutto: piaccia o non piaccia, oggi la presidente del Consiglio è l’unica, insieme con Matteo Renzi, a saper fare politica. Ma anche grazie alla pochezza dei suoi due alleati, Silvio Berlusconi e Matteo Salvini – che smaniano dalla voglia di metterle i bastoni tra le ruote, ma sono così goffi da renderla solo più popolare – e alla disarmante povertà delle opposizioni, a cominciare dal Pd che si è infilato in un tunnel congressuale che non lo porterà da nessuna parte se non nelle fauci di Conte, chiunque faccia il segretario.

Per questo il destino di Meloni, suo personale e del governo che presiede, è quasi esclusivamente nelle sue mani. Il passare dei mesi, venendo al pettine tanti nodi, ci dirà se saprà consolidarsi o se è destinata ad allungare la già folta lista delle meteore il cui tempo breve nella politica italiana è scandito da ritmi usa e getta sempre più veloci. Nell’uno come nell’altro caso, comunque, il sistema politico e istituzionale è inevitabilmente destinato a modificarsi in modo profondo. Se fallirà, si creerà un vuoto che difficilmente si potrà colmare con un nuovo governo tecnico, e per questo si apriranno scenari inesplorati. Se invece ne uscirà vincitrice, sarà lei stessa a mettere in moto dei processi nuovi, considerato che con tutta evidenza l’attuale alleanza di governo non solo le va stretta, ma è anche uno dei suoi principali problemi (come si è visto nel tormentato e dilettantesco iter politico-parlamentare della legge di bilancio).

La partita decisiva Meloni la giocherà sul terreno dell’economia. E dovrà fare i conti, oltre che con la realtà delle cose, con la narrazione che qualche mese fa l’ha portata a vincere le elezioni. Lei e il centro-destra, diventato destra-centro nelle urne, hanno infatti vinto raccontando una crisi che non c’era. A settembre, quando si è votato, l’andamento del pil per il 2022 era ormai quasi definito: sapevamo che saremmo cresciuti di poco meno del 4%. Ora consuntiviamo l’anno con un eccezionale +3,9%, che se sommato al boom del 2021 (+6,7%), ci consente non solo di tornare ai livelli pre Covid, ma addirittura di marcare un andamento migliore di quello di Francia e Germania (cosa che non avveniva da tempo immemore). A dispetto delle fosche previsioni la produzione è salita, l’export ha corso, l’occupazione è aumentata. Sì, certo, è scoppiata la guerra e con essa ci è arrivata addosso una pesante crisi energetica e una bruciante fiammata inflazionistica. Ma lo scenario da incubo descritto per indurre gli elettori a voltare pagina, era fasullo. Ciononostante, il giochetto ha funzionato. Però, adesso che ci sarebbe bisogno di narrare la svolta, si fatica a scriverne il copione perché si dovrebbe descrivere una rimonta che non c’è stata. Non solo. Ora la crisi arriva davvero, ce ne sono tutte le premesse: a fine 2022 l’industria è in calo, le costruzioni hanno smesso di trainare, i servizi tengono faticosamente. L’inflazione frena i consumi, mentre il rialzo dei tassi scoraggia gli investimenti e “zavorra” i bilanci delle imprese. Si tratta solo di capire se il ripiegamento dell’economia sia destinato ad essere passeggero, con una ripresa significativa già nel 2024, magari trainata dagli investimenti del Pnrr (ammesso che si riesca farli) o se invece torneremo stabilmente alla stagione della crescita zero, o al massimo zero virgola. Comunque, la politica si è già giocata tutte le carte a disposizione nell’ambito dei margini di deficit e debito che ci sono concessi e fatica ad andare oltre l’orizzonte dei bonus. E certo non aiuta la condizione psicologica degli italiani: l’economia è fatta anche e soprattutto di fiducia e, se le aspettative sono flebili, i consumi frenano e gli investimenti latitano.

Insomma c’è il rischio che ciò che non era vero, ma spacciato come tale fino a ieri, diventi vero oggi. Ecco spiegata la tentazione di dare la colpa a qualcun altro – l’Europa, la Bce – e di farsi prendere dalla sindrome di sentirsi vittime di presunti poteri avversi, come la Banca d’Italia. Così si spiegano l’infantile tentennamento nell’approvare il Mes senza peraltro saper formulare un giudizio di merito sullo strumento e il deleterio attacco alla Bce e alla sua politica monetaria. Che a Francoforte non siano stati capaci di leggere per tempo la traiettoria che poi ha avuto l’inflazione è cosa acclarata. E che Christine Lagarde abbia sbagliato tempi e modi degli annunci e dei rialzi dei tassi lo è altrettanto. Ma questo non significa che averli portati al 2,5% a fronte di un’inflazione all’11% non fosse nell’ordine delle cose. Così come è falso e ipocrita imputare alla Bce di non avere avvertito per tempo l’Italia che gradualmente non potrà più contare sul “quantitative easing”, l’ombrello protettivo voluto da Draghi e di cui abbiamo beneficiato per anni (senza approfittarne) per mettere i conti in ordine. In tutti i casi, un esecutivo autorevole non si mette a polemizzare pubblicamente su questioni così delicate, ma lavora nelle sedi opportune per creare le condizioni per una politica monetaria di altro stampo (ammesso che ne conosca una alternativa). Non fosse altro perché nel 2023 dovrà piazzare sui mercati oltre 320 miliardi di titoli di Stato. Per riuscirci sarebbe opportuno abbandonare l’illusione che i problemi ce li debbano risolvere gli altri (salvo attaccarli se ci pare che non lo facciano).

Prima Meloni capirà che è falsa l’idea che i grandi drammi, dal Covid alla guerra con le relative conseguenze, abbiano cambiato le regole dell’eurozona e le leggi dell’economia e tanto maggiori saranno le sue chance di vincere la partita. C’è disperatamente bisogno di riconquistare la fiducia degli italiani alla politica e al futuro del Paese e lo si più fare solo offrendo loro un progetto di società in cui si cambia radicalmente il paradigma della politica come “distribuificio”, per cui partendo dal presupposto che la società è un lazzaretto pieno di moribondi ogni attenzione è riservata solo alla distribuzione di benefici (veri e presunti), siano essi sotto forma di “dare” (bonus, incentivi, sussidi, sovvenzioni, ecc.) o di “non avere” (riduzioni di aliquote, sgravi, deduzioni, gratuità, ecc.), in una continua rincorsa a chi offre di più. Se Meloni lo capirà e proverà a liberare le energie compresse, il 2023 sarà l’anno della sua consacrazione. Se, viceversa, percorrerà le antiche strade della spesa improduttiva e dello Stato protettore, allora la congiuntura s’incaricherà di farne l’ennesimo fallimento politico. 

A noi tutti, buon anno.

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