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L'editoriale di TerzaRepubblica

Pnrr e enti locali

QUASI 200 MLD DI RISORSE UE IN MANO AGLI ENTI LOCALI E PIÙ AUTONOMIA ALLE REGIONI: 'SICURI CHE SIA UNA BUONA IDEA?

di Enrico Cisnetto - 17 dicembre 2022

Secondo stime del Governo, 68 dei 196 miliardi che rappresentano le risorse del Pnrr, cioè circa il 36% del totale, saranno affidati alla gestione di Regioni, Province, Comuni, Città metropolitane o altre amministrazioni locali. A questi vanno aggiunti oltre 75 miliardi relativi ai “Fondi europei per la politica di coesione 2021-2027” – di cui circa 43 specificamente destinati a promuovere la politica di coesione economica, sociale e territoriale (oltre 30 miliardi per le regioni meno sviluppate) e il resto provenienti dal cofinanziamento nazionale – da spendersi attraverso i Programmi Regionali promossi da tutte le Regioni e le Province Autonome (circa 49 miliardi) e 10 Programmi Nazionali (26 miliardi). E ancora altri 50 miliardi, quelli del “FSC-Fondo per lo sviluppo e la coesione”, sempre per il ciclo di programmazione 2021-2027, vanno alle Regioni secondo la seguente articolazione temporale: 4 miliardi per il 2021, 5 miliardi annui dal 2022 al 2029 e 6 miliardi per l’anno 2030. Tutti esclusivamente destinati a sostenere interventi volti a ridurre i divari socio-economici tra le diverse aree del Paese.

Quasi 200 miliardi nelle mani delle nostre amministrazioni locali: siamo sicuri che sia una buona idea? Davvero pensiamo che il nostro decentramento amministrativo, per come l’abbiamo conosciuto fin qui, Regioni in testa, sia all’altezza di gestire questa gigantesca massa di risorse – mai così prima d’ora – da cui dipende l’indispensabile e indifferibile ammodernamento dell’Italia, oltre che una fetta non indifferente del nostro pil futuro? Basterebbe vedere la scandalosa incapacità di spendere i fondi europei – anzi, l’incapacità di attingere a quei fondi per mancanza di progetti – dimostrata negli anni, per capire che si tratta di un azzardo. Eppure, non solo è così, ma invece che mettere paletti per ridurre gli effetti negativi del nostro federalismo alle vongole, si pensa di introdurre la cosiddetta “autonomia differenziata”, che altro non è che la cessione di ulteriori competenze alle Regioni. Anzi, è di pochi giorni fa la proposta di Matteo Salvini di “reintrodurre l’ente Provincia dotato di funzioni, con eletti, denari e poteri”. Aggiuntivamente, sia chiaro, non sostitutivamente.

Ora, se Giorgia Meloni intende davvero essere l’alfiere della discontinuità, come ha detto e ridetto, allora sarà bene che faccia tre cose: blocchi sul nascere le pulsioni leghiste per questo rafforzamento dell’autonomia regionale e il ripescaggio delle Province; non ceda alla tentazione di scambiare il presidenzialismo cui tiene lei particolarmente con l’autonomia differenziata cui tiene Salvini (è da discutere che il presidenzialismo sia o meno una buona idea, ma certo non merita il prezzo di una accentuazione del nostro già sgangherato federalismo); si faccia carico di una seria (contro)riforma del titolo V della Costituzione. 

Tra Regioni, Province (che sono ancora lì nonostante i proclami, la legge Delrio ha prodotto solo un effetto semantico: sono state ribattezzate “aree vaste”), Città metropolitane, Comuni e l’universo composto da comunità montane, enti di bacino, consigli di quartiere e i molti altri enti di secondo e terzo grado, siamo il Paese dei mille campanili, tutti dotati di potere di spesa e diritto di veto. Un Paese frantumato a livello decisionale, prigioniero di conflitti istituzionali infiniti. Da quando sono state istituite, nel 1970, le Regioni hanno dato pessima prova di sé, anche se non tutte in egual misura. Sbandierate come l’antidoto al centralismo e agli storici squilibri territoriali, hanno invece prodotto un notabilato locale assai peggiore della burocrazia statale e hanno finito con l’accrescere, non ridurre, il divario Nord-Sud. E hanno finito col diventare tanti costosissimi staterelli in conflitto permanente tra loro e con lo Stato centrale.

Ma è stato il Covid a rendere visibile a occhio nudo il disastro, rimediato solo quando si è provveduto ad accentrare in mani commissariali nazionali (il generale Figliuolo) la campagna vaccinale. E sì, perché non c’è dubbio che al cospetto della pandemia, l’Italia si sia presentata con una sanità che in realtà sono venti Servizi Sanitari Regionali (SSR) diversi e senza alcun collegamento tra loro – se non quelli lasciati alla buona volontà individuale – e con una qualità a macchia di leopardo, sia dal punto delle strutture che delle terapie offerte, che va dall’estremo dell’eccellenza mondiale a quello opposto della più assoluta fatiscenza e inefficienza. In quella circostanza si è vista la mancanza di coordinamento, la frammentazione delle competenze, il conflitto permanente tra centro e poteri locali, a tutto danno di velocità ed efficienza operativa. Insomma, quello che l’ex presidente della Consulta, Cesare Mirabelli, ha definito “micro sovranismo regionale”. Ora, è evidente che per ridare unicità al servizio sanitario da Bolzano a Trapani, ripristinando il dettato costituzionale che tutela l’uguaglianza dei cittadini, occorra riaccentrare le competenze sanitarie in capo allo Stato, magari attraverso una moderna forma mutualistica, sul modello olandese. E siccome la sanità rappresenta la vera competenza regionale, considerato che la spesa sanitaria incide per circa l’80% sul bilancio delle Regioni, ovvio che ripensare il sistema sanitario significa ripensare il decentramento amministrativo. Tanto più se si aggiunge la necessità, altrettanto fondamentale della ricostruzione del sistema sanitario nazionale, di non sprecare l’occasione storica e irripetibile della spesa infrastrutturale derivante dal Pnrr e dagli altri fondi europei.

Insomma, l’Italia non è un paese federale ma si comporta come se lo fosse. Per questo è richiesta una riformulazione del federalismo fin qui praticato. Il ministro Calderoli intende rispondere a questa esigenza alzando il tiro: maggiori competenze (23 materie), anche laddove si tratta di diritti fondamentali come sanità, istruzione, lavoro; potenziale accesso di tutte le attuali regioni a statuto ordinario di diventare “speciali” con l’autonomia differenziata; potenziamento dell’attuale conferenza Stato-Regioni, che già ha assunto un potere che non le compete trasformandosi in luogo di decisioni che spettano al Parlamento (come ha ottimamente spiegato Isia Sales su Repubblica del 10 dicembre), accentuando ancora di più il meccanismo bilaterale governo-regioni a discapito di Camera e Senato. Francamente non credo che sia la strada giusta, anzi. Chi segue da tempo TerzaRepubblica sa che non siamo mai caduti nella tentazione di pensare che fosse giusta l’equazione decentramento amministrativo uguale maggiore vicinanza ai problemi dei cittadini e miglior soluzione di essi, e dunque sa anche che abbiamo sempre spinto per una semplificazione del sistema delle autonomie. Il tema, dunque, è come ridurre ciò che oggi è ridondante, non come ampliarlo ulteriormente.

A mio giudizio le ricette possibili sono solo due. Entrambe partono dal presupposto che il vero federalismo da realizzare è verso l’alto, cioè quello europeo, e postulano la necessità di una estrema razionalizzazione, atteso che un sistema amministrativo articolato su 20 Regioni (di cui 5 a statuto speciale), poco meno di 8.000 Comuni (di cui il 70% sotto i 5mila abitanti), 76 Province, 14 Città metropolitane e quasi 500 enti intermedi (nonostante nella riforma Delrio il limite fosse 90), è per definizione elefantiaco e inefficiente. Quindi la prima mossa da fare è ridurre il numero dei Comuni (stabilendo la soglia minima di 5 mila abitanti e aggregando, coercitivamente, tutti quelli che sono sotto), abolire una serie enti intermedi inutili e riordinare e aggregare le competenze. Poi, partendo dal presupposto che tra i Comuni e lo Stato è necessario avere un soggetto intermedio, occorre scegliere tra due diversi scenari: creare le macro-regioni e abolire (davvero) le province, oppure abolire le regioni e creare le macro-province. Fermo restando che è da escludere, per ragioni di costo e di efficienza, la permanenza di entrambe le tipologie di amministrazioni così come è oggi.

Nel primo caso ci viene in aiuto un lavoro fatto dalla Fondazione Agnelli, che ha tracciato i confini delle regioni immaginando che ne rimangano 6 su 20. Ad esse verrebbe sottratta la competenza sanitaria, riportandola in capo allo Stato centrale, e assegnate funzioni di coordinamento dei Comuni, assumendo una sorta di ruolo di cuscinetto tra essi e lo Stato. Naturalmente in questo caso l’abolizione effettiva delle province – che hanno conservato la competenza su 130 mila chilometri di strade e 5.100 edifici scolastici – richiede una legge di natura costituzionale, con tutte le difficoltà che ne conseguono. Nella seconda ipotesi, abolizione delle regioni e creazione di aree provinciali, è la Società Geografica Italiana a indicare la strada: la mappa d’Italia ridisegnata dai geografi tenendo conto di criteri storici e di contiguità territoriale, postula 35 amministrazioni provinciali – quasi il doppio delle regioni ma meno della metà delle attuali province – cui delegare il compito di raccordo tra lo Stato centrale e un numero di Comuni più che dimezzato rispetto all’attuale. Anche in questo caso toccherebbe mettere mano all’articolo 114 della Costituzione, con quel che ne consegue.

Capisco che non si tratti di passaggi semplici, sia dal punto di vista politico che dell’iter parlamentare. Ma altrimenti, la disruption della Meloni dove va a finire? La lascia nelle mani di Salvini e Calderoli?

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