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L'editoriale di Terza Repubblica

Una crisi folle. Pallino in mano a Draghi e Mattarella

A RISCHIO ITALIA, EUROPA E FRONTE OCCIDENTALE. CONTE HA CAUSATO LA CRISI, INUTILE CHIEDERGLI DI RISOLVERLA 

di Enrico Cisnetto - 16 luglio 2022

Autolesionismo allo stato puro. Questa crisi è talmente surreale da indurmi a pensare che persino l’avvocato Conte, pur con i suoi limiti abissali e i suoi intollerabili difetti, viva con imbarazzo questa follia, inspiegabile agli occhi degli italiani, figuriamoci a quelli delle cancellerie di tutto il mondo. D’altra parte, provate a raccontare ad un qualunque interlocutore internazionale – con l’eccezione dei russi, che si stanno fregando le mani, arrivando ad auspicare per l’Italia “un governo non asservito agli interessi americani” – che l’esecutivo italiano, autorevolmente presieduto dall’ex governatore della Bce, è caduto per un dissenso sull’installazione di un termovalorizzatore a Roma, caput mundi in quanto a rifiuti che la sommergono. E poi che la crisi è arrivata nonostante il governo abbia ottenuto la fiducia in parlamento e conservato, anche senza i dissidenti, un’ampia maggioranza a sostenerlo. Vi sfido a trovare una giustificazione quando vi sarà obiettato che è masochista, per non dire criminale, aprire una crisi mentre infuria alle porte di casa una guerra di cui non si scorge la fine e le cui conseguenze economiche e sociali si vedranno in tutta la loro drammaticità in autunno, quando saremo costretti a razionare l’energia e l’inflazione avrà raggiunto le due cifre. Se ci riuscite, senza farvi dire che siamo il solito paese “pizza, spaghetti e mandolino” e che l’Italia è inaffidabile e incompatibile con l’appartenenza al campo occidentale, vi riconosco una cifra.

Detto questo, non è vero che quanto è successo in queste ore sia un fulmine al ciel sereno, del tutto imprevisto e imprevedibile. Basta mettere insieme i pezzi giusti, e vedrete che il puzzle si comporrà dimostrando che la crisi viene da lontano. E comporlo, questo mosaico, ci aiuterà anche a capire cosa accadrà nello spazio temporale sospensivo che si è creato (il governo non è stato sfiduciato) e che si protrarrà fino a mercoledì. Dunque, tutto inizia l’anno scorso, quando in autunno è partita la corsa al Quirinale. Draghi, pur non lanciandola esplicitamente, ha lasciato che la sua candidatura prendesse corpo. E per supportarla ha cominciato ad aprire a mediazioni con le forze politiche, nella convinzione che gli avrebbero portato il consenso necessario. L’esito della vicenda è noto. Quello che è meno conosciuto è che essa ha lasciato diverse scorie. Una è l’inacidirsi dei rapporti tra il presidente del Consiglio e le forze politiche, in particolare i parlamentari e alcuni leader, Conte e Salvini in primis (direi a pari merito). Un’altra è l’allontanamento sostanziale tra Draghi e Mattarella: rapporti perfetti sul piano formale, ma fine della precedente sintonia. Un’altra ancora è il cambiamento di umore dello stesso Draghi, il cui livello di insofferenza, e dunque in parallelo il desiderio di chiudere un’esperienza che non avrebbe neanche voluto iniziare, è andato via via crescendo. 

Non che non siano mancate, anzi, le provocazioni nei suoi confronti, a cui l’uomo non era per nulla abituato. E tutte di infimo livello, come quest’ultima che per lui ha psicologicamente rappresentato la goccia che ha fatto traboccare il vaso. Tuttavia, i lettori ricorderanno che in tempi non sospetti ho scritto (vedi TerzaRepubblica n.13 del 9 aprile, qui il link) che se non ci fosse la guerra scatenata da Putin in Ucraina il governo Draghi non esisterebbe più e la legislatura sarebbe (anticipatamente) finita già da febbraio. Come dimostra la visita che il 18 di quel mese Draghi fece a Mattarella per esternargli tutta la sua irritazione di fronte agli agguati dei partiti (il governo era andato sotto ben 4 volte alla Camera), riassunta in quella frase “se non vi va bene questo governo, trovatevene un altro” detta a brutto muso dal presidente del Consiglio. Ma soltanto una settimana dopo le truppe russe marciavano su Kiev, aprendo uno scenario inedito e drammatico, che non poteva non condizionare le vicende politiche nazionali in tutta Europa, e in Italia congelare la potenziale crisi di governo. Dopodiché, l’emergenza geopolitica è diventata anche emergenza economica, ma ciò non è bastato a fermare le fibrillazioni politiche. E, paradossalmente, la crescita di ruolo di Draghi nello scenario di guerra – decisivo in Europa e principale interlocutore di Washington – ha finito per acuire le tensioni, non fosse altro per gelosia nei suoi confronti (quella di Conte è più corrosiva dell’acido muriatico) e per la sempre più evidente constatazione della distanza siderale che separa la sua statura da quella di tutti gli altri, rosiconi e non, cosa che allunga la sua figura oltre le prossime elezioni e fa temere ai tanti aspiranti di non poter competere per lo scranno di palazzo Chigi.

Draghi ha affrontato questi cinque mesi con un duplice approccio, solo apparentemente contraddittorio. Da un lato ha coltivato l’idea di voler cogliere la prima occasione buona per concludere una partita che non gli piace giocare. Dall’altro ha provato a concedere agli interlocutori – per i miei gusti molto, troppo – nella speranza che gli rendessero la vita meno complicata. A far prevalere il primo approccio sul secondo ci ha pensato quel genio di Conte, che dopo aver subito la scissione di Di Maio ha pensato di dover e poter vestire i panni del pasdaran, senza capire che imboccare quella strada avrebbe significato agevolare il passaggio della leadership di quel che resta del movimento di Grillo a chi, come Di Battista, quei panni li veste in modo più naturale (aspettare per credere).

D’altra parte, per come Conte ha messo le cose, Draghi non poteva certo far finta di niente, derubricando l’uscita dall’aula dei senatori grillini ad una ragazzata, come peraltro molti di loro, spaventati dal pericolo delle elezioni anticipate che loro stessi hanno innescato, avrebbero voluto. Specie dopo aver commesso l’errore di aver detto e poi con tigna ripetuto che il suo governo o era con i 5stelle dentro, o non era. Nello stesso tempo, il suo irrigidirsi dando dimissioni che il Capo dello Stato è assai probabile gli avesse fatto capire che era meglio evitare, tanto da respingerle una volta formalizzate, ha allargato il fossato che lo separa da Mattarella. E lo lascia solo nel decidersi il da farsi. Fermo restando che la moral suasion del Quirinale non mancherà e che, soprattutto, sono da mettere in conto le espressioni di preoccupazione da parte delle cancellerie europee e occidentali.

Non c’è dubbio, infatti, che l’eventuale ritiro di Draghi dalla scena rappresenterebbe un danno per l’Italia – che, ricordiamoci, è la principale beneficiaria del Next Generation Ue, soldi che sono a rischio se il Pnrr non dovesse marciare, in termini di investimenti e di riforme strutturali, così come previsto – ma anche per l’Europa orfana di leadership forti e sotto il tiro di Putin, che ha nella destabilizzazione del Vecchio Continente il vero obiettivo dell’attacco a Kiev. E lo stesso vale per l’intero fronte occidentale, ora che Putin e Xi Jinping fanno a gara a voler ridisegnare la cartina geografica mondiale. Ma Draghi si farà convincere da un messaggio di Biden e una telefonata di Powell (Federal Reserve) piuttosto che da un accorato appello di Macron e von der Leyen, a riprendere il cammino interrotto, in modo da evitare elezioni anticipate? E se sì, è più probabile ed è meglio per il Paese che lo faccia attaccando i cocci della vecchia maggioranza – approfittando della quasi certa disponibilità dei 5stelle a tornare sui loro passi e votare la fiducia – oppure che lo faccia presentando un programma stringente che induca Conte a rimanere fuori e su cui misurare preventivamente le intenzioni dell’ondivago Salvini?

Sono le domande che ho posto a quattro esperti di politica e di funzionamento delle istituzioni come Armaroli, Folli, Panarari e Panebianco in un’edizione speciale di War Room (qui il link), ottenendone una sola ma importante certezza: mercoledì il presidente dimissionario alla Camera farà un discorso durissimo, mettendo in fila le responsabilità di ciascuno. Questo, però lascia inevasa la domanda: ma per fare cosa? A palazzo Chigi e nell’entourage di Draghi in queste ore si lascia intendere che dopo quel discorso tutto dipenderà dalle risposte che i partiti daranno. Se saranno convincenti forse l’ex banchiere si lascerà convincere. Altrimenti il pallino tornerà nelle mani del presidente della Repubblica, cui spetterà di decidere se mandarci a votare tra la fine di settembre e gli inizi di ottobre chiedendo a questo governo, specie se non avrà ottenuto un voto di sfiducia così come è stato fin qui, di restare in carica per gli affari correnti. Oppure se metter su un governo elettorale con alla guida una figura istituzionale come il presidente della Corte Costituzionale, Amato, o del Consiglio di Stato, Frattini. O, ancora, se scaricare su Draghi la colpa dello stallo e incaricare qualcuno con l’obiettivo di arrivare al voto a scadenza naturale (tra il 23 di marzo e la fine di maggio del 2023), dimostrando che in fondo la maggioranza, almeno numericamente, c’è.

Ovviamente io non posso conoscere ciò che probabilmente non sanno neppure gli interessati, e cioè quali delle diverse opzioni diventerà realtà. E comunque, piuttosto che avventurarmi in pronostici, preferisco dire ciò che auspico avvenga. Io spero che Draghi voglia cogliere l’occasione per fare due cose. La prima è continuare a dare all’Italia un governo che affronti i tanti e gravi problemi che sono sul tappeto e colga le opportunità che pure ci sono, specie in sede europea. La seconda, invece, è di natura squisitamente politica: fare in modo che entro i tempi di questa legislatura il sistema politico evolva archiviando finalmente la fallimentare contrapposizione bipolare a favore di ricomposizione del quadro politico che unisca in un patto di governo le forze euro-atlantiste e lasci fuori quelle populiste e sovraniste. Si dirà: ma Draghi ha sempre detto di non avere alcuna intenzione di scendere nell’arena politica. Vero, e non c’è alcun bisogno che lo faccia. Basterebbe che facesse in modo da favorire nei fatti il determinarsi di questa distinzione. 

Come? Beh, è già avvenuto con la scissione di Di Maio – che ha il merito di aver avviato il processo di disintegrazione dei 5stelle – ora è bene che tocchi alla Lega, che non può continuare a predicare la governabilità e razzolare nel campo di tutte le peggio pulsioni, da quelle anti europee a quelle filo Putin. E tocca anche al Pd, che deve finalmente togliersi dalla testa il “campo stretto” (ex largo) e la paura atavica che si formi qualcosa alla sua sinistra: se Landini e Santoro vogliono imitare Melenchòn, prego, si accomodino. Ma il momento della verità deve arrivare anche per Forza Italia e per la stessa Meloni, se vuole che il suo magic moment elettorale non duri lo spazio di un mattino.

In questa situazione, Draghi dovrebbe presentarsi in Parlamento con un programma di riforme lontano anni luce dalla bonus economy fin qui praticata – versione moderna del vecchio partito della spesa pubblica, che dal 2018 ad oggi ci è costata ben 38 miliardi, di cui 23 per il solo reddito di cittadinanza (sono grato ad Antonio Mastrapasqua per questo calcolo) – e tutto finalizzato ad accelerare il (troppo lento) convoglio del Pnrr e ad affrontare con la necessaria fermezza le emergenze dell’autunno. Se 5stelle e Lega, o parte di esse, non lo voteranno, tanto meglio. Se ci saranno i numeri vada fino in fondo, tenendo fede al suo blasone, e altrimenti avrà comunque scavato un solco nel quale le pur (fin qui) smandrappate forze che guardano al centro o che comunque non intendono schierarsi né con il centro-destra né con il centro-sinistra, potranno fare strada. Francamente, è inutile dire che i nodi li deve sciogliere Conte, è come pretendere che uno zoppo corra i 100 metri. Il pallino è in mano a Draghi. E a Mattarella. Si ricordino entrambi che prima di ogni altra cosa viene il Paese.

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