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Public Policy

L'editoriale di Terza Repubblica

Draghi, Governo o Quirinale?

CHIGI O COLLE, IN ENTRAMBI I CASI OCCORRONO SCELTE CORAGGIOSE E UNA NUOVA COSTITUZIONE

di Enrico Cisnetto - 06 novembre 2021

Che relazione c’è tra la sortita del ministro Giancarlo Giorgetti, che ha proposto l’ascesa di Mario Draghi al Quirinale con l’obiettivo di dar vita ad un “semipresidenzialismo de facto”, e gli allarmi di personalità come Massimo Cacciari e Fausto Bertinotti circa un commissariamento della politica, e in particolare del Parlamento, a favore di tecnocrati più o meno competenti? Apparentemente nessuna. Anzi, una cosa sembra essere l’opposto dell’altra, non fosse altro che per l’antitetico dna politico-culturale di costoro. In realtà, invece, c’è una base comune a entrambi questi giudizi: la presa d’atto del fallimento del nostro sistema politico e istituzionale. Giorgetti sa perfettamente che il governo Draghi è un’anomalia, figlia appunto della crisi dei partiti e degli assetti usciti dalle elezioni del 2018. Ma essendo un estimatore del presidente del Consiglio, e pensando che il paese apprezzi la sua linea europeista, atlantista e riformista, abbinata ad uno stile sobrio e poggiata su una solida base di competenza e credibilità internazionale, il ministro leghista vorrebbe preservarlo portandolo alla presidenza della Repubblica. Sapendo tuttavia che i poteri dell’inquilino del Quirinale sono assai più limitati di quelli di chi sta a palazzo Chigi, ecco il suggerimento che questo spostamento di Draghi corrisponda ad un “allargamento delle funzioni” quirinalizie. Allo stesso modo, quando Cacciari sostiene che “siamo in una situazione di presidenzialismo surrettizio” e che “ormai il Paese va in quella direzione” tanto che “se facessimo un referendum sul presidenzialismo vincerebbe all’80%”, o quando Bertinotti ammonisce che serpeggia la tentazione di non andare più a votare come dimostrano la crescita dell’astensionismo e la marginalizzazione del Parlamento a favore dei tecnocrati, ci stanno tutti dicendo che è dalla fine della Prima Repubblica che il sistema è andato in tilt e nessuno ha saputo metterci mano.

Ciò che però rende divergenti le posizioni di Giorgetti da quelle dei critici da sinistra sono le conseguenze che ne traggono. E qui la mia opinione – pur collimando con il comune punto di partenza, e cioè il fallimento del sistema – differisce da entrambe. Perché? Partiamo da due premesse indispensabili. La prima: Draghi non è la causa, ma la conseguenza della crisi politica. Non siamo di fronte ad un’occupazione impropria di potestà da parte di (presunti) “poteri forti” o di un élite arrembante che se ne frega della democrazia – vi posso assicurare che l’ex presidente della Bce, per carattere, avrebbe volentieri fatto a meno di prendersi sulle spalle questa responsabilità – ma al tentativo di salvare il Paese, lasciato in mani a dir poco improbabili proprio mentre veniva messo in ginocchio dalla pandemia e dalla recessione. La caduta verticale delle funzioni del Parlamento non nasce da una qualche forma di coercizione, ma dal drammatico venir meno delle qualità umane e politiche, anche minime, degli eletti. A loro volta espressi da partiti di stampo individualistico, privi di ancoraggio culturale, di contenuto programmatico e retti da leadership fragili selezionate sulla base della sola capacità di intercettare ad ogni costo e con ogni mezzo il consenso, e perciò destinate ad avere vita breve. Seconda premessa: la crisi politica che viviamo è la stessa che si è manifestata dal 1992 in avanti, per il semplice motivo che a quella non è mai stato posto rimedio, non fosse altro perché non ne se n’è mai letta correttamente la genesi. O meglio, le risposte via via date si sono rivelate sbagliate. Prima di tutto in termini di metodo. Si è introdotto il sistema maggioritario, attraverso il referendum Segni, e conseguentemente si è adottato il bipolarismo, ma non si sono fatte le modifiche costituzionali necessarie per rendere gli ordinamenti istituzionali compatibili con quelle scelte. Si è fatto finta che i cittadini eleggessero un premier – consentendo forzature come l’inserimento del nome del presunto candidato nel simbolo – battezzando gli accordi parlamentari come “inciuci”, mentre il nostro era ed è rimasto un sistema rappresentativo. Si sono demonizzati i partiti, condannando a morte quelli che erano ancorati alle culture politiche del Novecento, ma la Carta è rimasta quella scritta dai padri costituenti che di quelle forze politiche erano stati l’espressione più alta.

Qui non discuto se il sistema maggioritario e bipolare fosse allora e sia continuato ad essere in questi 30 anni la scelta giusta o sbagliata (chi mi segue sa che non ho mai fatto mistero di appartenere a quella piccola minoranza che votò contro la riforma Segni e che mi sono strenuamente battuto contro il bipolarismo all’italiana della Seconda Repubblica e contro il bipopulismo che tuttora sopravvive). Ciò che più importa è avere chiara la circostanza che quei cambiamenti furono “de facto”, cioè senza il contestuale cambiamento delle regole del gioco sancite nella Costituzione. Esattamente come ora Giorgetti dice debba essere l’avvento del semipresidenzialismo con la nomina di Draghi a presidente della Repubblica.

Ho scritto io stesso che vedevo bene Draghi nella versione De Gaulle della V Repubblica francese – secondo la definizione di Ernesto Galli della Loggia – pur non avendo mai amato il presidenzialismo, sia quello transalpino che, tantomeno, quello americano. Mi ha spinto a dirlo la constatazione della gravità strutturale dello stato di salute del Paese (e non certo per colpa del solo Covid) e la presa d’atto che la politica italiana, per riprendere a funzionare dopo quasi tre decenni di blackout, ha bisogno di ben altri copioni che non quello della riproposizione di uno sgangherato bipolarismo popolato di partiti “fuochi fatui” e di leader di mezza tacca. Una discontinuità radicale che possa imprimere al nostro sistema politico e alla nostra architettura istituzionale è dunque una necessità indifferibile. Ma qualunque contorni essa prenda, deve essere chiaro che una tale discontinuità, per funzionare, non può che discendere da una coerente modifica delle regole. Senza reticenze, ma neppure senza la fregola del cambiamento per il cambiamento. La quale deve avvenire nella sede più appropriata, che non è il Parlamento che ha già dato prova di non esserne capace, ma una nuova Assemblea (o anche Commissione) Costituente. Altro che surrettizia trasformazione del ruolo del Capo Stato. Sarebbe il punto estremo di una tendenza trentennale che, come detto, ha già fatto abbastanza guai. E d’altra parte, come ha chiarito Michele Ainis, “la Carta è sì elastica, ma una cosa è la fisarmonica nell’interpretazione delle competenze istituzionali, un’altra è ipotizzare un cambio di regime”. E siccome “nel nostro ordinamento i poteri di indirizzo politico spettano al Parlamento e al governo, non al capo dello Stato, è impossibile eleggere un super-presidente senza dichiararlo”. Ergo, non si può scambiare il consenso, probabilmente vastissimo, che Draghi ha nel Paese e che ancor più largo avrebbe in versione De Gaulle, con la possibilità di scansare i passaggi che questa trasformazione istituzionale deve avere. Come ha notato Stefano Folli, il De Gaulle che nel 1958 introdusse il semi-presidenzialismo, lo fece prima e non dopo essere stato nominato all’Eliseo.

Insomma, l’Italia, come dimostra il recente G20 tenuto a Roma, ha bisogno di un uomo dello spessore e dell’autorevolezza internazionale di Draghi. Averlo a Chigi è una fortuna, ma per fare i cambiamenti che occorrono e che per molti versi ci chiede l’Europa (anche per darci effettivamente le risorse del Next generation Ue) la sua non può che essere una permanenza di lunga durata. Cioè non solo fino al termine della legislatura, ma anche dopo le elezioni del 2023. E perché ciò accada, non basta auspicarlo, occorre costruire le condizioni politiche. Il che presuppone tre cose. Primo: una legge elettorale proporzionale, di tipo tedesco, che rompa il gioco bipolare. Secondo: la costruzione di una forza politica che faccia propria “l’agenda Draghi” e che indichi l’attuale presidente del Consiglio come l’obiettivo numero uno nella richiesta di consenso alle elezioni del 2023. E che intorno a questa candidatura costruisca un sistema di alleanze per rendere il più omogenea possibile la maggioranza che dovrà sostenere il governo Draghi 2. Terzo: la piena ed esplicita disponibilità di Draghi a percorrere questa strada, assumendosene anche i rischi. Chi vuole farsi interprete di questo progetto deve parlare adesso, e senza reticenze. Traccheggiare significa farlo fallire.

Viceversa, c’è la possibilità che la carta vincente Draghi possa essere giocata eleggendolo al Quirinale. Bene. Ma anche qui, ci sono due condizioni, oltre a quella ovvia che sia eletto al primo tentativo: che la sua nomina sia accompagnata dalla scelta di convocare l’Assemblea Costituente per mettere nero su bianco le regole di una presidenza della Repubblica diversa da quella che abbiamo fin qui conosciuto; e che l’interessato sposi fino in fondo questa causa, senza tentennamenti. Al di fuori di queste condizioni, mandarlo al Quirinale sarebbe uno spreco se lui rispettasse il perimetro dei suoi poteri, come sono convinto farebbe, o un grave errore, carico di rischi, se dovesse esondare.

Nell’uno come nell’altro caso, Draghi che resta a Chigi o che va al Colle, sono richieste da parte di tutti scelte forti, atti di generosità, non calcoli dettati dal cinismo.

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