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Public Policy

L'editoriale di Terza Repubblica

Da SuperMario a SuperSergio

MATTARELLA AIUTI DRAGHI A GOVERNARE E I PARTITI A CAMBIARE LEGGE ELETTORALE E SISTEMA POLITICO

di Enrico Cisnetto - 05 febbraio 2022

Da SuperMario a SuperSergio. La rielezione di Sergio Mattarella alla presidenza della Repubblica segna una discontinuità nella vita politica nazionale da cui sarà difficile, se non impossibile, tornare indietro. Non parlo del bis, che c’era già stato con Napolitano e che lo stesso presidente auspica venga impedito con una modifica costituzionale che cancelli anche l’arcaico istituto del “semestre bianco”. Così come non penso si sia aperta la porta al presidenzialismo, né formalmente codificato né surrettizio, non fosse altro perchè Mattarella è un convinto parlamentarista. No, penso che la rinomina, soprattutto per le modalità e le circostanze con cui è avvenuta, e poi il discorso seguito al solenne giuramento di fedeltà alla Costituzione, rappresentino nello stesso tempo un freno ad alcuni processi degenerativi che da tre decenni corrodono la politica italiana e la premessa per avviarne di nuovi, potenzialmente positivi. E di conseguenza credo che tutto questo abbia dato, e vieppiù darà, una fortissima centralità a SuperSergio. Vediamo infatti di mettere in fila alcune cose.

Prima osservazione: la rielezione dell’inquilino del Quirinale segna il ritorno in vita del Parlamento, defunto da tempo. Può darsi che si tratti di uno “spasmo cadaverico”, e certo i motivi del sussulto sono da ascrivere solo in misura marginale ad una salutare presa di coscienza istituzionale. Ma intanto la rianimazione c’è stata, e non può che essere accolta con sollievo. Infatti, anche senza aderire alla teoria complottista, evocata dal vecchio Riccardo Formica, secondo la quale un elité di tecnici era pronta a sovvertire la democrazia, seppure in modo light, installandosi al Quirinale e a palazzo Chigi – se fosse, si sarebbe trattato di un’operazione scoordinata e maldestra come poche – e tenendo fermo il giudizio che io ho dato fin dal momento dell’arrivo di Mario Draghi al governo, e cioè che egli rappresentava una conseguenza e non una causa della crisi dei partiti, rimane il fatto che è necessario che la politica si riappropri degli spazi che le competono. Perchè un conto è criticare i bizantinismi dei politici, tanto più se dilettanti allo sbaraglio privi di ogni orizzonte strategico che producono lentezze decisionali e inefficienze amministrative, e un altro è pensare che della politica si possa o addirittura si debba fare a meno. E il fatto che il Presidente abbia voluto sollecitare nel suo discorso il rispetto da parte dell’esecutivo delle prerogative delle Camere – non di queste specifiche, ma dell’istituzione Parlamento – in questi anni progressivamente relegate ad una mera funzione notarile, è cosa buona e giusta.

E qui veniamo alla seconda osservazione: il ruolo dell’esecutivo. È dai tempi della “discesa in campo” di Silvio Berlusconi che s’impreca contro il fatto che in Italia il capo del governo non sia un vero premier, ma un semplice primus inter pares in seno al consiglio dei ministri. La lamentela ha certamente qualche ragione – ma non quelle “padronali” del Cavaliere, cui è sempre sfuggita la distinzione netta che c’è e ci deve essere tra la dimensione politica e quella aziendale – tuttavia ciò che non si è mai capito è che la virata verso una premiership forte, o addirittura verso forme di presidenzialismo, richiede una revisione completa dell’architettura costituzionale, e quindi un ribilanciamento complessivo dei poteri, senza i quali c’è solo spazio a pericolose (e infruttuose, visti i risultati negativi di ben due referendum costituzionali, Berlusconi e Renzi) forzature. Ora, ascoltando Mattarella tra un applauso e l’altro, si può essere stati tentati dal pensare che il suo intervento, vista la vastità degli argomenti trattati e la puntigliosità delle argomentazioni proposte, fosse più un discorso programmatico da capo del governo che uno da paludato presidente della Repubblica. Certo, lo ha fatto usando il tono dell’auspicio, dell’invito e dell’incitamento a fare, ha tenuto a sottolineare che non spetta a lui indicare le specifiche scelte riformatrici. Ma l’assertività sulle emergenze – e a quelle conclamate, sanitaria, economica e sociale, ha aggiunto anche le tematiche civili, le questioni istituzionali e le apprensioni per gli scenari internazionali – poteva indurre chiunque legittimamente a credere che intendesse dire a Draghi “fatti più in là che ora comando io”. Inoltre alcuni indizi portano a credere che la lunga vicenda quirinalizia abbia lasciato qualche granello di sabbia nei rapporti (quelli sostanziali, non certo quelli formali) tra i due. Tuttavia, credo che la decrittatura più corretta del discorso di Mattarella sia quella di aver voluto caricare di responsabilità Parlamento e Governo circa le riforme strutturali da realizzare, sicuro com’è che non farle costringerebbe la nostra sempre più fragile democrazia a pagare un prezzo (troppo) alto. Il che non significa che la stanza dei bottoni, ammesso che esista, si trasferirà da palazzo Chigi al Quirinale. Nessuna interferenza, ma vigilanza attiva – maggiore di quella dello scorso settennato – sì, eccome.

Terza osservazione: i peones di Camera e Senato saranno anche stati mossi solo o quasi esclusivamente dal desiderio di un altro anno di status e di stipendio, e dalla necessità di arrivare a settembre per maturare la pensione, ma nella loro ribellione agli ordini dall’alto – perchè tale è stata – c’è prima di tutto la smisurata inadeguatezza dei cosiddetti leader, nessuno escluso. Questo non significa che sia un bene, anzi. Ma forse può finalmente essere archiviata la stagione degli uomini soli al comando, degli unti dal Signore, della personalizzazione esasperata della politica. Non fosse altro per mancanza di materia prima. Naturalmente resta da fare i conti con la parte costruensdi questo processo, e cioè la ricostruzione di partiti dotati di solidi riferimenti alle culture politiche che, non a caso, permeano i sistemi politici di tutta Europa. E’ maledettamente complicato, ma intanto riuscire a scrollarsi di dosso l’idea – semplicistica e autoassolutoria – che per risolvere i problemi collettivi e individuali basti consegnare il bastone del comando a qualcuno, magari selezionato esclusivamente per le sue capacità comunicative (il pifferaio magico), sarebbe comunque già un buon inizio.

Da qui la quarta e ultima osservazione. Se si vuole davvero affrontare la grande scommessa che l’Italia ha di fronte da decenni, la sua modernizzazione, non bastano gli uomini della provvidenza, SuperMario e SuperSergio compresi, ma occorre mettere mano ad un sistema politico, quello nato nel 1994, che prima si è mostrato fragile e pieno di contraddizioni, e poi è diventato fallimentare. Di questo Mattarella ha mostrato di essere pienamente consapevole. Così come del fatto che se non introducono correttivi preventivi, le prossime elezioni rischiano di riconsegnare nelle sue mani un Parlamento balcanizzato e privo di una qualsiasi maggioranza, costringendolo così a pregare Draghi di fare anche lui il bis. Per questo, sarò stranamente ottimista (una volta tanto), ma penso che si stia finalmente delineando davanti a noi una via d’uscita dall’inconcludente bipolarismo di questi trent’anni. Essa è rappresentata dalla progressiva, anche se incespicante, convergenza delle forze politiche sul pieno recupero del proporzionale, primo passo per una scomposizione e ricomposizione del sistema politico. Dico pieno perchè, da un lato, l’attuale sistema di voto, misto, lo ha già adottato, ma solo in parte; dall’altro lato, perchè va sdoganato nella società, in cui persiste l’idea che il maggioritario sia la panacea di tutti i mali perchè, se ben applicato, esso consentirebbe di sapere già a urne chiuse e senza incertezza alcuna chi ha vinto le elezioni (e dunque andrà al governo) e chi le ha perse. 

Anche in questi giorni, specie dopo lo sbilanciamento di Enrico Letta a favore del metodo proporzionale, in molti sono saliti sulle barricate profetizzando che così si farebbe ritorno alla Prima Repubblica. A parte il fatto che il Mattarella-bis – così come la candidatura di Pierferdinando Casini, che nella competizione quirinalizia è stata l’unica alternativa realmente esistita, a fronte di nomi inutilmente bruciati e di ipotesi durate poche ore – è apparso la rivincita e il trionfo della Prima Repubblica, ma costoro dove sono vissuti in questi anni, ne paese del bengodi? Come si fa a non capire che l’illusione maggioritaria ci ha regalato un bipolarismo malato. Prima costruito con due alleanze totalmente disomogenee ma tenute insieme dalla contrapposizione intorno alla figura di Berlusconi. Poi degenerato nel trionfo del populismo (affermatosi per colpa del fallimento di centro-destra e centro-sinistra), trasformatosi in bipopulismo. Soltanto uscendo da questo schema bloccato i partiti si possono rigenerare e con loro le alleanze di governo (da realizzare in Parlamento)? E non ci si venga ancora una volta a raccontare che se c’è qualcosa che non va (sic!) è perchè occorre “completare la transizione” verso la piena applicazione del maggioritario. Sono tre decenni che i fans del “chi vince comanda e gli altri si rifaranno” ci raccontano questa storiella.  

Ora, invece, è bene che il Pd sia sottratto all’abbraccio mortale con i 5stelle (ma vorrei salvare chi, tra costoro, si deciderà a compiere fino in fondo e senza ipocrisia il passaggio dal “vaffa” al pragmatismo di governo) e che il centro-destra prenda atto che non tutte le sue anime sono compatibili e faccia finalmente l’esame di maturità. Solo un ritorno al proporzionale, seppure con uno sbarramento anche robusto (per esempio il 5% come in Germania), è possibile smembrare queste ammucchiate elettorali che puntualmente si frantumano subito dopo il voto, alla prova del fuoco del governo.

Ecco, sono due le cose che SuperSergio può fare o favorire: impedire che il governo Draghi s’infranga sugli scogli di una fase che sarà sempre più elettorale via via che ci sia avvicina a marzo 2023; indurre le forze politiche a cambiare la legge elettorale in modo da favorire prima il cambiamento del sistema politico e poi, di conseguenza, di quello istituzionale. Buon lavoro, Presidente.

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