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Public Policy

L'editoriale di Terza Repubblica

Tra Recovery e manovra

SENZA “PIANO RECOVERY” E CON UNA MANOVRA SENZA INVESTIMENTI NON SI CURA NÉ VIRUS NÉ  RECESSIONE

21 novembre 2020

La politica è l’arte dell’impossibile. Per merito (o demerito) di Silvio Berlusconi ci toccherà modificare, andando oltre, la famosa definizione di Otto Von Bismarck “la politica è l’arte del possibile, la scienza del relativo”. Già, perché ove mai si realizzasse il fin qui impensabile sostegno di Forza Italia al governo 5Stelle-Pd-Leu – che la consueta imperizia politica di Salvini sta facendo di tutto per facilitare – esso avverrebbe in occasione del passaggio parlamentare della manovra di bilancio, presentata in questi giorni, con un mese di ritardo. Cioè su un provvedimento che più di ogni altro dovrebbe tenere lontana una forza di opposizione. Intanto perché come sempre capita e visti i tempi stretti (tant’è che la Camera lo discute e il Senato lo ratifica, secondo lo schema del monocameralismo all’italiana), quasi certamente verrà posta la fiducia, e dunque sostenere la manovra significherebbe votare la fiducia, con tutto quel che comporta politicamente, e di conseguenza aprire la crisi di governo. È vero che, a questo proposito, è già stato individuato il marchingegno: secondo alcuni costituzionalisti, non ci sarebbe un cambio dell’attuale maggioranza, ma un rafforzamento della vecchia, e questo potrebbe evitare la formale apertura della crisi. Ma ciò varrebbe solo se nella circostanza la maggioranza non perdesse pezzi.

Tuttavia, è il secondo motivo quello che dovrebbe pesare di più: la qualità – scarsa, per essere gentili – della legge di bilancio. Intanto essa arriva dopo ben sei altre manovre che ci sono state in corso d’anno (“Cura Italia”, “Liquidità”, “Rilancio 1” e “Rilancio 2”, “Ristoro 1” e “Ristoro 2”), cui decreti attuativi sono ancora da scrivere per circa i due terzi. Alla fine dell’anno, sommate insieme le varie manovre ammonteranno a oltre 150 miliardi, e gli scostamenti rispetto alle linee guida del bilancio pre Covid porteranno il deficit al 10,8% e il debito al 159,6% (dal 134,6% che era) del pil, mentre il reddito nazionale calerà non meno del 10%. Mentre per l’anno prossimo si sta prefigurando uno scenario assai diverso da quello scritto dal governo nei documenti programmatici, in cui la curva del pil salirà decisamente meno di quanto si sperasse (l’obiettivo era una crescita del 6%) e di conseguenza il debito arriverà intorno al 170%. E poi questo è il solito provvedimento omnibus con dentro di tutto di più (229 articoli), compreso lo “strano ma vero”, misure e misurette che distribuiscono risorse a pioggia senza alcun coordinamento e intento strategico, con la conseguenza che le spese per investimenti cubano meno del 25% del totale.

Il fatto è che il Governo sta promettendo soldi a tutti, senza guardare troppo per il sottile: a coloro che sono effettivamente colpiti dalle conseguenze economiche della pandemia ma anche a chi non lo è (le agevolazioni per i monopattini, per esempio); a chi ha perso reddito a fronte di attività che avevano futuro e dopo il Covid torneranno ad averne, ma anche a chi, invece, viveva di attività marginali, destinate comunque a soccombere. Con una doppia conseguenza negativa: di far arrabbiare quando dopo aver promesso non mantiene, inciampando nella burocrazia; di far sballare i conti pubblici. Perché è vero che in questa fase è lecito e logico fare nuovo debito, e così fan tutti: l’Europa complessivamente arriverà a un debito superiore al pil (102%-103%) e i paesi Ocse addirittura al 130%, mentre il Fondo Monetario stima che il debito pubblico e privato planetario, che già aveva superato i 150 trilioni di dollari, pari al 225% del pil mondiale, nel 2021 aumenterà del 17% per le economie avanzate e del 12% nei paesi in via di sviluppo. Ma non possiamo non tenere conto sia che l’Italia è partita molto più avanti degli altri nella corsa all’indebitamento, e dunque prudenza vorrebbe che in questa fase ne accumulasse di meno, sia del monito di Mario Draghi (c’è debito e debito), per cui se spendi per fare investimenti e sostenere lo sviluppo, stai facendo “debito buono”, se invece, come nel nostro caso, fai spesa corrente improduttiva, stai facendo “debito cattivo”. Quello per i ristori è per definizione del secondo tipo. Certo, l’obiettivo è quello di lenire i danni procurati dal blocco delle attività e della circolazione delle persone, per evitare danni e conflitti sociali. Ma amministratori della cosa pubblica che non abbiano attenzione solo per l’acquisizione del consenso, e per i sondaggi che lo misurano (più o meno bene), bensì guardino agli effetti a medio termine delle politiche intraprese, non possono non porsi il problema che i soldi dei vari bonus e sostegni producono debito e ben poco reddito. E dunque, quando il vaccino ci avrà liberato dal virus si faranno i conti e si vedrà che l’Italia avrà accumulato un debito pubblico enorme a fronte di spese che non avranno prodotto crescita economica. E saranno guai seri.

Dunque, se reiterare una modalità di politica economica che già si è dimostrata fallimentare, tanto più in un momento come questo in cui si sommano a mo’ di miscela esplosiva la crisi sanitaria e la recessione più gravi della storia repubblicana, è autolesionista per chi la propone – e, purtroppo, per il Paese – accordarsi ad essa dall’opposizione è a dir poco temerario. Anche perché c’è un terzo motivo che aggrava ancor di più il quadro: la manovra non è accompagnata, come era lecito attendersi, dal PNRR, il Piano nazionale di ripresa e resilienza, che è ancora allo stato larvale come pura somma delle (più disparate) esigenze elencate a mo’ di lista della spesa dai diversi ministeri. Sono mesi che si parla del Recovery Fund, poi diventato Next Generation Eu, e della possibilità che queste risorse trasformino il dramma della pandemia in un’opportunità, ma l’Italia – specializzata solo nel reclamare più risorse, questo sì all’unisono, europeisti e sovranisti unanimi – non è ancora stata capace di declinare le sue priorità, se non in summary fatto di parole d’ordine, generiche e vuote, all’insegna di un vacuo “politicamente corretto”.

Insomma, se queste sono le premesse, anche per chi, come me, è molto favorevole a mettere la gestione dell’emergenza in capo ad un governo di unità nazionale, diventa difficile guardare al possibile rendez vous di Berlusconi con Conte senza diffidenza. Non solo e non tanto per il conflitto d’interesse che il Cavaliere si porta dietro – lo stop a Vivendi su Mediaset – quanto perché non c’è lo straccio di una proposta sul tavolo e un metodo di confronto alla luce del sole. Tutte cose di cui ci sarebbe bisogno proprio ora che anche in Europa, alle prese con la bomba innescata da Ungheria e Polonia, c’è bisogno di grandi convergenze. È inutile nascondercelo: a Bruxelles sono a dir poco irritati nei confronti di Roma che si è rifiutata di prendere i soldi del MES pur avendo una crisi delle sue strutture sanitarie più che evidente, e non ha ancora definito il piano degli investimenti del Next Generation EU. Contribuendo così al ritardo del Recovery e facilitando il ricatto di Varsavia e Budapest. Una mancanza di capitale politico e di credibilità che non ci consente – ma chissà se lo avremmo fatto comunque – di scendere in campo a fianco del presidente francese Macron che vuole andare avanti comunque, chi ci sta ci sta, superando quel maledetto diritto di veto che rappresenta il principale problema nella governance europea.

Il presidente del Consiglio e le forze di maggioranza dovrebbero rendersi conto che la sconfitta di Trump rende meno cogente il pericolo sovranista nel Vecchio Continente, e dunque che i leader europei – liberatesi almeno in parte dell’incubo Salvini – non sono più disposti a fare sconti ed essere indulgenti nei confronti dell’Italia. Capito questo, dovrebbero proporre a Macron di minacciare di trasformare il “pacchetto Recovery” da una iniziativa dell’Unione a un’iniziativa della sola Eurozona, mettendo così Polonia e Ungheria nella condizione di dover scegliere tra la loro ostentata “sovranità” ma senza i ricchi trasferimenti netti che gli arrivano dall’Ue, o la ragionevolezza in nome della salvaguardia di questi ultimi. Coinvolgendo su questo anche Berlusconi e tutti coloro che sono disposti a sostenere questa linea. Invece, l’unica nota italiana è stonata: l’uscita di David Sassoli sull’annullamento (impossibile) dei debiti, e per di più quelli mutualizzati.

Non vorremmo essere nei panni del presidente Mattarella.

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