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L'editoriale di Terza Repubblica

Frankestein-Conte e il Partito Democratico

CRISI DI GOVERNO (SEMI) CHIUSA CRISI POLITICA APERTISSIMA. ORA DIPENDE TUTTO DAL PD

23 gennaio 2021

Il governo ha una maggioranza abbastanza larga alla Camera e non è in minoranza al Senato. Se si volesse archiviare così la tragicomica verifica sulla fiducia al Conte2, la crisi di governo potrebbe dirsi chiusa, seppur malamente. Peccato, però, che non sia affatto esaurita la crisi politica, che riguarda non solo la vecchia maggioranza e quella nuova che ancora non si vede, ma anche l’intera opposizione. Di sicuro c’è soltanto che l’esecutivo è maledettamente più debole di quanto già non fosse, a maggior ragione al cospetto di una pandemia che sembra passare senza soluzione di continuità dalla seconda alla terza ondata facendone una cosa sola e di una crisi economica che si accinge a diventare sociale in modo esplosivo, con milioni di persone “irregolari” che chiedono soccorso, a partire dal consumo dei pasti, perché precipitano dall’area dell’evasione a quella della fame.

Gli sconfitti sono tanti. Anzi, tutti. Lo è Renzi, che come al solito ha maneggiato obiettivi giusti (rompere l’immobilismo dell’esecutivo e il cesarismo a suon di Dpcm di Conte) con modi sbagliati, finendo per non centrare né il suo obiettivo politico (pienamente legittimo) né quello di interesse generale (cosa che a me personalmente, e credo a molti dei miei lettori, brucia non poco). Meschino e fuorviante fare di Renzi un capro espiatorio, ma quel voto di astensione gli sarà giustamente rinfacciato non meno che la ormai famigerata testardaggine sul referendum (e non si dica che l’ha fatto per tenere insieme il suo drappello di senatori, perché, essendo vero che erano divisi, la cosa avrebbe dovuto indurlo ad adottare un’altra tattica).

Altrettanto sconfitto ne è uscito Conte. Il presidente del Consiglio, che per arroganza ha rinunciato a dare alla crisi il percorso più limpido e lineare – salire al Colle e dare le dimissioni – mettendo così in fortissimo imbarazzo il Capo dello Stato. E se pure è riuscito a prendere la sufficienza stiracchiata in aritmetica raccattando un po’ di voti improvvisati, è stato bocciato in strategia visto che non avrà la forza e l’unità di intenti che servono in una fase eccezionale come quella che stiamo vivendo. Si, è vero, si è confermato leader indiscusso del trasformismo, partito trasversale che da sempre anima la politica italiana, ma questo gli costerà caro (a dispetto dei sondaggi odierni) se e quando vorrà (e dovrà) cercare la “legittimazione elettorale”. Per il semplice motivo che in quel momento sarà costretto a fornire una definizione politica di sé – che fin qui si è ben guardato dal dare, non avendocela – che faccia riferimento ad un filone culturale, quale che sia. Fin qui è passato senza batter ciglio dal definirsi “populista e sovranista” (Conte1) e assumere le vesti di “cheerleader di Trump” (Conte1 e Conte2) all’evocare il suo “europeismo nel nome di Ursula” (Conte2 e Conte2bis), ma prima o poi dovrà svelarsi e non potrà essere Casalino a risolvergli il problema. 

Lo è, sconfitto, il movimento 5stelle. Non perché abbia abiurato (nei fatti) le primordiali pulsioni anti-politiche – che, semmai, per quanto sia vero (almeno un po’ lo è), è cosa buona e giusta – ma perché lo ha fatto senza un minimo di autocritica evolutiva e adottando le “worst practices” più abominevoli senza provare la minima vergogna. Inoltre, nella circostanza della crisi aperta da Renzi, è apparso ancor più grande di quanto già non fosse lo iato tra la forza parlamentare dei pentastellati, che li rende decisivi, e la loro leadership politica, che li palesa ininfluenti.

Ma, non sembri strano, sul gradino più alto del podio degli sconfitti va collocato il Pd, e con esso la sinistra nel suo insieme. La deriva viene da lontano, ma risulta incredibile come i Democratici da quando sono tornati in maggioranza non siano stati capaci di andare oltre l’iniziale “fermiamo Salvini”. Privi non dico di una prospettiva strategica, ma neppure di un barlume di sapienza tattica, si sono imbarcati – auspice il “santone” Bettini – in una santa alleanza con i grillini che ha avuto e tuttora pervicacemente ha – auspice il “lobbista” D’Alema, più un manipolo di “burattinai” dentro e fuori le istituzioni – il suo perno e baricentro nella premiership del politicamente indefinito e indefinibile Conte. Come sia stato possibile per il Pd arrivare a trasformare l’avvocato del popolo, tatticamente incontrato sulla propria strada, non solo in una conditio sine qua non per l’esistenza della maggioranza e del governo ma addirittura in un leader unificante della sinistra, francamente è un mistero. Forse dalle parti del Nazareno dovrebbero ripescare in biblioteca il romanzo tra il gotico e l’horror “Frankenstein or The Modern Prometheus” che la britannica Mary Shelley scrisse poco più di 200 anni fa, e indagare come il mostro creato dal dottor Victor Frankenstein, frutto di esperimenti eticamente discutibili, fosse sfuggito al suo controllo. Si accorgerebbero, quelli del Pd, che accecato dall’unicità della propria creatura e dall’idea di poterla usare a piacimento, il dottor Frankenstein non comprese che il mostro gli sfuggiva di mano, diventando “antagonista”, tanto che, indifferente ai richiami della ragione, lo scienziato finì per percepire troppo tardi la rovina che sarebbe derivata da quella maledetta creazione.

I democratici sanno bene, anche per aver armato la mano di Renzi, che il Conte2 è stato ben al di sotto delle loro aspettative e, soprattutto, delle drammatiche sfide cui è sottoposta l’Italia. E sono consapevoli che il modo con cui il presidente del Consiglio ha affrontato la crisi innescata da Renzi non ha portato ad un assetto di governo forte e stabile. Ma al loro interno è l’ala riformista – quella che il mio amico Emanuele Macaluso, cui dedico un affettuoso pensiero, non ha smesso di sollecitare a reagire fino al giorno della sua morte – che deve saper leggere per tempo dove porta la traiettoria della subalternità a Conte e ai 5stelle, e non accontentarsi dei numeri stiracchiati in Senato e del fatto di aver ottenuto da palazzo Chigi la rinuncia alla titolarità dei servizi e il cambiamento (molto parziale, peraltro) del Recovery. Se ancora esistono, i riformisti del Pd escano allo scoperto, denuncino la linea senz’anima del loro partito e si assumano la responsabilità di dire no ad una governabilità fine a sé stessa, chiedendo e imponendo una svolta radicale in nome del fatto che “Conte non val bene una messa” e che il Paese ha urgentemente bisogno di una maggioranza più larga e di un assetto di governo più autorevole e competente.

Se poi a queste ragioni alte, si aggiungono quelle più spicce, ma non per questo disprezzabili, di bottega, per cui il Pd corre seriamente il rischio di tornare Ds (cioè il partito che non ha più niente alla sua sinistra, come sancirebbe il ritorno di Bersani e di tutta Leu e l’assorbimento dei partitini comunisti) lasciando al costituendo partito “Con-te” il ruolo moderato che un tempo era della Margherita, ecco che le ragioni per far tesoro di una attenta rilettura di Frankenstein si moltiplicano.

Ma prima di concludere, va detto che sul podio degli sconfitti salgono anche i signori del centro-destra. Da un lato ci si sono messi da soli coloro (Salvini e Meloni) che non hanno saputo far altro che ripetere il mantra delle elezioni anticipate. Un po’ perché non le hanno ottenute, ma soprattutto perché evocandole hanno fatto il gioco di Conte (temo in modo consapevole, giacché anche nei loro scranni i parlamentari non scalpitano per andare al voto, visto che il “taglio” sciaguratamente imposto a Camera e Senato finirà per compensare l’aumento dei voti rispetto al 2018). Dall’altro ci è finito anche il più cauto Berlusconi, che ha rovinato il plus della prudenza con il minus dell’operazione Rossi. Infatti, sia che la sua ex “badante” abbia votato a favore del governo senza che il Cavaliere lo sapesse, magari per una qualche forma di ripicca, sia che lo abbia fatto su suggerimento del suo “capo”, per lanciare un messaggio in bottiglia a Conte e al Pd, comunque non si tratta certo di un passo avanti rispetto ai tempi di De Gregorio e Scilipoti. Non è così che ci si dimostra interlocutori di quella parte della società, quella più produttiva e meritevole, che reclama disperatamente un governo autorevole saldamente alla guida di un paese ancorato in Europa. Complessivamente, ancora una volta il centro-destra si è mostrato e continua a mostrarsi incapace di rappresentare una alternativa, privo com’è di una politica. Non può dire “riaprite tutto in nome dell’economia” e non può andare contro l’Europa che ci mantiene. Al massimo può fare rappresentanza corporativa dei ceti autonomi, che però in buona misura oggi chiedono una radicalità trumpiana, che Salvini (con però molti mal di pancia interni alla Lega) e Meloni sono ben felici di dare (anche perché è l’unica nota che sanno suonare), ma che Berlusconi e i cespugli centristi che in Europa si riconoscono nel Ppe non possono permettersi più di tanto.

Ecco perché la coda della crisi di governo potrà anche dare a Conte qualche numero in più che lo rassicuri – il suk è aperto h24 – ma la crisi politica, anzi la crisi della politica, è tuttora drammaticamente aperta. Sulle spalle dell’Italia.

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