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L'editoriale di TerzaRepubblica

Elezioni dall'esito non scontato

LA DISCRIMINANTE NON È DESTRA-SINISTRA MA LA COLLOCAZIONE EURO-ATLANTICA RISPETTO A SOVRANISMO E PUTINISMO

di Enrico Cisnetto - 29 luglio 2022

“Allora, per chi voto?”. “Aiuto, non so cosa fare e non vorrei restare vittima della tentazione, che è molto forte, di astenermi!”. Gli italiani sono già in vacanza, o quasi, e il 25 settembre sembra lontano, ma l’angoscia del che fare, accompagnata dalla consapevolezza che il momento è grave e che le prossime elezioni saranno decisive, è molto forte. Lo vedo dai molti accorati appelli che ricevo a far luce dove regna il buio. La mia risposta è questa: per decidere come comportarsi nella cabina elettorale è ancora presto, non fosse altro perché le forze in campo, nonostante manchino due settimane al deposito dei simboli e tre alla presentazione delle liste, devono ancora stabilire il da farsi e il “mercato” dei transfughi è più attivo di quello dei calciatori. In questa fase, meglio dedicare la propria attenzione ad analizzare le cose come stanno. Partendo da alcune premesse che credo necessarie.

Prima premessa: il risultato del voto non è affatto scontato, e far discendere le proprie valutazioni e le conseguenti decisioni dalla realtà virtuale dei sondaggi è un errore capitale. Seconda premessa: se i partiti fossero tali, e non dei comitati elettorali a carattere padronale, oggi gli schieramenti sarebbero delineati e i programmi già consolidati. Invece tutto è ricondotto a scelte personali che ruotano intorno a vere o, soprattutto, presunte leadership. Questo significa che l’affermarsi, prima sul piano mediatico e poi, eventualmente, su quello elettorale, di personalità che sembrano rivolte ad un successo imperituro, sono invece destinate a durare, al massimo, lo spazio di uno scorcio di legislatura. Teniamone conto. Terza e ultima premessa: il 25 settembre si voterà con la vecchia legge elettorale, che assegna il 37% dei seggi con il metodo maggioritario delle candidature uninominali, e il resto con il sistema proporzionale. Questo perché – nonostante sia stata decisa la decurtazione di un terzo del numero dei parlamentari, scendendo a 400 deputati e 200 senatori, cosa che ha determinato uno stravolgimento dei collegi – i partiti non hanno trovato la determinazione e la lucidità necessaria per cambiare la legge, come avevano detto e promesso. E siccome la quota uninominale sarà decisiva, specie al Senato, i partiti pur di vincere sono costretti – ma sarebbe meglio dire, si sono autocostretti – a formare alleanze preventive. Ed essendo totalmente privi di intelligenza politica, peggiorano le cose costringendo queste alleanze – la cui inconsistenza è dimostrata dal fatto che a poche settimane dal voto o devono ancora essere fatte o sono con tutta evidenza posticce e quindi destinate a frantumarsi dopo le elezioni – dentro lo schema bipolare, già dimostratosi fallimentare nella Seconda Repubblica. Di tutto questo gli elettori non sono ovviamente responsabili – se non di aver in precedenza votato partiti e dirigenti politici che questa situazione hanno determinato – ma possono però tenerne conto, premiando chi eventualmente si presentasse al loro cospetto sottraendosi al ricatto “vota di qui per evitare che vincano quelli di là” e viceversa.

Tutto ciò premesso, ne discende che occorre evitare di farsi abbagliare sia dalla chincaglieria delle facili promesse – di solito spesa pubblica senza indicazione di dove si prendono le risorse, e quindi o non realizzabile o fatta a debito – sia dalle demonizzazioni degli avversari (basterebbe sottolinearne il dilettantismo e l’ignoranza, che ce ne sarebbe davanzo). Viceversa, la linea del giudizio deve assumere come discrimine le grandi questioni che sono davanti a noi. E la prima, quella fondamentale perché riguarda l’appartenenza all’Occidente e al suo sistema di valori, democrazie e libertà in testa, riguarda la collocazione internazionale dell’Italia, sollecitata dalla guerra che la Russia di Putin ha scatenato in Ucraina ma che ha mire che vanno ben oltre. Ricorderete che fin dalla prima cannonata su Kiev, a febbraio, io scrissi che il nostro Paese si sarebbe trovato di fronte ad una inequivoca (ma non per questo acritica) scelta di campo, e che la politica italiana avrebbe ritrovato un fattore discriminante, il “fattore P” (da Putin), così come durante la guerra fredda del secolo scorso ci fu il “fattore K”, che stava per comunismo e da cui ne discendeva la “conventio ad excludendum” nei confronti del Pci. Ora, la linea di confine è la caratura euro-atlantica dei partiti. Laddove entrambe le componenti del binomio – la pienezza della dimensione europea, che preclude ogni sbavatura sovranista, e la convinta adesione al patto Atlantico e alla Nato – devono essere garantite. E tradotte in una conseguente “solidarietà attiva”, cioè anche militare, all’Ucraina, senza ambiguità pacifiste, dietro le quali si nascondono i fili di legami inconfessabili con Mosca.

Giorgio La Malfa ha tradotto l’applicazione rigorosa di questa discriminante in una proposta: il centrosinistra costruisca – pur nelle difficoltà di una legge elettorale che vieta forme di alleanze indirette, come la desistenza – un patto per i collegi uninominali tra tutti gli euro-atlantici, partendo dal presupposto che nessuna delle leadership del centro-destra abbia sul punto le carte in regola. Ora, se è vero che la Meloni è atlantista ma non europeista (l’amicizia con Orban e la collocazione nel parlamento europeo lo testimoniano), che Salvini non è né l’uno né l’altro e che Berlusconi ha dimenticato i suoi vecchi orientamenti liberali (ammesso che fossero autentici) ma non l’amicizia “molto stretta” con Putin, non per questo è altrettanto vero che il vasto fronte di chi si colloca nel centro-sinistra sia tutto adamantinamente euro-atlantico. Ne sono escluse vaste area della sinistra, anche dentro il Pd, mondi cattolici vari a cominciare da quelli ispirati al Papa peronista, e i 5stelle di Conte. E infatti si è già visto che la sinistra anziché organizzare su questi temi la campagna elettorale, preferisce – more solito – andare sul terreno della demonizzazione dei leader della destra e chiamare a raccolta il suo popolo agitando lo spettro del fascismo. La verità è che la selezione andrebbe fatta tra gli elettori, che sono sicuro starebbero in grande maggioranza dalla parte giusta, mentre il filtro dei partiti rende tutto poco limpido e credibile.

E che sia così lo dimostrano i tentennamenti amletici di Calenda, che ad oggi pare il soggetto più forte (non perché lo dicono i sondaggi, ma per via del successo riscosso alle recenti elezioni per il Comune di Roma) della cosiddetta “area di centro”, ma che andrebbe ribattezzata terzista nel senso che si chiama fuori dal bipolarismo. Pur con i difetti caratteriali che lo rendono simile a Renzi (anche se, per ora, meno antipatico) e pur avendo commesso l’errore esiziale di aver dato vita all’ennesimo partito personale e di averlo mantenuto tale rendendone non contendibile la leadership, Calenda ha comunque costruito uno strumento dalle indubbie potenzialità. Ora però è assalito dal dubbio – e guai se pensa di scioglierlo affidandosi al responso di qualche sondaggio – se mettersi al servizio del Pd di Letta, costringendolo ad abbandonare definitivamente il (pernicioso) “campo largo” con i grillini-contini, nel nome di Draghi e della “agenda” considerato che dei tre principali soggetti del destra-centro una stava all’opposizione e gli altri due sono stati così stupidi da impugnare l’arma con cui Conte aveva sparato all’ex presidente della Bce, lasciandoci platealmente le loro impronte sopra. O, seppure, andare alle elezioni da solo, provando a costruire il terzo polo liberal-riformista, né di destra né di sinistra, ma inesorabilmente minoritario rispetto ai due poli.

Non so quale scelta alla fine farà Calenda, anche perché ci sono buone ragioni a supporto di entrambe le ipotesi: nel primo caso perché la destra, che ha perso la componente moderata, è meno attrezzata a governare, in termini di classe dirigente e di idee, della già poco attrezzata sinistra, alla quale più si fanno trasfusioni di riformismo e meglio è; nel secondo caso perché è assai probabile che il risultato delle prossime elezioni produca uno stallo, subito o dopo poco tempo, e che il ruolo di una forza centrale che si sia tenuta estranea alle alleanze spurie e fragili, diventi determinante. Ma una cosa è certa: nell’uno come nell’altro caso, Calenda o chiunque voglia cimentarsi nella conquista della vastissima prateria degli elettori delusi dal bipopulismo di questi anni travagliati e preoccupati che l’Italia tenga i piedi ben piantati nel sistema occidentale, deve essere inclusivo e presentarsi con un partito aperto. In questo senso, la preclusione verso Renzi – per quanto alimentata dal medesimo – non ha nessuna spiegazione logica, se non quella della caratterialità, che in politica è un disvalore.

Purtroppo, manca pochissimo alla presentazione delle liste e al voto, e pesano tutte le cose sbagliate fatte fin qui, e soprattutto quelle non fatte. E queste elezioni sono fondamentali, perché il Paese si gioca l’osso del collo. Sia perché arriva impreparato all’impatto con la somma di una serie di problemi esogeni di portata epocale – la guerra alle porte, la pandemia ancora ben viva, lo spettro della recessione da crisi dei costi dell’energia e delle materie prime e da inflazione prossima alle due cifre – con quelli endogeni dovuti ad una arretratezza lasciata incancrenire, sia perché subisce le conseguenze di avere un sistema politico e una architettura istituzionale sprofondati da anni in una crisi senza sbocco. Se poi gli ombrelli riparatori e le ciambelle di salvataggio che l’Europa ci ha messo a disposizione in questi anni, e di cui empiamente non abbiano fatto buon uso, non ci dovessero più essere, allora la situazione si farebbe davvero drammatica. Per questo non ci possiamo permettere una riedizione del 2018, in cui il combinato disposto tra l’astensione – ve lo dice uno che nel passato l’ha praticata, rivendicandone anche il valore politico quando non derivante da qualunquismo – e il voto di protesta, ha prodotto la peggior legislatura della storia repubblicana, che neppure l’italiano con maggiore credibilità internazionale è riuscito a salvare.

Partiamo da qui, e portiamoci queste considerazioni in vacanza con noi che ci aiutino a riflettere, che prima del 25 settembre un’idea sul che fare ce la faremo. Per intanto buone vacanze a tutti, riprenderemo il filo del discorso ai primi di settembre.

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