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L'editoriale di Terza Repubblica

Dopo Grillo tocca a Fedez?

IL PARTITO DI DRAGHI (MA SENZA LUI) E UNA RIFORMA DELLO STATO PER EVITARE IL PARTITO DEGLI INFLUENCER

di Enrico Cisnetto - 07 maggio 2021

La macchina delle vaccinazioni ha finalmente raggiunto una discreta velocità, e la quantità di dosi in arrivo appare rassicurante. Il Piano per il Recovery è stato consegnato a Bruxelles nei tempi convenuti, e pur essendo ancora lacunoso è con tutta evidenza esponenzialmente migliore di quello cui aveva messo mano il duo Conte-Casalino. Le cose da fare, sul fronte sanitario come su quello della ripresa economica, sono ancora moltissime, ma la sensazione è che sui due punti decisivi degli impegni che il governo Draghi si è assunto, si possa esprimere un discreto grado di soddisfazione. Cosa che trova riscontro anche nei sondaggi d’opinione, i quali ci dicono che la maggioranza degli italiani è soddisfatta del lavoro che sta svolgendo l’attuale esecutivo.

Insomma, si potrebbe pensare che Draghi il suo lo abbia fatto e che, anche considerato che è uomo delle istituzioni ma estraneo alla politica, potrebbe tranquillamente mettere in conto tra otto mesi di lasciare il timone del governo a qualcun altro e trasferirsi, trionfante dei risultati ottenuti, al Quirinale. Invece, mai come adesso il presidente del Consiglio appare “prigioniero” del suo ruolo. E non solo perchè i sondaggi di cui sopra dicono anche che il grosso degli italiani preferirebbe che restasse premier fino al 2023, e perchè gli interlocutori europei dicono altrettanto (in particolare i due, Merkel e Macron, che qualche mese fa lo hanno convinto a superare la sua riluttanza). No, non vi sembri paradossale, ma i primi a volere che Draghi prolunghi la sua permanenza a palazzo Chigi sono i partiti, proprio quelli che sono stati costretti ad abdicare in suo favore. I quali da un lato scaricano volentieri oneri e responsabilità, e dall’altro si mostrano ogni giorno che passa sempre più impotenti, incapaci di analizzare la realtà, atterriti di fronte alla complessità che faticano a semplificare.

Ora, è possibile, anzi probabile, che Draghi decida di fare la cosa per lui più onerosa e meno conveniente, cioè che quella di restare al governo fino alla fine della legislatura. Ma non potrà non porsi lui, e tantomeno porci tutti noi, il problema di cosa succederà una volta che lascerà l’incarico. Che sia tra 8 o 22 mesi, cambia poco. E, paradossalmente, tanto più lui avrà fatto bene, e tanto maggiore sarà il problema. Perchè, da un lato, la montagna dei nodi da sciogliere e delle riforme da fare è talmente alta, che per quanto Draghi avrà fatto onore al soprannome che gli è stato affibbiato, SuperMario, comunque servirà un altro decennio virtuoso a farci imboccare la strada di quel Rinascimento da molti evocato e sognato. Mentre dall’altro lato, il tempo che abbiamo davanti è talmente poco e le premesse talmente pessime, che solo un atto di fede può farci credere che i partiti e il sistema politico useranno i prossimi mesi per resettarsi e riconquistare la fiducia perduta dei cittadini.

Dunque, mentre si lavora sul presente, occorre fin d’ora pensare al futuro prossimo. E qui, come dicevo, i segnali paiono inquietanti. Stiamo iniziando a smaltire la sbornia dei nessuno che vanno trionfalmente al potere solo perchè hanno urlato “vaffa” nelle piazze e sui social, che se ne profila un’altra. Perchè la vicenda Fedez avvenuta (non casualmente) alla manifestazione del primo maggio – qualunque sia il giudizio sul personaggio (il mio è pessimo) e sul merito dell’accaduto – mi fa temere che il vuoto che si sta nuovamente creando nella politica, questa volta possa essere riempito da qualche pifferaio magico che dall’alto dei milioni di followers e di like che può vantare, vesta i panni del tutore del politicamente corretto (tornato di moda per effetto della pandemia), s’impalchi e detti la linea. Sì, il vuoto che sta creando l’implosione dei 5stelle unita alla caduta verticale della credibilità personale di Grillo (per quanto possa apparire inconcepibile, ce ne aveva, evidentemente), potrebbe benissimo essere riempito dal “partito dell’influencer”, che dispone di un enorme tesoretto di voti potenziali pronti a diventare effettivi se qualcuno vorrà trasformare la loro “influenza specifica”, costruita sul terreno della reputazione digitale (la più artificiale che esista), in “influenza generale” che tocca tutti gli aspetti della vita sociale. Come ha spiegato molto bene sulla Stampa il sociologo Massimiliano Panarari, se lo schema è “la mia credibilità è la probabilità di essere creduto”, ecco che la possibilità per i Ferragnez di essere ritenuti sinceri perché non contaminati, tantomeno dalla politica, è altissima.

D’altra parte, basta vedere cosa è successo al titolo Tood’s in Borsa (dico la Borsa, mica la discoteca) allorquando si è diffusa la notizia che la influencer Ferragni (moglie di Fedez) sarebbe entrata nel consiglio di amministrazione (dico il cda di una quotata, mica il consiglio del condominio o della scuola) della società di Diego Della Valle, per capire la portata del possibile fenomeno. E se Grillo, che proveniva dal vecchio show business, ha creato il primo partito d’Italia, cosa capiterebbe se dopo di lui a riprovarci fosse la coppia Fedez-Ferragni, re e regina del nuovo show business? Non oso immaginarlo. Ma posso darvi un numero: i followers dei due arrivano a 36 milioni, cioè il 77% dei cittadini italiani aventi diritto al voto. Certo, l’engagement sul web è di natura tutta diversa da quello politico, ma francamente proprio non capisco come possa venire in mente ad un partito tradizionale di ricomprendere nell’ambito delle proprie proposte politiche il “diritto di voto ai sedicenni”, cioè a coloro, tra i 16 e i 18, che più popolano le tribù web. Puro autolesionismo.

A pensarci bene, comunque, il paradigma della follower leadership – laddove il politico anziché essere il leader, cioè quello che indica una direzione di marcia, che descrive un destino e un orizzonte per la propria comunità, è il detentore di “seguaci” – non è cosa di oggi ma, come il populismo, viene da lontano. E non è cosa solo italiana. Il vero tema, però, è il susseguirsi, in questi ultimi anni, dell’apertura di sempre nuove e sempre più ampie finestre di opportunità per outsider extra politici, proprio perché la politica, di fatto, si è ritirata. E più la politica si ritira, e più chi di volta in volta riempie il vuoto, è peggiore del precedente.

Per questo occorre fermare la giostra. Ora Draghi, pur non provenendo dalla militanza politica, rappresenta l’opposto della follower leadership. È il simbolo della competenza e dell’austerità istituzionale. E quindi è un freno al decadimento. Ma solo fino a quando ricopre quel ruolo. E dopo? Gli attuali partiti, chi più chi meno tutti di lotta e di governo (la differenza sta solo nei modi), non sono certo adatti a dare continuità a questa fase. La quale, tra l’altro, tanto più sarà virtuosa e tanto più metterà sotto gli occhi dei cittadini i loro difetti. Come ha scritto Marco Follini, “se i partiti lottano e il presidente del Consiglio governa, è evidente che la gran parte delle lotte in corso finiranno per rivelare la loro inanità”. Se poi lottano per prolungare l’orario dei ristoranti dalle 22 alle 23 o litigano sul consumo del caffè (al banco o al tavolino del bar, o da asporto?), mentre Draghi chiama la von de Leyen per tranquillizzarla che sul PNRR si farà come dice lui (“garantisco io”), beh non c’è bisogno che vi dica chi conta e chi è destinato all’irrilevanza.

D’altra parte, se l’azione riformatrice di Draghi dovesse avere tra i suoi effetti anche quello di sparigliare le carte dei partiti che lo sostengono, ciò sarebbe cosa buona e auspicabile. Ma a maggior ragione, tocca ragionare sul “dopo”. E qui ci sono solo due scenari, peraltro non necessariamente alternativi tra loro. Anzi. Il primo scenario è che nasca il “partito di Draghi”. Però, se il significato di questo fosse la discesa in campo dell’ex presidente della Bce, sarebbe tanto augurabile quanto probabile: poco o niente. Se invece significasse la nascita di un partito capace di inserirsi nel solco dell’azione di Draghi senza per questo coinvolgerlo direttamente, e riempisse quel sempre più grande spazio vuoto che nella geografia politica sta al centro, allora sarebbe cosa buona e giusta.

Il secondo scenario, è che si metta mano alla Costituzione e si riformi la Repubblica. Per il tramite di un’Assemblea Costituente. O, se ne si ha paura (del termine, più che altro), per il tramite di una Commissione ristretta (di non parlamentari) eletta con voto proporzionale puro a collegio unico nazionale, la cui nascita sarebbe da approvare in parlamento con i criteri della legge costituzionale. Per mille e una ragione, questa proposta non può essere Draghi ad avanzarla, anche se sarebbe auspicabile che ne preparasse diplomaticamente il terreno (il suo non inseguire riflettori e telecamere lo favorirebbe in questo) con coloro che stanno nella sua maggioranza. Dovrebbero essere i leader di partito a farlo. Finora l’unico che ne ha parlato – aggiungendo anche il non trascurabile dettaglio che la stessa legge con cui si istituirebbe la Commissione di riforma costituzionale dovrebbe prevedere il prolungamento fine a fine legislatura del mandato di Mattarella, in modo dar coincidere i tempi – è stato l’ex presidente del Senato, Marcello Pera. Meritoriamente, ma appunto, un ex. Qui tocca che si diano una mossa coloro che controllano gli attuali gruppi parlamentari, magari sospinti da un po’ di pressione mediatica. Altrimenti Draghi diventerà presto un rimpianto e loro saranno spazzati via dal primo Fedez che passa.

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