ultimora
Public Policy

L'editoriale di Terza Repubblica

Il recovery non basta

LA RIPRESA STA PER PARTIRE MA NON BASTERÀ IL RECOVERY A COLMARE I NOSTRI GAP STRUTTURALI 

di Enrico Cisnetto - 14 maggio 2021

Ci stiamo rialzando, è previsto che ci metteremo in cammino, ma in realtà avremmo bisogno di metterci a correre. È a questa conclusione che si arriva analizzando con attenzione le previsioni economiche di primavera diffuse dalla Commissione Europea relative all’Italia nel contesto continentale, e dell’eurozona in particolare. La buona notizia è che finalmente dovremmo registrare una velocità di reazione – in questo caso di uscita dalla recessione – perfettamente in media con quella europea e per quest’anno perfino migliore di quella tedesca. Ma ce ne sono almeno tre meno buone, di notizie. La prima è che la crescita che dovremmo registrare tra quest’anno e il prossimo, sommati insieme dell’8,6%, è comunque inferiore di una manciata di decimi di punto rispetto alla perdita di pil registrata nel drammatico 2020 e lontana quasi un punto dal pil del 2019. Questo significa che a fine 2022 la nostra ricchezza prodotta, in valore assoluto, risulterà ancora inferiore di 16 miliardi rispetto ai livelli pre pandemia. La seconda è che il +4,2% del 2021 e il +4,4% del 2022 stimati da Bruxelles sono comunque incrementi inferiori di sette decimi di punto complessivi rispetto agli obiettivi di crescita indicati dal nostro governo. Non un grande stacco, ma tale da perpetuare l’italica abitudine a formulare previsioni sempre troppo ottimistiche, poi puntualmente smentite dai fatti. 

La terza notizia è la peggiore: si allarga il distacco tra l’Italia e l’Europa. Non sembri una contraddizione con quella che inizialmente abbiamo definito una good news, ma il fatto è che la recessione dell’anno scorso è stata di oltre un terzo maggiore della media dell’eurozona: -8,9% contro -6,6%. Il che significa che tutti gli altri paesi continentali a fine 2022 avranno più che recuperato la ricchezza perduta a causa della pandemia, noi no. Perfino la Spagna, che l’anno scorso ha fatto peggio (-10,8%) è però accreditata di una crescita nel biennio ’21-’22 del 12,7% complessivo, quasi due punti in più di quanto aveva perso. E tutto questo non è una sorpresa, se si pensa che all’inizio della pandemia solo noi e la Grecia non avevamo ancora recuperato del tutto la ricchezza perduta dal 2008 in poi con le diverse crisi finanziarie internazionali ed europee (nel 2018 erano ancora sotto il livello del 2007 anche la Croazia e il Portogallo, che però nel 2019 erano riuscite a recuperare). Questo significa che il gap strutturale crescente che avevamo accumulato dagli anni Novanta in poi, prima con la crescita lenta e la stagnazione e poi con le recessioni e i mancati rimbalzi, alla fine della pandemia e delle sue conseguenze economiche ce lo ritroveremo ulteriormente aumentato.

Si dirà: ma il Recovery è lì apposta a farci recuperare il terreno perduto. Sì e no. Prima di tutto perché è uno strumento che è stato pensato per sanare le ferite inferte dal Covid, non per accorciare le differenze strutturali preesistenti. In secondo luogo, perché l’incidenza sul pil degli investimenti generati dal Recovery è limitata. Lo stesso governo italiano stima nel Pnrr che l’incidenza a fine piano, cioè nel 2026, delle risorse europee denominate Next Generation Eu, sarà di appena tre punti percentuali e mezzo aggiuntivi rispetto a quanto l’economia si sarebbe mossa a prescindere. Sempre che, naturalmente, gli investimenti siano “buoni” (nel senso di “debito buono”, per dirla con Draghi) e le riforme che li accompagnano siano vere ed efficaci. Ad ogni grado in meno di questa sperabile pienezza corrisponderebbe un proporzionale minor effetto sul pil (oltre che generare il rischio che la Ue blocchi l’erogazione dei fondi). Insomma, i soli investimenti pubblici previsti nel Pnrr aiutano l’Italia a camminare verso la ripresa economica, non a correrle incontro. E questo nonostante siamo l’unico dei paesi europei rilevanti ad utilizzare non solo i sussidi, come tutti, ma anche i prestiti (122 miliardi sui circa 200 complessivi), che per quanto poco onerosi andranno comunque ad accrescere il già gigantesco stock di debito pubblico. Il quale nel 2020 e in questi primi mesi del 2021 è cresciuto di oltre 21 punti percentuali in più rispetto al 2019 (il doppio della Germania, 5 punti in più della media europea sulla quale incidiamo anche noi), arrivando al 160% del pil.  

Un elemento che viene sottostimato, ma che potrebbe rivelarsi presto un problema drammatico non solo se l’uso delle risorse Ue lasciasse a desiderare e le riforme non vedessero la luce o fossero più formali che sostanziali, ma anche per fattori esogeni. Non va trascurato, infatti, che dagli Stati Uniti spira un gelido vento inflazionistico di cui avevamo perso memoria, e che è misurabile negli aumenti pirotecnici dei prezzi delle materie prime, o nella loro assenza dal mercato come nel caso dei microchip (cosa che in questo momento sta mettendo in crisi molte imprese manifatturiere, proprio mentre stavano scaldando i motori per la ripresa grazie ai vaccini). E una fiammata inflazionistica potrebbe indurre le banche centrali a rallentare, se non addirittura a invertire, la politica monetaria dei tassi zero. Per esempio, con l’emergenza sanitaria che dovesse volgere alla fine – cosa ovviamente più che auspicabile – la Bce, specie se preceduta da qualche mossa della Federal Reserve, potrebbe iniziare a ridurre l’ammontare degli acquisti dei titoli dei debiti pubblici degli stati europei (quelli dei Btp italiani sono i più massicci). Una mossa, anche se graduale, che farebbe tornare a crescere il costo del nostro debito pubblico e a riaccendere il fuoco sotto il pentolone dello spread, con tutto quello che ne conseguirebbe.

Sia chiaro, non intendo bagnare le polveri della fiducia nella ripresa. E non per pura prudenza o spirito patriottico, ma perché credo che la tenuta della nostra industria manifatturiera, uscita dalla crisi degli anni Dieci di questo secolo lasciando al loro destino le lavorazioni a basso valore aggiunto per salire di gamma puntando sull’innovazione tecnologica spinta e sull’export, sia la garanzia che un pezzo di turnaround sia già stato fatto e che la spinta dei privati si farà sentire. Ma proprio per questo sottoscrivo senza riserva l’appello lanciato da Giorgio La Malfa alle imprese perché mettano mano al portafoglio – capitale proprio, crediti bancari, mercato finanziario, ecc. – e s’intestino un piano straordinario di investimenti aggiuntivi a quelli previsti dal Pnrr. Occorre dare continuità al rimbalzo previsto per la seconda metà di quest’anno e per l’anno prossimo, e aggiungere benzina a quella che mette il Pnrr di qui fino al 2026. Tradotto, bisogna che per qualche anno il tasso di crescita della ricchezza stia intorno al 4% o che comunque non scenda sotto il 3%, se vogliamo che l’Italia cominci a ridurre quel maledetto gap che ci portiamo dietro da oltre vent’anni.

Lo so, giunti a questo punto qualsiasi imprenditore mi direbbe che non basta la sua volontà, ma occorre che il sistema intorno a lui renda facile sul piano pratico e induca favorevolmente sul piano psicologico lo sviluppo. E giù un fitto cahiers de doléances delle infinite cose che non vanno, dalla giustizia che ti tratta come un criminale per il solo fatto di guardare al profitto e ti tiene appeso ai procedimenti per decenni, alla burocrazia che fa a pugni con il buonsenso. Tutto vero. Ma anche – diciamocelo tra noi liberali – un alibi. Perchè, da un lato, le imprese e le loro organizzazioni di rappresentanza in questi anni, pur di fronte ad una politica debole e levatura modestissima, non sono state capaci di fornire le idee e la classe dirigente di cui il Paese, e quindi anche loro stesse, necessitava. Dall’altro perché i singoli hanno preferito la scorciatoia della cessione e conseguente monetizzazione delle loro attività, lasciando che siano eccezioni senza rilevanza statistica le occasioni di aggregazione per creare aziende e filiere più grandi e forti.

Ora, però, si può finalmente dire che quel che è stato è stato, e che con Draghi si può – e quindi si deve – voltare pagina. Forte del prestigio e dell’autorevolezza del presidente del Consiglio, l’Italia può pianificare un periodo virtuoso di riforme e di investimenti strutturali. Quelle ragioni di malfunzionamento del sistema paese di cui l’imprenditoria si è lamentata corrispondono esattamente alle riforme che il governo ha inserito nel Pnrr e su cui l’Europa vigilerà occhiuta che siano realizzate. Perchè non crederci? Gli imprenditori, presi singolarmente e come comunità, devono crederci e investire su questo passaggio, difficile ma decisivo. “Si persuadano che questo è il momento di rischiare e di contribuire con le proprie forze e i propri mezzi alla ripartenza del Paese. Nell’immediato dopoguerra vi fu certamente il Piano Marshall, ma il miracolo economico fu l’effetto congiunto di quelle risorse aggiuntive e di uno sforzo straordinario di investimenti prodotto dall’imprenditoria privata”, dice La Malfa. Condivido. Draghi parli loro e li convinca come allora fecero i padri della Repubblica.

Social feed




documenti

Test

chi siamo

Terza Repubblica è il quotidiano online fondato e diretto da Enrico Cisnetto nato nel 2005 dall'esperienza di Società Aperta con l'obiettivo di creare uno spazio di commento indipendente e fuori dal coro sul contesto politico-economico del paese.